mercoledì 17 agosto 2011

Giuseppe Pitrè, Lu munacheddu.







Lu munacheddu.

(Opera LI, Libro II, da Fiabe, novelle e 
racconti popolari siciliani di Giuseppe Pitrè)**



Ora cuntu un cuntu chi fa scantari pocu mancu; èsti lu cuntu di lu Munacheddu.
Si cunta e si riccunta ca cc'eranu 'na vota dui munaceddi. Sti dui munaceddi ogn'annu jianu a la cerca: uno era cchiù granni e uno era cchiù nicu. Ogn'annu jianu a la cerca, ca jèranu puvireddi. 'Na vota sgarraru la via; un viulazzu tintu tintuni. Lu nicu dissi a lu granni: — «'Un è lu violu nostru, chistu.» — «Avogghia, caminamu.»
Caminannu vittiru 'na grutta grannissima, e cc'eran'armalu chi facía focu; ma iddi 'un si lu cridevanu ch'era n'armalu. Dici: — «Ora si nni jemu ddocu a ripusari.» — Traseru, e cc'era st'armalu ch'ammazzava pecuri (ca avia pecuri) e la jardiava. Comu traseru chisti, st'armalu ammazzau 'na vintina di pecuri, li jardiau. — «Manciàti!» — «'Un vulemu manciari, ca 'un avemu fami.» — «Manciàti v'haju dittu!» Accabbata ca si manciaru tutti sti pecuri lu diavulu si susíu (ca dd'armalu era diavulu); iddi si curcaru, e iddu, l'armalu, iju a pigghiari 'na petra grannissima, la misi davanzi la grutta, pigghiau un ferru grannissimu puntutu puntutu, lu jardíu, e cci lu nfilau 'nta lu coddu a lu granni di li munaceddi, lu jardiau e si lu vulia manciari cu lu nicu. — «Nu nni vogghiu manciari, ca sugnu sàturu,» dici lu nicu. — «Susi, masinnò a tia ammazzu.»
Lu mischineddu pi lu scantu si susíu, si misi 'n tavula, pigghiava, lu mischinu, un pizzuddu, e facia finta ca manciava, e jittava 'n terra, e jittava 'n terra. — «Maria! sugnu sàturu, veru.»
A la notti lu banientu pigghia lu ferru, lu quadiau e cci lu ficca 'nta l'occhi; l'occhi cci sbudiddaru tutti. — «Ah! ca m'ammazzau!» Lu banientu si 'nfilau 'nta la lana di li pecuri pi lu scantu; a tantuni a tantuni l'armalu va a leva la petra di la grutta e nesci tutti li pecuri a una a una. Vinni la pecura unn'era lu banientu, e lu banientu 'un cc'era cchiù. Si nni iju 'n Trapani, a mari. Cc'eranu 'n Trapani tutti li varchi, e li vara. Dici iddu: — «Ora facìtimi mettiri ddocu e vi lu cuntu.» Si misi 'nta na varca; l'armalu lu iju a piscari, e li marinara misiru a curriri varca varca. 'Nta mentri curri, pigghia 'na petra di pettu, iddu, ca era orvu, cadíu e si rumpíu la testa. Lu mari, a quantu sangu cci niscíu a chistu, si russiau tuttu. Lu picciottu si nni iju, e l'armalu arristau ddà.
E accabbau lu cuntu.

Erice




LI.
(Traduzione letterale)

Il fraticello.
Adesso vi racconto una storia che mette non poca paura; questa è la storia del fraticello.
Si racconta da sempre che c’erano una volta due fraticelli. Questi due fraticelli ogni anno andavano a fare la questua: uno era più grande e uno più piccolo. Ogni anno andavano a fare la questua perché erano poverelli. Una volta sbagliarono la strada e presero un sentiero bruttissimo. Il più piccolo disse al più grande: — «Non è il nostro viottolo questo» — «Non importa, andiamo.»
Camminando videro una grotta grandissima, dov’era un animale che faceva del fuoco; ma quelli non potevano credere che fosse un animale. Dice: — «Ora andiamo là per riposare.» — Entrarono e trovarono questo animale che ammazzava pecore (perché aveva pecore) e le cucinava. Non appena questi entrarono, l’animale ammazzò una ventina di pecore e le cucinò. — «Mangiate!» — «Non vogliamo mangiare perché non abbiamo fame.» — «Mangiate, vi ho detto!» Non appena finirono di mangiare tutte le pecore, il diavolo si alzò (perché quell’animale era il diavolo); quelli si misero a dormire, e quell’altro, l’animale, andò a prendere una pietra grandissima, la mise davanti alla grotta, prese un ferro grandissimo molto appuntito, lo mise sul fuoco e infilzò al collo il più grande dei fraticelli, lo cucinò e volle mangiarlo con il più piccolo. — «Non lo voglio mangiare perché sono pieno,» disse il piccolo. — «Alzati, sennò t’ammazzo.»
Per la paura il disgraziato si alzò, prese posto a tavola, ne prendeva, il poveretto, un pezzetto, e faceva finta di mangiarlo, e invece lo gettava a terra. — «Mamma mia, sono pieno, per davvero.»
Di notte il buonuomo prende il ferro, lo mette sul fuoco e glielo conficca negli occhi; gli occhi gli schizzarono di fuori tutt’e due. — «Ah, mi hanno ammazzato!» Per la paura il buonuomo si nasconde tra la lana delle pecore; a tentoni l’animale va a togliere la pietra dell’antro della grotta e fa uscire le pecore a una a una. Poi fu il turno della pecora dov’era il buonuomo; ma il buonuomo non c’era più. Se n’era andato a Trapani, al mare. C’erano a Trapani tutte le barche e i pescatori. Lui dice: — «Fatemi accomodare là e vi racconto tutto.» Si mise nella barca; l’animale li andò a pescare, e i marinai si affrettarono a raggiungere le barche. Mentre corre, inciampa su una pietra, perché era cieco, cadde e si ruppe la testa. Il mare, per il tanto sangue che quello perdeva, si tinse tutto di rosso. Il ragazzo se ne andò, e l’animale rimase là.
E così finì il racconto.

Erice



LI.
(Traduzione in italiano)

Il frate.

Adesso vi racconto una storia che mette non poca paura. È la storia del frate.
Si racconta da sempre che c’erano due frati che ogni anno andavano a fare la questua: uno era più grande e uno più piccolo. Andavano a fare la questua perché erano molto poveri. Una volta, però, sbagliarono strada e presero un sentiero mai battuto. Il più piccolo disse al più grande: «Questo non è il nostro viottolo.»
L’altro gli rispose: «Non importa, andiamo.»
Camminando videro una grotta grandissima, dov’era un orco che faceva una brace. Quelli, però, non potevano credere che fosse un orco. Così uno disse all’altro: «Ora andiamo là per riposare.» Entrarono e trovarono quest’orco che ammazzava pecore (perché allevava soltanto pecore) e le cucinava. Non appena l’orco li vide, sgozzò una ventina di pecore e le cucinò alla brace.
«Mangiate!» li invitò.
«Non vogliamo mangiare perché non abbiamo fame.» gli risposerò quelli risoluti.
«Mangiate, vi ho detto!» insistette l’orco.
Non appena finirono di mangiare tutte le pecore, il diavolo si alzò (perché quell’orco era il diavolo in persona); mentre i due frati si misero a dormire. A quel punto, l’orco andò a prendere una pietra gigantesca e l’appoggiò davanti alla grotta per impedire che i due frati fuggissero. Poi prese un ferro enorme molto appuntito, lo mise sul fuoco e quando fu incandescente, lo infilzò al collo del più grande dei frati. Lo cucinò alla brace e volle mangiarlo con il più piccolo.
«Non lo voglio mangiare perché sono sazio.» disse il frate.  
«Alzati, sennò ti ammazzo.» insistette l’orco.
Per la paura il disgraziato si alzò, si sedette a tavola e, per non contrariare l’orco, ne prendeva un pezzetto, faceva finta di mangiarlo e, invece, lo gettava a terra. «Mamma mia, sono sazio, per davvero.» si giustificava per sottrarsi a quella situazione.
Di notte il buonuomo, mentre l’orco dormiva, prese il ferro, lo mise sul fuoco e quando fu incandescente, glielo conficcò negli occhi che gli uscirono dalle orbite. Per il dolore l’orco cominciò a urlare: «Ah, mi hanno ammazzato!».
Per non essere ucciso e mangiato anche lui, il buonuomo si nascose nella lana delle pecore; mentre l’orco a tentoni raggiunse l’antro della grotta per togliere la pietra e fare uscire le pecore a una a una. Quando fu il turno della pecora dove si nascondeva il buonuomo, quello non c’era più perché se n’era già andato a Trapani, al mare.
Là, per fortuna, c’erano tutte le barche e i pescatori. Il frate gli disse: «Fatemi accomodare nella barca e vi racconto la brutta avventura che ho vissuto.»
Quelli lo fecero sedere nella barca, ma l’orco li raggiunse, e tutti i marinai se la diedero a gambe levate per non essere uccisi. Mentre l’orco correva per raggiungerli, inciampò su una pietra, perché oramai era cieco, cadde e si ruppe la testa. Per il tanto sangue che perdeva, il mare si tinse tutto di rosso. Il frate ne approfittò e se ne andò mentre l’orco rimase là.
E così finì il racconto.

Erice


Produzione: Ithaca©

* Copertina: free copy da internet, Annibale Carracci - La Galleria Farnese: Polifemo e Aci
** Testo: FIABE, NOVELLE E RACCONTI POPOLARI SICILIANI RACCOLTI ED ILLUSTRATI DA GIUSEPPE PITRÈ, FORNI EDITORE — BOLOGNA, Ristampa anastatica dell'edizione di Palermo, 1870-1913, Vol. II, Opera LI.

6 commenti:

  1. Questo breve racconto - tratto dal secondo volume delle Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani di Giuseppe Pitrè - ambientato in Sicilia tra Erice e Trapani, ha non poche similitudini con la narrazione omerica di Polifemo e Ulisse. Qui, presentiamo la traduzione letterale e in italiano.

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  2. Coinvolgente direi ... :)) ... complimenti all'autore <3 ... Cinzia

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  3. mamma mia cheppaura.....ho ancora la pelle d'oca!!! :D

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  4. F a v o l o s a :-) l'ho letto senza fiato, è fantastico! "Ora cuntu un cuntu chi fa scantari pocu mancu" poi è una frase da imparare a memoria :-)

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  5. Complimenti anche per la traduzione, devo dire che non facile.

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  6. ma che bella!!! veramente delicziosa!!! complimenti all'autore!!!

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