Il
paradiso di Magnus Pym
La
spia perfetta
di
John Le Carrè
Il paradiso era una
terra dorata tra Gerrards Cross e il mare, dove Dorothy stirava con addosso un
pullover d’angora e andava a fare la spesa con un cappottone blu. Il paradiso
era il luogo in cui Rich e Dorothy si erano rifugiati dopo il matrimonio
clandestino, una terra di sogno con nuove partenze e tanti futuri eccitanti, ma
io non ricordo un giorno di quel periodo senza che Lippsie non vi si aggirasse
sullo sfondo con passo impaziente o mi dicesse quello che è giusto o quello che
è sbagliato con una voce che non mi irritava. A est, a un’ora di Bentley, c’era
la Città, e nella Città c’era il West End dove Rich aveva l’ufficio; e
nell’ufficio c’era un grande ritratto fotografico colorato a mano del Nonno TP
che portava il collare al sindaco, ed era per via dell’ufficio che Rich tornava
a casa tardi la sera, il che per il piccolo Pym andava benissimo perché allora
poteva entrare nel letto con Dorothy per darle un po’ di calore, lei era minuta
e freddolosa anche per un bambino. Certe volte Lippsie restava a casa con noi,
certe altre andava a Londra con Rich perché doveva diplomarsi e, adesso,
capisco, giustificare il fatto che fosse viva quando tanti del suo popolo erano
morti.
Il paradiso era una
successione di lustri cavalli da corsa che Syd chiamava “semprelesti” e un
susseguirsi di ancor più lustre Bentley che, come le case, si consumavano con
la stessa rapidità del credito a cui erano state comprate e che bisognava
cambiare con velocità da mozzare il fiato per comprare altri modelli più nuovi
e più cari. Certe volte le Bentley erano talmente preziose che bisognava
portarle dietro la casa e nasconderle in giardino per paura che lo sguardo
degli infedeli ne appannasse lo splendore. Certe altre volte Pym le guidava a
mille miglia all’ora sedendo in grembo a Rich, lungo strade in costruzione dal
fondo sabbioso fiancheggiate da betoniere, suonando il gran clacson dalla voce
profonda mentre Rich salutava gli operai gridando “Come va, ragazzi?” e
invitandoli tutti quanti a casa sua a bere un bicchiere di spumante. E c’era
anche Lippsie con noi seduta accanto al volante, dritta e remota come un
cocchiere, finché Rich non le rivolgeva la parola o non diceva qualche battuta.
Allora il suo sorriso era come il sole delle vacanze e lei ci amava tutt’e due.
Il paradiso era anche
St. Moritz da dove arrivavano i coltelli a serramanico svizzeri, per quanto non
so come le Bentley e quei due inverni di prima della guerra passati in Svizzera
si siano fusi nella memoria in un luogo solo. Anche oggi mi basta sentire
l’odore di cuoio che si sente dentro una macchina di lusso per tornare con
voluttà alle grandi sale d’albergo di St. Moritz sulla scia del turbolento
amore di Rich per le celebrazioni. Il Kulm Hotel, il Suvretta House, il Grand
Hotel per Pym erano un unico gigantesco palazzo con servitori diversi ma con
un’unica corte: il seguito di Rich composto da buffoni, acrobati, consiglieri e
fantini; lui praticamente non andava da nessuna parte senza di loro. Di giorno,
portieri italiani muniti di lunghe scope ci toglievano la neve dagli scarponi
ogni volta che passavamo dalle porte girevoli. Di notte, mentre Rich e la sua
corte banchettavano con le Bellezze del luogo e Dorothy era troppo stanca, Pym
s’avventurava tenuto per la mano da Lippsie per le viuzze coperte di neve
stringendo il coltello a serramanico che aveva in tasca e immaginando di essere
un principe russo pronto a proteggerla da chiunque ridesse di lei visto che era
tanto seria. E la mattina quando si alzava presto andava da solo in punta di
piedi fin sul pianerottolo a guardare attraverso le balaustre la sua schiera di
servi al lavoro nella gran sala sottostante, e così facendo annusava l’odore
stantio di sigaro e il profumo delle donne e l’odore di cera che luccicava
simile a rugiada sul parquet mentre loro lo lucidavano con l’ampio movimento
degli spazzoloni. Di questo sapevano le Bentley di Rich, dopo: delle bellezze,
di cera d’api, del fumo dei suoi sigari da miliardario. E appena appena, per
via delle gite sulla slitta tirata da cavalli nella foresta gelata a fianco di
Lippsie, di freddo e di sterco di cavallo, mentre lei chiacchierava in tedesco
con l’uomo che guidava la slitta.
Ritornati a casa, il
paradiso erano le piramidi di luci mandarini avvolti in carta d’argento, e i
rosei lampadari della sala da pranzo e quando andavamo rombando in lontani
ippodromi a far vedere in giro i nostri bracciali di Proprietari e a guardare
perdere i “semprelesti”; e anche un minuscolo televisore in bianco e nero
incassato dentro un gran mobile di mogano sul quale guardavamo la regata dietro
a un cielo di puntini bianchi, e quando guardavamo il Grand National i cavalli
erano così lontani che Rich si chiedeva come facessero a trovare la strada
giusta, ma ho paura adesso che i cavalli di Rich non la trovassero mai, e per
questo Syd li chiamava “semprelesti”. E poi il cricket in giardino con Syd, sei
pence se non faceva fuori Titch in sei mani. E poi la boxe in salotto con
Morrie Washington, l’esperto di corte sul corpo a corpo, giacché Morrie era il
nostro Ministro dei Beni Culturali: aveva parlato con Bud Flanagan e aveva
stretto la mano a Joe Louis, e aveva fatto da spalla all’Uomo con gli Occhi a
Raggi X. Ed era anche quando il signor Muspole, il gran contabile, mi tirava
fuori le mezze corone dalle orecchie, per quanto il signor Maspole non mi sia
mai stato troppo simpatico: dovevo far troppi calcoli a mente. E poi vedere le
zollette di zucchero che scomparivano sotto l’avvocatesco cappello floscio di
Perce Loft: venivano trasformate in chimere sotto i miei occhi. E andare a
cavalluccio per il giardino sulle spalle dei fantini in panciotto: gente che si
chiamava Billie e Jimmy e Gordon e Charlie e che erano i maghi più bravi del
mondo, gli elfi più veri, e che leggevano tutti i miei fumetti e mi davano i
loro quando li avevano finiti.
Ma sempre da qualche
parte in questo carnevale trovo Lippsie, ora madre, ora dattilografa,
musicista, giocatrice di cricket, e sempre personale tutrice di Pym in campo
morale, Lippsie che corre impaziente fuori campo inseguendo una palla alta
mentre tutti le gridano Achtung!, e
hop, attenta alle aiuole. E fu ancora in paradiso che Rich diede un calcio a un
pallone nuovo di zecca, un pallone per adulti, e prese il giovane Pym in piena
faccia, il che fu come essere colpiti dall’interno da tutte le Bentley in una
volta, con lo stesso cuoio che viaggiava alla stessa spericolata velocità. Quando
si riebbe, Dorothy era china su di lui stringendo un fazzoletto tra i denti e
gemendo: “Oh no, ti prego mio Dio, no” perché c’era sangue dappertutto. Il
pallone gli aveva fatto soltanto un taglio sulla fronte ma Dorothy era convinta
che gli avesse schiacciato il globo oculare destro dentro l’orbita così che non
sarebbe uscito mai più. Poveretta, era troppo terrorizzata per lavare il sangue
così dovette pensarci Lippsie, perché Lippsie era capace di toccarmi allo
stesso modo in cui toccava gli animali e gli uccellini feriti. Mai ho
conosciuto una donna che più di lei avesse mani capaci di toccare. E io sono
convinto adesso che questo io fossi per lei: una cosa da toccare e tener cara e
proteggere, dopo che le avevano tolto tutto il resto. Io ero il suo barlume di
speranza e d’amore nella prigione dorata in cui Rich la teneva.
In paradiso quando Rich
era in casa non era mai notte e nessuno andava a letto tranne Dorothy, che si
era autonominata la Bella Addormentata di corte. Pym poteva partecipare alla
festa quanto voleva e loro erano tutti là, Rich e Syd e Morrie Washington e
Perce Loft e il signor Muspole e Lippsie e i fantini, sdraiati sul pavimento in
mezzo a mucchi di soldi, a guardare la pallina della roulette rimbalzare mentre
TP in grande uniforme li osservava, così che deve esserci stata una sua
fotografia anche in casa. E rivedo tutti noi che balliamo alla musica del
grammofono e ci raccontiamo storielle su uno scimpanzé che si chiamava Little
Audrey che rideva e rideva a storielle incomprensibili per il piccolo Pym. Però
Pym rideva più forte di tutti perché stava imparando come si fa a piacere alla
gente, imitando le voci e raccontando buffe storielle che lo rendessero
simpatico. In paradiso tutti si amavano perché una volta Pym trovò Lippsie seduta
sulle ginocchia di Rich e un’altra volta lo vide ballare guancia a guancia con
lei, un sigaro stretto tra i denti, cantando “Sotto gli archi” con gli occhi
chiusi. Ed era un peccato che Dorothy fosse anche questa volta troppo stanca
per mettersi l’abito lungo con le gale che Rich le aveva comprato – uno rosa
per Dorothy e uno bianco per Lippsie – e venir giù anche lei a divertirsi un
po’. Ma quanto più forte Rich la chiamava gridando da sotto tanto più sodo lei
dormiva, come Pym ebbe modo di accertare quando Rich lo mandò su a dirglielo.
Bussò alla porta e nessuno rispose. In punta di piedi si avvicinò all’enorme
letto e le tolse dalla guancia qualcosa che in un primo momento prese per una
ragnatela. La chiamò prima a bassa voce e poi gridando, ma senza risultato
alcuno. Dorothy dormendo piangeva, riferì quando scese di sotto. Ma la mattina
dopo tutto era tornato a posto perché erano tutt’e tre nello stesso letto con
Rich in mezzo, e a Pym fu permesso di entrarci anche lui vicino a Lippsie
mentre Dorothy scendeva di sotto a tostare il pane e Lippsie lo teneva
gravemente stretto a sé osservandolo con il suo cipiglio perplesso,
moralistico, che, oggi penso, era un modo di dirmi che si vergognava della sua
debolezza e della sua infatuazione, e se ne voleva purificare col suo interesse
per me.
In paradiso, è vero,
Rich alzava la voce, ma mai con Pym. Mai una volta è successo; aveva una
volontà abbastanza forte da poterne fare a meno, e un amore ancora più forte.
Gridava con Dorothy, la blandiva o l’ammoniva a proposito di cose che Pym non
poteva capire. Più di una volta la trascinò fisicamente al telefono
obbligandola a parlare con la gente – con lo zio Makepeace, con i bottegai, con
altre persone che chissà come ci minacciavano, e solo Dorothy poteva renderli
mansueti, perché Lippsie si rifiutava di farlo, e comunque non aveva l’accento
giusto. Fu allora, credo, che Rich sentì fare per la prima volta il nome di
Wentworth, perché mi ricordo di Dorothy che mi teneva la mano per farsi
coraggio mentre diceva alla signora Wentworth di non preoccuparsi per i soldi
che tutto sarebbe finito bene se solo avesse smesso di insistere tanto. Fu così
che fin dall’inizio il nome Wentworth significò cose cattive per Pym. Divenne
sinonimo di paura e di fine di tutto.
* Testo: tratto da La spia perfetta di John Le Carrè, pagine 85-89, con la traduzione di Marco e Dida Paggi, CDE su licenza Mondadori, 1987 I edizione
** Fotografia di John Le Carrè scaricata free copy da internet