lunedì 13 agosto 2012

Il paradiso di Magnus Pym La spia perfetta di John Le Carrè


Il paradiso di Magnus Pym
La spia perfetta
di John Le Carrè

Il paradiso era una terra dorata tra Gerrards Cross e il mare, dove Dorothy stirava con addosso un pullover d’angora e andava a fare la spesa con un cappottone blu. Il paradiso era il luogo in cui Rich e Dorothy si erano rifugiati dopo il matrimonio clandestino, una terra di sogno con nuove partenze e tanti futuri eccitanti, ma io non ricordo un giorno di quel periodo senza che Lippsie non vi si aggirasse sullo sfondo con passo impaziente o mi dicesse quello che è giusto o quello che è sbagliato con una voce che non mi irritava. A est, a un’ora di Bentley, c’era la Città, e nella Città c’era il West End dove Rich aveva l’ufficio; e nell’ufficio c’era un grande ritratto fotografico colorato a mano del Nonno TP che portava il collare al sindaco, ed era per via dell’ufficio che Rich tornava a casa tardi la sera, il che per il piccolo Pym andava benissimo perché allora poteva entrare nel letto con Dorothy per darle un po’ di calore, lei era minuta e freddolosa anche per un bambino. Certe volte Lippsie restava a casa con noi, certe altre andava a Londra con Rich perché doveva diplomarsi e, adesso, capisco, giustificare il fatto che fosse viva quando tanti del suo popolo erano morti.
Il paradiso era una successione di lustri cavalli da corsa che Syd chiamava “semprelesti” e un susseguirsi di ancor più lustre Bentley che, come le case, si consumavano con la stessa rapidità del credito a cui erano state comprate e che bisognava cambiare con velocità da mozzare il fiato per comprare altri modelli più nuovi e più cari. Certe volte le Bentley erano talmente preziose che bisognava portarle dietro la casa e nasconderle in giardino per paura che lo sguardo degli infedeli ne appannasse lo splendore. Certe altre volte Pym le guidava a mille miglia all’ora sedendo in grembo a Rich, lungo strade in costruzione dal fondo sabbioso fiancheggiate da betoniere, suonando il gran clacson dalla voce profonda mentre Rich salutava gli operai gridando “Come va, ragazzi?” e invitandoli tutti quanti a casa sua a bere un bicchiere di spumante. E c’era anche Lippsie con noi seduta accanto al volante, dritta e remota come un cocchiere, finché Rich non le rivolgeva la parola o non diceva qualche battuta. Allora il suo sorriso era come il sole delle vacanze e lei ci amava tutt’e due.
Il paradiso era anche St. Moritz da dove arrivavano i coltelli a serramanico svizzeri, per quanto non so come le Bentley e quei due inverni di prima della guerra passati in Svizzera si siano fusi nella memoria in un luogo solo. Anche oggi mi basta sentire l’odore di cuoio che si sente dentro una macchina di lusso per tornare con voluttà alle grandi sale d’albergo di St. Moritz sulla scia del turbolento amore di Rich per le celebrazioni. Il Kulm Hotel, il Suvretta House, il Grand Hotel per Pym erano un unico gigantesco palazzo con servitori diversi ma con un’unica corte: il seguito di Rich composto da buffoni, acrobati, consiglieri e fantini; lui praticamente non andava da nessuna parte senza di loro. Di giorno, portieri italiani muniti di lunghe scope ci toglievano la neve dagli scarponi ogni volta che passavamo dalle porte girevoli. Di notte, mentre Rich e la sua corte banchettavano con le Bellezze del luogo e Dorothy era troppo stanca, Pym s’avventurava tenuto per la mano da Lippsie per le viuzze coperte di neve stringendo il coltello a serramanico che aveva in tasca e immaginando di essere un principe russo pronto a proteggerla da chiunque ridesse di lei visto che era tanto seria. E la mattina quando si alzava presto andava da solo in punta di piedi fin sul pianerottolo a guardare attraverso le balaustre la sua schiera di servi al lavoro nella gran sala sottostante, e così facendo annusava l’odore stantio di sigaro e il profumo delle donne e l’odore di cera che luccicava simile a rugiada sul parquet mentre loro lo lucidavano con l’ampio movimento degli spazzoloni. Di questo sapevano le Bentley di Rich, dopo: delle bellezze, di cera d’api, del fumo dei suoi sigari da miliardario. E appena appena, per via delle gite sulla slitta tirata da cavalli nella foresta gelata a fianco di Lippsie, di freddo e di sterco di cavallo, mentre lei chiacchierava in tedesco con l’uomo che guidava la slitta.
Ritornati a casa, il paradiso erano le piramidi di luci mandarini avvolti in carta d’argento, e i rosei lampadari della sala da pranzo e quando andavamo rombando in lontani ippodromi a far vedere in giro i nostri bracciali di Proprietari e a guardare perdere i “semprelesti”; e anche un minuscolo televisore in bianco e nero incassato dentro un gran mobile di mogano sul quale guardavamo la regata dietro a un cielo di puntini bianchi, e quando guardavamo il Grand National i cavalli erano così lontani che Rich si chiedeva come facessero a trovare la strada giusta, ma ho paura adesso che i cavalli di Rich non la trovassero mai, e per questo Syd li chiamava “semprelesti”. E poi il cricket in giardino con Syd, sei pence se non faceva fuori Titch in sei mani. E poi la boxe in salotto con Morrie Washington, l’esperto di corte sul corpo a corpo, giacché Morrie era il nostro Ministro dei Beni Culturali: aveva parlato con Bud Flanagan e aveva stretto la mano a Joe Louis, e aveva fatto da spalla all’Uomo con gli Occhi a Raggi X. Ed era anche quando il signor Muspole, il gran contabile, mi tirava fuori le mezze corone dalle orecchie, per quanto il signor Maspole non mi sia mai stato troppo simpatico: dovevo far troppi calcoli a mente. E poi vedere le zollette di zucchero che scomparivano sotto l’avvocatesco cappello floscio di Perce Loft: venivano trasformate in chimere sotto i miei occhi. E andare a cavalluccio per il giardino sulle spalle dei fantini in panciotto: gente che si chiamava Billie e Jimmy e Gordon e Charlie e che erano i maghi più bravi del mondo, gli elfi più veri, e che leggevano tutti i miei fumetti e mi davano i loro quando li avevano finiti.
Ma sempre da qualche parte in questo carnevale trovo Lippsie, ora madre, ora dattilografa, musicista, giocatrice di cricket, e sempre personale tutrice di Pym in campo morale, Lippsie che corre impaziente fuori campo inseguendo una palla alta mentre tutti le gridano Achtung!, e hop, attenta alle aiuole. E fu ancora in paradiso che Rich diede un calcio a un pallone nuovo di zecca, un pallone per adulti, e prese il giovane Pym in piena faccia, il che fu come essere colpiti dall’interno da tutte le Bentley in una volta, con lo stesso cuoio che viaggiava alla stessa spericolata velocità. Quando si riebbe, Dorothy era china su di lui stringendo un fazzoletto tra i denti e gemendo: “Oh no, ti prego mio Dio, no” perché c’era sangue dappertutto. Il pallone gli aveva fatto soltanto un taglio sulla fronte ma Dorothy era convinta che gli avesse schiacciato il globo oculare destro dentro l’orbita così che non sarebbe uscito mai più. Poveretta, era troppo terrorizzata per lavare il sangue così dovette pensarci Lippsie, perché Lippsie era capace di toccarmi allo stesso modo in cui toccava gli animali e gli uccellini feriti. Mai ho conosciuto una donna che più di lei avesse mani capaci di toccare. E io sono convinto adesso che questo io fossi per lei: una cosa da toccare e tener cara e proteggere, dopo che le avevano tolto tutto il resto. Io ero il suo barlume di speranza e d’amore nella prigione dorata in cui Rich la teneva.
In paradiso quando Rich era in casa non era mai notte e nessuno andava a letto tranne Dorothy, che si era autonominata la Bella Addormentata di corte. Pym poteva partecipare alla festa quanto voleva e loro erano tutti là, Rich e Syd e Morrie Washington e Perce Loft e il signor Muspole e Lippsie e i fantini, sdraiati sul pavimento in mezzo a mucchi di soldi, a guardare la pallina della roulette rimbalzare mentre TP in grande uniforme li osservava, così che deve esserci stata una sua fotografia anche in casa. E rivedo tutti noi che balliamo alla musica del grammofono e ci raccontiamo storielle su uno scimpanzé che si chiamava Little Audrey che rideva e rideva a storielle incomprensibili per il piccolo Pym. Però Pym rideva più forte di tutti perché stava imparando come si fa a piacere alla gente, imitando le voci e raccontando buffe storielle che lo rendessero simpatico. In paradiso tutti si amavano perché una volta Pym trovò Lippsie seduta sulle ginocchia di Rich e un’altra volta lo vide ballare guancia a guancia con lei, un sigaro stretto tra i denti, cantando “Sotto gli archi” con gli occhi chiusi. Ed era un peccato che Dorothy fosse anche questa volta troppo stanca per mettersi l’abito lungo con le gale che Rich le aveva comprato – uno rosa per Dorothy e uno bianco per Lippsie – e venir giù anche lei a divertirsi un po’. Ma quanto più forte Rich la chiamava gridando da sotto tanto più sodo lei dormiva, come Pym ebbe modo di accertare quando Rich lo mandò su a dirglielo. Bussò alla porta e nessuno rispose. In punta di piedi si avvicinò all’enorme letto e le tolse dalla guancia qualcosa che in un primo momento prese per una ragnatela. La chiamò prima a bassa voce e poi gridando, ma senza risultato alcuno. Dorothy dormendo piangeva, riferì quando scese di sotto. Ma la mattina dopo tutto era tornato a posto perché erano tutt’e tre nello stesso letto con Rich in mezzo, e a Pym fu permesso di entrarci anche lui vicino a Lippsie mentre Dorothy scendeva di sotto a tostare il pane e Lippsie lo teneva gravemente stretto a sé osservandolo con il suo cipiglio perplesso, moralistico, che, oggi penso, era un modo di dirmi che si vergognava della sua debolezza e della sua infatuazione, e se ne voleva purificare col suo interesse per me.
In paradiso, è vero, Rich alzava la voce, ma mai con Pym. Mai una volta è successo; aveva una volontà abbastanza forte da poterne fare a meno, e un amore ancora più forte. Gridava con Dorothy, la blandiva o l’ammoniva a proposito di cose che Pym non poteva capire. Più di una volta la trascinò fisicamente al telefono obbligandola a parlare con la gente – con lo zio Makepeace, con i bottegai, con altre persone che chissà come ci minacciavano, e solo Dorothy poteva renderli mansueti, perché Lippsie si rifiutava di farlo, e comunque non aveva l’accento giusto. Fu allora, credo, che Rich sentì fare per la prima volta il nome di Wentworth, perché mi ricordo di Dorothy che mi teneva la mano per farsi coraggio mentre diceva alla signora Wentworth di non preoccuparsi per i soldi che tutto sarebbe finito bene se solo avesse smesso di insistere tanto. Fu così che fin dall’inizio il nome Wentworth significò cose cattive per Pym. Divenne sinonimo di paura e di fine di tutto.

* Testo: tratto da La spia perfetta di John Le Carrè, pagine 85-89, con la traduzione di Marco e Dida Paggi, CDE su licenza Mondadori, 1987 I edizione

** Fotografia di John Le Carrè scaricata free copy da internet

domenica 5 agosto 2012

Le Coefore nella traduzione di Edoardo Sanguineti


Le Coefore
nella traduzione di Edoardo Sanguineti

L’osservazione è banale, anche se non è mancato chi, come Walter Benjamin, ha saputo divinarne implicazioni arcane e peregrine: certo è che, fra tutti i prodotti letterari, più che mai davanti a una traduzione potremo dire a buon diritto “in principio era la parola”. Se poi la parola è quella di Eschilo, e il traduttore si chiama Edoardo Sanguineti, dall’ovvietà sembrano dischiudersi suggestioni particolarmente insinuanti. Letteratura che si nutre di letteratura, oggetto verbale che trae la sua vita da un altro oggetto verbale, questa volta la traduzione pone a confronto un leader dell’avanguardia, il poeta di Liborintus e di Wirrwarr, con il fondatore, nientemeno, della tragedia classica. Il lettore può immaginare da solo le acrobazie che, con un po’ d’ingegno e di spregiudicatezza, non sarebbe poi tanto arduo improvvisare sul tema.
In verità, la suggestione è abbastanza capziosa ed estrinseca. L’avanguardia non ha, naturalmente, nulla a che spartire con l’iconoclastia goliardica, se non nella pigrizia degli interpreti. Inoltre, l’opera del traduttore implica sempre la mediazione di una filologia, o comunque di una disciplina esegetica: e Sanguineti, come è noto, sa affidarsi con altrettanta naturalezza, oltre che agli strumenti della scrittura, alle strategie tortuose e riflesse della critica. Felice coincidenza, che del resto ha già fatto le sue prove in altre traduzioni esemplari: Le Baccanti di Euripide, la Fedra di Seneca, Le Troiane ancora di Euripide e, fuori dal genere teatrale, Il Giuoco del Satyricon. A continuare la serie viene ora la versione delle Coefore. Sarà bene, allora, parlare di questa così come si offre al lettore, iuxta propria principia.
La tragedia è la seconda (dopo l’Agamennone e prima delle Eumenidi) dell’unica trilogia tramandataci integra dall’antichità, l’Orestea. Ed è quella appunto in cui entra in scena l’eroe eponimo, tornato in Argo con l’amico Pilade per vendicare, secondo l’ordine di Apollo, la morte del padre. Vendetta atroce perché egli dovrà uccidere, con l’usurpatore Egisto, anche la propria madre, Clitemnestra. La prima parte del dramma si svolge davanti alla tomba di Agamennone, dove Oreste vede sopraggiungere Elettra, accompagnata dal Coro di ancelle (le coefere, ossia portatrici di libagioni), venute a celebrare riti funebri per placare l’ombra del morto: egli si rivela alla sorella, e con evoca il padre affinché lo assista nell’impresa. È in sostanza una lunga lamentazione, rievocativa e propiziatoria, attraverso la quale Oreste vince l’orrore del matricidio e si persuade ad agire. Segue serrata e fulminea la catastrofe. Elettra ora è assente, e il solo Oreste domina la scena, nella sua angoscia d’azione: intorno a lui si moltiplicano, in fugaci apparizioni, i personaggi (lo schiavo, la nutrice, Egisto), fino al dialogo terribile e risolutivo con l’antagonista, la madre. A differenza di Amleto (che in fondo deve uccidere solo l’usurpatore, anche se poi diventa causa di morte anche alla regina), Oreste ha avuto la forza di respingere il dubbio che l’attanaglia: ma già le mostruose Erinni custodi dei sacri vincoli di sangue, vengono a perseguitare l’eroe, che fugge per un nuovo esilio. La tragedia non ha dunque scioglimento, perché con la catastrofe finale apre al contempo un dilemma ulteriore nella coscienza del pubblico. L’intreccio inestricabile della “pietà” e del “terrore” resta sospeso davanti a un conflitto morale che non ha soluzione.
Il testo delle Coefore ci è pervenuto attraverso un unico codice, il Mediceus o Laurentianus XXXII 9, risalente al decimo o undicesimo secolo. E questo complica, anziché semplificare, il problema filologico, perché gli interrogativi che esso solleva non trovano neppure quella possibilità di risposta che spesso offre una collazione, un confronto sistematico fra più codici. In assenza di orientamenti ausiliari, per quanto concerne i passi controversi, il traduttore deve tuttavia compiere una scelta, soprattutto se il suo lavoro ha come in questo caso una destinazione precisa: la scena del teatro di Siracusa, dove le Coefere saranno rappresentate, per la regia di Giuseppe Di Martino, il 1° giugno 1978.
La funzionalità teatrale si impone pertanto, nella circostanza, come il solo criterio effettivo e responsabile. Un criterio che si rivela pertinente, al di là delle scelte testuali, anche per la veste linguistica medesima assunta dalla traduzione. Come l’epos, così il mito tragico si colloca, per dirla con Bachtin, in un “passato assoluto”, e una “distanza assoluta” lo separa dal pubblico. Conservare questa distanza, ecco il problema più insidioso. Di norma, il traduttore ricorre a un lessico arcaico, aulico, illustre: ma questo per sua natura addita, semmai, una lontananza storica, ancora interna alla dimensione lineare del tempo. Qui, già l’incipit suona diversamente dal consueto: non “Ermes ctonio”, bensì “Ermes dei morti”. Sanguineti suscita la solennità e il decoro, che si addicono alle vicende del mito, attraverso altri mezzi: l’ellissi, la concentrata fissità delle sentenze (“chi fa, soffra”) e, soprattutto, il ritmo. La sua è, certo, una versificazione libera, ma profondamente “regolata”, tale da rendere palese anche a uno spoglio sommario una serie di fenomeni rilevanti: l’uso frequente dell’allitterazione, il ricorso alla figura etimologica (“Per me, e per te, allora, io devo pregare questa preghiera?”), la prolessi del pronome, che il Leopardi avrebbe definito una “sprezzatura” peregrina nella sua apparente colloquialità (“Le ha già, il padre, le offerte che la terra beve”). Il verso si costituisce come un’integrazione di fattori fonetici, sintattici e lessicali, predisposta sin dall’inizio alla ricezione: cioè all’evento, interiormente misurato, che oltre la soglia invalicabile del proscenio evoca e purifica l’emozione dello spettatore per virtù stessa della sua conchiusa distanza.
Si riproducono, insomma, le condizioni della catarsi aristotelica: che, se non è un principio estetico generalmente valido, ci restituisce comunque la verità storica, la “poetica” a cui gran parte della tragedia classica s’ispira. La rappresentazione è , uguale per tutti. Rispecchiandosi in essa, l’irriducibile individualità del sentimento vissuto, pietà o terrore, si riscopre condivisa da un uditorio universale. Così che resti sancita e continui a rinnovarsi la parola originaria:

“Nessuno, tra gli effimeri, varcherà illeso
Tutto il tempo vitale, senza pagarlo”.

f. b.


* Testo: Introduzione a Eschilo, Le Coefore,  Traduzione di Edoardo Sanguineti, Il Saggiatore, Biblioteca delle Silerchie CIV, 1978, edizione esclusiva per il XXV ciclo dio spettacoli classici dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico.

** Fotografia: locandina ufficiale per la rappresentazione de Le Coefore di Eschilo per la regia di Giuseppe Di Martino al Teatro Antico di Siracusa, 1° giugno 1978.