lunedì 29 agosto 2011

Grazia Calanna, Crono silente: intervista e recensione.

Grazia Calanna
Crono silente

intervista e recensione




1) Di che cosa parla il tuo ultimo lavoro e quanto la realtà incide sui temi della tua scrittura?
Non è semplice, tanto più per un libro di poesia, illustrare i temi. Mi auguro possano essere individuati dal lettore, dico soltanto che sono molteplici e che non si discostano dal nostro vissuto.

2) Quali sono stati gli Autori che ti hanno influenzato di più e perché?
Amo molto Ungaretti, “la vita si sconta vivendo”, e la Dickinson, “prima di amare, non ho mai vissuto pienamente”.

3) Cosa ti ha spinto a scrivere un libro di poesie? 
La vita con il suo invisibile/veloce procedere, semplicemente mi limitavo e mi limito ad appuntare i pensieri che mi attraversano di fronte alle immagini che scuotono la nostra quotidianità.
 
4) Qual è il futuro del libro?
Mi auguro, nonostante la rivoluzione tecnologica in corsa contro il tempo e contro se stessa, si possa sempre e comunque avere la possibilità di  inebriarsi, sfogliando un libro, dell’odore della carta; si possa poterlo  stringere al petto a lettura ultimata quando, rammaricati dal dover abbandonare i personaggi o, peggio, le parole che abbiamo tanto amato, che hanno saputo sfamarci, troviamo conforto e appagamento tattile.

5) Hai nuovi progetti in cantiere?
Non programmo, semplicemente quando non mi faccio vincere dalla smemoratezza intrappolo il pensiero tra le righe. Scrivere è fisiologico. È  sregolatezza, impulsività, espiazione…  




 Recensione

Crono silente di Grazia Calanna
Ed. Prova d'Autore



Quello di Grazia Calanna, autrice della silloge poetica “Crono Silente”, edizioni Prova d’Autore è – come ha scritto anche il critico letterario Giovanni Nuscis – uno sguardo arguto sul mondo e, conseguentemente, su noi stessi. La poetessa osserva il proprio tempo e lo immortala congelandolo dentro versi che possiamo definire definitivi, a tratti scomodi (sovente è più comodo non “ascoltare”); versi da leggere e rileggere (da scoprire e riscoprire)  mettendo da parte ogni pregiudizio per comprendere oltre ogni apparenza che ci troviamo di fronte ad una silloge intrisa d’amore per la vita (anche oltre la vita): “Dipartita / riporti in vita / ricordi avviliti dalla vita / gemme di sale in gocce di senso rinvenuto”. “Versi – scrive nella prefazione la scrittrice Savina Dolores Massa -, privi di ninnoli e di acchiappasogni. Nessuna moina in questo volume: fatti”. E, ancora, come da suggestive considerazioni del curatore letterario Mario Grasso con il quale assentiamo: “Infinite sono le vie per dire il vero, Grazia Calanna ha scelto quella più semplice, quella di un tipo di spontaneità che fu tanto cara a Umberto Saba, il poeta che ci ha lasciato per insegnamento che “La notte vede più del giorno”, una lezione che Calanna porta in sé con  fiera consapevolezza e umile approccio, anche per non urtare più di quel tanto il “conforme conformante conformismo”, nel quale chi più chi meno, tutti continuiamo a vivere immersi, anche nei momenti in cui ci ergiamo a giudici degli altri, trascurando di giudicare, anzitutto noi stessi”.



Intervista: Produzione, Ithaca©
Recensione: Luci Florio.
Copertina: Crono silente di Grazia Calanna, Ed. Prova d'autore, 2011
Fotografia interna: fornita dalla stessa Autrice.

giovedì 25 agosto 2011

Mario Girolamo Gullace, L'incredibile mattina che la reggia volò via.


Mario Girolamo Gullace

L'incredibile mattina che la reggia volò via.

 racconto inedito




Dal balcone del secondo piano gerani, azalee e bocche di leone, erano invasati e appesi a riempire tutto il perimetro di ferro verniciato di bianco. Era un secondo piano all'angolo di via Mensa con piazza Annunziata.
Le prime luci del giorno facevano ressa tra le fessure delle persiane per entrare nella stanza, dove Nino, steso nel suo letto, teneva le redini della slitta trainata da sei splendidi Husky sullo strato ghiacciato di un immenso lago canadese.
Era una domenica mattina di maggio, l'ultima, di un maggio che - le cronache - dicevano il più accaldato accaldante degli ultimi 50anni.
Il sogno di Nino era un refrigerio compensativo. Dormivano anche i soliti rumori di quella zona. Da quando la reggia di Venaria finì il restauro, e fu varata al pubblico, una fauna variegata di turisti prese possesso di quel territorio con barriti, starnazzi, gorgheggi, ululati, ragli, ronzii, gnaolii e via scorrendo e discorrendo tutti i dialetti italici e le lingue nippo-slave-yenky.
Si sentivano ancora solo le grida dei voli ripidi delle rondini, e Nino, passò improvvisamente la barriera del sonno. Aprì le palpebre quel tanto per sbirciare l'ora sulla sveglia sul comodino e si girò dalla parte opposta, cercando sul cuscino il fresco che aveva lasciato nell'onirico Canada.
Per un attimo pensò all'assolata giornata che a poco a poco si sarebbe fatta, e si crogiolò nel suo programma di un assoluto ozio domenicale, lo stesso naturale oziare del suo gatto, raggomitolato a ronfare ai suoi piedi, e Mara, al suo fianco, immersa ancora totalmente nelle scene proiettate sul grande schermo fantastico di desideri e vecchie memorie.
Le lenzuola trattenevano nelle loro trame i sospiri e i sussurri ispirati dal piacere, che Nino e Mara, avevano consumato prima di essere ghermiti dal dio sonnifero. Poi, giunse il momento, che l'edicola, col frastuono di saracinesca, aprì i battenti.
Con movenze da bradipo, Nino, si mise seduto, emise un lungo sbadiglio, si grattò la testa di capelli arruffati, e ciabattando, andò verso la cucina a prepararsi la colazione: una tazza tiepida di caffelatte con i biscotti del mulino che macinava con i molari buoni e quelli in cura odontoiatrica.
Mentre sorseggiava e inzuppava, rimise mano e occhi sul libro che stava leggendo: una raccolta di poesie del poeta ceco, nobel nell'84, Jaroslav Seifert. "Ho veduto solo una volta / un sole così insanguinato. / E poi mai più. / Scendeva funesto sull'orizzonte / e sembrava / che qualcuno avesse sfondato la porta / dell'inferno... ".
Richiuse lì, mettendo il segnalibro della Mondadori. Un sole così insanguinato che apriva le porte dell'inferno. Bella immagine! Uscì sul balcone, con boxer e canottiera, a dare da bere agli assetati. Il cielo aveva sguainato le lame roventi della solarità dalla custodia della notte ormai finita.
Guardò i cancelli della reggia serrati, i mattinieri compratori dei giornali, il contrasto tra la rimessa a nuovo del castello e le facce scalcinate degli edifici privati. Scendeva funesto sull'orizzonte il sole, e sembrava che qualcuno avesse sfondato la porta dell'inferno. Bella!
Gli venne voglia di mettersi alla tastiera del pc a scrivere qualcosa, qualcosa che gli stava sorgendo da una porta che piano piano si stava aprendo nella stanza affollata e stracolma di singole lettere, di sillabe, di frasi appena accennate. Faceva capolino, dallo scaffale alto della mente, l'architettura di qualcosa che voleva venire alla luce, qualcosa che gli ricordava il proprio inferno che premeva per passare la dogana, per entrare nel territorio risanato del suo presente.
Le dita cominciarono a battere sui tasti, come il pianista batte i bianchi e i neri a metterli d'accordo in una melodia, come lo scacchista che muove la pedina per una serie di altre mosse che hanno lo scopo di abbattere le schiere delle nere ombre. A lato della bocca, una sigaretta accesa, con un filo di fumo che occludeva e annebbiava a destra.
Giù, in via Mensa, cominciava il tramestio. Mara si era svegliata ma indugiava tra le lenzuola. Il gatto si strusciava di fusa sulle caviglie di Nino. Dal marasma oceanico del sottosuolo inconscio, prendeva forma, sullo schermo piatto, la multi-dimensione dello spazio senza limiti e senza tempo. E mentre dalla chiesa di piazza Annunziata si sollevò il richiamo delle campane per la messa delle otto, l'ottovolante di Nino si staccò da terra portandosi dietro la reggia. Il fiume dei turisti, che iniziava a ingrossarsi, rischiando di finire in un dirupo, si salvò nella bozza.

Mario Girolamo Gullace


Racconto: proprietà riservata
Fotografia di copertina: suggerita da Mario Girolamo Gullace

martedì 23 agosto 2011

Tra le colline dell'Idaho, nella casa di Hemingway


Fernanda Pivano
Tra le colline dell'Idaho, 
nella casa di Hemingway
Nella storia di Ernest Hemingway ritornano con insistenza i due nomi di Ketchum e di Sun Valley, una minuscola città mineraria la prima, un centro di sci e di caccia la seconda, a pochi chilometri l' una dall' altra, che Hemingway ha visitato la prima volta nel 1939 facendo la loro fortuna e scegliendole come residenza finale quando, nel 1959, ha lasciato per sempre Cuba; finale al punto che a Ketchum è stato sepolto. Per vedere che cosa lo avesse attirato in questi luoghi famosi abbiamo approfittato del documentario sulle mie amicizie letterarie commissionato dal produttore Domenico Procacci al regista Luca Facchini, al direttore della fotografia Alessio Viola e al tecnico dei suoni Marco Fiumara. Così ci siamo trovati a Hailey, ultimo aeroporto prima di Ketchum, che lui, Hemingway, non ha mai visto, perché a Ketchum veniva da Cuba/Key West in macchina, due giorni e due notti di viaggio su un' automobile carica di bagagli, guidata da amici che si contendevano per mesi questo privilegio. Da Hailey, dove è nato Ezra Pound, si arriva in macchina a Ketchum e alla Sun Valley, dove Hemingway ha passato mesi felici con amanti e mogli e figli e amici, e dove ha passato settimane terribili ad assistere alla propria fine. Quando è arrivato lì la prima volta la Sun Valley si era appena delineata come un centro di villeggiatura invernale: l'aveva fondata Averell Harriman, presidente della ferrovia Union Pacific, che aveva chiamato il conte austriaco Felix Schaffgotosch a studiare il luogo più adatto per realizzare questa idea negli Stati dell' Ovest, e il conte aveva viaggiato dal novembre 1935 al gennaio 1936, finché aveva scoperto la Sun Valley tra le montagne Sawtooth dell' Idaho centrale, un minuscolo villaggio vicino all' antica città mineraria di Ketchum. Ma la storia di Sun Valley era staccata da quella di Ketchum. Il conte Schaffgotosch aveva avvertito Averell Harriman della sua scoperta, questo aveva chiamato ad agire come agenti pubblicitari il fotografo Lloyd Arnold e lo sportsman Gene Van Guilder: sono stati loro a consigliare di «lanciare» il luogo offrendo ospitalità a personalità famose. 
Gene Van Guilder, che conosceva un amico parigino di Hemingway, aveva fatto invitare Hemingway, già internazionalmente celebre per Il sole sorge ancora e Addio alle armi; e subito erano arrivate in quello stesso 1939 le stelle di Hollywood, Norma Shearer, che vi aveva incontrato un istruttore basco di sci e lo aveva sposato, Claudette Colbert che vi aveva girato un film, e nel corso degli anni decine di attori, perfino Marilyn Monroe. Con Hemingway, Sun Valley è diventato un centro anche di caccia e di pesca, e per vent' anni è stato un suo ritrovo ricorrente fino ad accoglierlo nel suo ultimo riposo. F. P. REPORTAGE «E mentre pregavo, sulla tomba di Ernest è comparso un coyote» di FERNANDA PIVANO A Sun Valley Hemingway è arrivato nel 1939 con i tre figli e Marta Gellhorn non ancora sua moglie. Era considerato lo scrittore più famoso del mondo, o così dicevano i giornali. Era stato ospitato nella suite 206 della Lodge, dell' albergo di Sun Valley, e Hemingway l' aveva subito battezzata «Glamour House», casa splendida: stava scrivendo Per chi suona la campana e ha citato il luogo della sua felicità nel capitolo 13° del libro; con lui era subito arrivato Gary Cooper, e presto una grossa fetta della Hollywood di allora. Quando le celebrità erano diventate troppo numerose Hemingway, che intanto si era innamorato dello splendore del posto e si era fatto amico degli abitanti della zona, nel 1941 aveva affittato una casa a Ketchum, a un paio di chilometri da Sun Valley: Mary Welsh, sua quarta e ultima moglie, nel libro di memorie Come era ha definito Ketchum «un sogno sentimentale del vecchio West». La guerra aveva interrotto le sue visite, Hemingway aveva comprato la Finca Vigia a Cuba, aveva sposato Mary Welsh e a Sun Valley-Ketchum era tornato nel 1946 e di nuovo nel 1947, poi nel 1958, quando la vita a Cuba era diventata più difficile, di nuovo in una casa in affitto; ormai era considerato concittadino da una piccola folla di amici locali, finché nel ' 59 aveva comprato la casa di Bob Topping a due chilometri dalla città, e vi si era sistemato il 22 ottobre 1960 lasciando per sempre Cuba e affrontando la tortura della malattia e la tortura più grande delle cure assassine, 28 elettroshock che gli hanno rubato, ha detto di ritorno a Ketchum, il suo unico capitale, la memoria. La memoria di lui, invece, è ancora viva a Ketchum e a Sun Valley; già all' aeroporto di Hailey vendono la cartolina «Discovery Map» con le case di Ketchum, Sun Valley e Hailey e i nomi dei loro proprietari; e tutti sanno dov' era «la» casa di Hemingway, quella dove ha passato gli ultimi mesi terribili, seduto immobile davanti a una finestra dalla quale vedeva il cimitero dove aveva comprato un grande spazio per sé e per la famiglia. Il caso ha voluto che la Knob Inn di Ketchum, l' albergo dove ho passato qualche giorno per visitare la sua tomba, fosse a fianco del cimitero. Me lo ha fatto notare Valerio Di Carlo, il chirurgo che mi ha accompagnato per vedere che non mi succedesse niente. La mattina del nostro arrivo è venuto a salutarmi e mi ha detto: «Lo sapevi che la sua tomba è qui, davanti alla tua finestra?». 
Non lo sapevo, e poco dopo sono entrata nel lungo vialetto che attraversa con due curve il grande prato, senza le abituali colline dei cimiteri americani, circondato di alberi secolari e cosparso di lapidi candide, fino a un pino non molto antico dove, annunciate dalle lapidi minuscole di George Saviers, il medico che ha accompagnato Hemingway due volte alla clinica Mayo di Rochester, quella della nipote Margot contrassegnata da una farfalla e quella di Taylor Williams, il cacciatore di orsi che era forse il suo migliore amico, riempie lo spazio la grande lapide di Hemingway coperta di monetine accanto a quella di Mary ancora nuda. Mentre recitavo il Pater Noster è comparso un animale bianco-grigio bellissimo, con una grossa coda più lunga del corpo, ha rasentato la barriera di rete metallica che divide il cimitero dalla campagna, l' ha scavalcato con un balzo, è entrato correndo nel prato e ha fatto il giro della tomba. Era un coyote, l' animale tanto amato da Hemingway; e l' indomani alla stessa ora l' ho visto dalla mia finestra ritornare indisturbato a salutare la tomba cara a tanti di noi. I biografi dicono che Hemingway guardava muto e immobile quel cimitero dalla finestra della sua ultima casa, ma non ho capito come facesse. La casa di Bob Topping, nella campagna fuori Ketchum, sembra troppo lontana perché potesse vedere il cimitero. È in cima a una collina, fiancheggiata da un burrone coperto da un bosco e circondata da alberi enormi, insieme a quattro o cinque ancora piccolini; ha una terrazza circondata da una ringhiera di legno bianco davanti all' ingresso posteriore, e il giorno che mi ero avvicinata sfidando quattro cartelli che avvertivano del divieto di accesso (no trapassing, dicono in America) c' era una poltroncina di plastica bianca sulla terrazza e un' automobile davanti all' ingresso principale: forse gli eredi volevano far credere che la casa fosse abitata per scoraggiare i ladri, non lo so: in fondo alla salita c' erano due o tre ville che non mostravano segno di vita. La vita, meravigliosa, esplodeva nelle colline verdi di alberi, nei pendii coperti di fiori, nelle montagne ignare di presenza umana. Un paesaggio come questo, ma più dolce, ritornava a Sun Valley, a pochi chilometri dalla Lodge ormai famosa, dove un grande cartello annunciava: «Memorial di Ernest Hemingway». Non c' era niente che ne vietasse l' accesso. Siamo scesi da un viottolo del sottobosco e siamo arrivati a un torrente-ruscello-fiume (il Trail Creek) dove forse Hemingway pescava le trote. Al di là dell' acqua hanno costruito una minuscola piramide di pietre nere scalate verso l' alto, sopra alla piramide hanno messo una stele e in cima alla stele una testa scolpita, di somiglianza improbabile come quasi tutti i busti ricavati per lo più, dopo la sua morte, dalle fotografie. Ai piedi della piramide hanno messo una lapide con sei righe firmate: Ernest Hemingway, Sun Valley, 1939, ricavate dalla eulogia fatta all' amico Gene Van Guilder, uno dei due consulenti del fondatore della Sun Valley che l' aveva invitato a inaugurare la Lodge: «Più di tutto gli piaceva l' autunno. / Le foglie gialle sui cottonwoods. / Foglie fluttuanti nel torrente di trote. / E sulle colline gli alti cieli azzurri senza vento. / Ora sarà parte di loro per sempre». Il memorial è stato inaugurato il 21 luglio 1966, giorno del suo 67° compleanno, alla presenza del Governatore dell' Idaho. Nell' acqua che scorre davanti alla statua c' erano già le monetine gettate dagli amici come sulla lapide in un cimitero; al di là dell' acqua hanno costruito un minuscolo anfiteatro per permettere ai curiosi e ai turisti di sedere a salutare il suo ricordo. Per qualcuno a rispettarlo, onorarlo, amarlo. Per qualcuno a guardarlo con rispetto e forse con invidia. Per tutti a pensare che meritava un' immagine più degna di lui. Premio Nobel nel 1954 Si tolse la vita il 2 luglio del ' 61 1899 Ernest Hemingway nacque a Oak Park, nell' Illinois. Quarant' anni fa, il 2 luglio del 1961, morì suicida a Ketchum nell' Idaho (mappa sotto) 1918 Autista volontario in un reparto sanità, fu spedito sul fronte italiano 1921 Fu fino al ' 27 corrispondente in Europa per vari giornali. A Parigi conobbe Gertrude Stein, Ezra Pound, Francis Scott Fitzgerald 1925 Esordì con la raccolta di racconti In our time 1926 La consacrazione con Fiesta (The sun also rises). Seguirono Addio alle armi (' 29), Morte nel pomeriggio (' 32), Verdi colline d' Africa (' 35), i 49 racconti (' 38). Nel 1940, inviato speciale alla guerra civile in Spagna, scrisse Per chi suona la campana 1952 Pubblicò Il vecchio e il mare che nel ' 54 gli valse in Nobel. Dopo, il ritiro a Parigi, a Cuba e nell' Idaho. Diversi i romanzi usciti postumi
Articolo di Pivano Fernanda, Corriere della Sera, 15 luglio 2001, pagina 29.
Fotografie di copertina e all'interno: free copy da internet.

domenica 21 agosto 2011

Eva Clesis, L'intervista


Eva Clesis
intervista all'Autore



1) Di che cosa parla il tuo ultimo lavoro e quanto la realtà incide sui temi della tua scrittura?
Il mio ultimo lavoro è un romanzo che è uscito a fine luglio con il titolo "E intanto Vasco Rossi non sbaglia un disco" per la casa editrice Newton Compton. Quando l'ho scritto, ormai due anni fa, mi attirava l'idea di inscenare una sorta di "quiete prima della tempesta", con situazioni che si caricano di elettricità come il cielo: l'intento era quello. Volevo anche parlare di situazioni fotografate già a uno stadio di maturità (o immaturità) tale da dare al lettore un senso di precarietà e quindi ho scelto di parlare di varie generazioni che affrontano una sorta di resa dei conti con il mondo, il tutto in un solo giorno. Molte situazioni ricalcano eventi di cronaca: i filmati dei bulli per youtube, un incidente in un fast food, una truffa matrimoniale. Microstorie che fungono da innesti nell'intreccio ma che sono presi dalla cronaca, anche non recente.

2) Quali sono stati gli Autori che ti hanno influenzato di più e perché?
Io sono piuttosto eterogenea nella lettura, anche un po' confusa, passo da un genere a un non genere e da un classico a un romanzo contemporaneo. La lettura mi deve divertire e non solo (o non sempre) portarmi a riflettere. Come scrittrice ho un po' di timore a lasciarmi influenzare da uno stile particolare, perché la trovo una piega comoda ma non un approccio stimolante per chi scrive. E' una sorta di ricalco che mi fa paura. Ho più libri preferiti che autori preferiti. Cito a casaccio alcuni che amo leggere e rileggere: Gogol, Zola, Chandler, Thompson, Buzzati. 

3) Che cosa vuol dire oggi essere uno scrittore? 
E che ne so io? Tuttora faccio fatica a considerarmi una scrittrice, ma penso che essere uno scrittore oggi non sia affatto diverso da essere stato uno scrittore di ieri. Non amo caricare la scrittura di intenzionalità e finalità extra-letterarie. Rivendico il diritto a una scrittura libera e liberata. Forse oggi si fa meno riflessione sulla scrittura come parto creativo e più come una questione di "impegno" a raccontare una cosa in un certo modo e per certe finalità, innanzitutto di denuncia sociale. Non sono contraria a questo genere di scrittura, solo non voglio linee direttrici "imposte".

4) Quali sono gli ultimi libri che hai letto? E hai mai comprato o letto un’opera in e-book?
Ho letto dei romanzi in e-book, ma sono ancora legata alla dimensione cartacea del libro, una mia debolezza di amante del prodotto tipografico e editoriale. Ho appena finito di leggere un libro di Selby Jr. e a breve attaccherò con un libro di Kant.

5) Che cosa ne pensi della “rivoluzione” in atto nel mondo dell’Editoria e che rapporto hai con la tecnologia? 
Ho un buon rapporto con la tecnologia, sono stata un grafico per molti anni, ma non sono così aggiornata e in genere quello che non mi sembra utile non mi interessa. Insomma, non sono una patita di high-tech. Sul futuro dell'editoria la vedo ancora con un'ottica conservatrice: al momento la rivoluzione degli e-book potrà affiancare i libri stampati, ma non penso in un sorpasso in tempi brevi.

6) Qual è il futuro del libro?
Bella domanda. Probabilmente i lettori forti rimarranno forti anche con gli e-book, ma non mi sono mai interrogata sul destino del libro stampato, e spero, forse da nostalgica, di non vederci la croce e un epitaffio sopra.

7) Hai nuovi progetti in cantiere?
Altra bella domanda! Io ho numerosi progetti, ma il mondo editoriale non segue il mio cantiere, per cui ora non saprei dirti cosa uscirà e quando. Sono una scrittrice che vive alla giornata, in un certo senso. Mi riservo però di scrivere sempre e comunque, indipendentemente da una felice risoluzione editoriale.


Produzione, Ithaca©

In copertina: ritratto di Eva Clesis
All'interno: free copy da internet, altri ritratti di Eva Clesis

sabato 20 agosto 2011

Eva Clesis, E intanto Vasco Rossi non sbaglia un disco

Eva Clesis 
E intanto Vasco Rossi non sbaglia un disco
Newton Compton, 
luglio 2011



«Un romanzo corale emozionante e commovente come La solitudine dei numeri primi, divertente e ironico come Notte prima degli esami» . Così, nella quarta di copertina, viene presentato il nuovo lavoro di Eva Clesis, E intanto Vasco Rossi non sbaglia un disco. Non è difficile capire perché l’editore abbia voluto accostare questo romanzo a quelli di Giordano e Brizzi; forse è solo l’espediente scoperto, ricco di aggettivi di maniera, ma fuorviante, per identificare e collocare la giovane scrittrice barese nel solco riconoscibile di una letteratura più o meno recente che ha come oggetto le giovani generazioni, divise fra scuola e social network, fra insicurezza e autoaffermazione, in una sorta di intrico dei contrari e di gioco delle possibilità che sembrano orientare verso il piano del provvisorio, dell’interscambiabile del noleggio ideologico. Ma, a differenza di quei celebrati riferimenti, Eva Clesis si è distinta in questi anni, da A cena con Lolita a Guardrail, per una più misurata vocazione verso temi e personaggi che la scrittrice costeggia, ritrae, muove e accompagna con sguardo disincantato e volutamente neutrale, all’interno di una logica antieroica e aliena dall’enfasi e da retoriche introspettive, ma non per questo antiletteraria; anzi, come nel caso di questo suo ultimo romanzo, deliziosamente letteraria, dallo stile leggero e sobrio, ormai convinto riconoscibile, che lascia al lettore tutto lo spazio e il tempo per immaginare, riflettere, giudicare. E intanto Vasco Rossi non sbaglia un disco narra una storia di vita di provincia, nella realtà di un liceo scientifico dell’entroterra barese. Il nucleo del romanzo si dipana durante una manifestazione studentesca Bari contro la riforma Gelmini; ma il corteo e ciò che vi accade sono solo il pretesto per leggere i piccoli drammi e le solitudini dei protagonisti: Manuel, adolescente eccentrico e forse gay, Valeria, emarginata da tutti perché troppo grassa, sua sorella Alessia, una tredicenne dalle precoci esperienze, la professoressa Adelaide Colucci, cinquantenne depressa, Cecilia, madre di Manuel, separata e ancora all’ingenua ricerca del grande amore, Filippo Santucci con il suo carisma di prepotente e gli altri bulli della scuola. 

La Clesis affronta questa crudele topografia sociale attraverso pennellate tenere e sapienti, lavorando per sottrazione. Ne emerge un quadro complesso e desolante, nel quale prende vita un soggetto storico indeciso, spaesato, che sembra ostentare un adattamento sostanzialmente acritico al proprio ambiente e non sa confrontarsi con il senso del limite. E in questa cornice altalenante fra uniformità e differenza, sonnambulismo e individualizzazione, la cultura adolescenziale e giovanile (ma non solo) dipinta nel romanzo appare come una sorta di nebulosa senza tendenza, che si muove fra prassi di segno alterno, in cui hanno spazio l’avventurismo esistenziale e la disciplina, l’autodeterminazione e il compromesso, la ricerca di senso e le strategie di basso profilo, l’infelicità ma anche la speranza. *




* Copertina del libro: Eva Clesis, E intanto Vasco Rossi non sbaglia un disco, Newton Compton, 2011, pagg. 288
** Recensione: Leo Lestinghi, Corriere del Mezzogiorno, Libri, 26.07.2011
*** Fotografie all'interno: free copy da internet, la copertina di A cena con Lolita (Pendragon, 2005) e la Clesis con una copia di 101 motivi (Newton Compton, 2010)

giovedì 18 agosto 2011

Franz Kafka, La metamorfosi


Frank Kafka,
La metamorfosi


I 

Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po' la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
«Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d'abitazione, anche se un po' piccola, gli appariva in luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di telerie svolto da un pacco (Samsa faceva il commesso viaggiatore), stava appesa un'illustrazione che aveva ritagliata qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l'intero avambraccio.
Gregor girò gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo - si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale - si sentì invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un'altra dormitina?» pensò, ma non poté mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli era impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta ripiombava indietro supino. Tentò almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto smise perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima cominciò a pungergli il fianco.
«Buon Dio,» pensò, «che mestiere faticoso ho scelto! Dover prendere il treno tutti i santi giorni... Ho molte più preoccupazioni che se lavorassi in proprio a casa, e per di più ho da sobbarcarmi a questa tortura dei viaggi, all'affanno delle coincidenze, a pasti irregolari e cattivi, a contatti umani sempre diversi, mai stabili, mai cordiali. All'inferno tutto quanto!» Sentì un lieve pizzicorino sul ventre; lentamente, appoggiandosi sul dorso, si spinse più in su verso il capezzale, per poter sollevare meglio la testa, e scoprì il punto dove prudeva: era coperto di tanti puntolini bianchi, di cui non riusciva a capire la natura; con una delle gambe provò a toccarlo, ma la ritirò subito, perché brividi di freddo lo percorsero tutto.
Si lasciò ricadere supino. «Queste levatacce abbrutiscono,» pensò. «Un uomo ha da poter dormire quanto gli occorre. Dire che certi commessi viaggiatori fanno una vita da favorite dell'harem! Quante volte, la mattina, rientrando alla locanda per copiare le commissioni raccolte, li trovo che stanno ancora facendo colazione. Mi comportassi io così col mio principale! Sarei sbattuto fuori all'istante. E chissà, potrebbe anche essere la miglior soluzione. Non mi facessi scrupolo per i miei genitori, già da un pezzo mi sarei licenziato, sarei andato dal principale e gli avrei detto chiaro e tondo l'animo mio, roba da farlo cascar giù dallo scrittoio! Curioso poi quel modo di starsene seduto lassù e di parlare col dipendente dall'alto in basso; per giunta, dato che è duro d'orecchio, bisogna andargli vicinissimo. Be', non è ancora persa ogni speranza; una volta che abbia messo insieme abbastanza soldi da pagare il debito dei miei, mi ci vorranno altri cinque o sei anni, non aspetto neanche un giorno e do il gran taglio. Adesso però bisogna che mi alzi: il treno parte alle cinque.»

E volse gli occhi alla sveglia che ticchettava sul cassettone. «Santo cielo!» pensò. Erano le sei e mezzo: le sfere continuavano a girare tranquille, erano anzi già oltre, si avvicinavano ai tre quarti. Che la soneria non avesse funzionato? Dal letto vedeva l'indice ancora fermo sull'ora giusta, le quattro: aveva suonato, non c'era dubbio. E come mai, con quel trillo così potente da far tremare i mobili, lui aveva continuato pacificamente a dormire? Via, pacificamente proprio no; ma forse proprio per questo più profondamente. Che fare, ora? Il prossimo treno partiva alle sette: per arrivare a prenderlo avrebbe dovuto correre a perdifiato, e il campionario era ancora da riavvolgere, e lui stesso non si sentiva troppo fresco e in gamba. Del resto, fosse anche riuscito a prenderlo, i fulmini del principale non glieli cavava più nessuno, perché al treno delle cinque era andato ad aspettarlo il fattorino della ditta; e sicuramente già da un pezzo aveva ormai riferito che lui era mancato alla partenza. Era una creatura del principale, un essere invertebrato, ottuso. Darsi malato? Sarebbe stato un ripiego sgradevole e sospetto: durante cinque anni d'impiego Gregor non si era mai ammalato una volta. Certamente sarebbe venuto il principale, insieme al medico della cassa mutua, avrebbe deplorato coi genitori la svogliatezza del figlio e, tagliando corto ad ogni giustificazione, avrebbe sottoposto il caso al dottore, per il quale non esisteva che gente perfettamente sana ma senza voglia di lavorare. E si poteva poi dire che in questo caso avesse tutti i torti? In realtà Gregor, a parte una sonnolenza veramente fuori luogo dopo tanto dormire, si sentiva benissimo, aveva anzi un appetito particolarmente gagliardo.
Mentre in gran fretta volgeva tra sé questi pensieri, senza sapersi decidere ad uscire dalle coltri (e la sveglia in quel momento batté le sei e tre quarti), sentì bussare lievemente alla porta dietro il letto.
«Gregor,» chiamò una voce - quella di sua madre -, «manca un quarto alle sette, non dovevi partire?» Dolcissima voce! All'udire la propria in risposta, Gregor inorridì: era indubbiamente la sua voce di prima, ma vi si mescolava, come salendo dai precordi, un irreprimibile pigolio lamentoso; talché solo al primo momento le parole uscivano chiare, ma poi, nella risonanza, suonavano distorte, in modo da dare a chi ascoltava l'impressione di non aver udito bene. Avrebbe voluto rispondere esaurientemente e spiegare ogni cosa, ma, viste le circostanze, si limitò a dire: «Sì sì, grazie mamma, mi alzo subito.» Evidentemente la porta di legno non permise che di là ci si accorgesse della voce mutata, poiché la mamma non insistè oltre e si allontanò. Ma il breve dialogo aveva richiamato l'attenzione degli altri familiari sul fatto che Gregor, contro ogni previsione, era ancora in casa; e già ad una delle porte laterali bussava il padre, piano, ma a pugno chiuso. «Gregor, Gregor,» chiamò, «che succede?» E dopo un breve intervallo levò di nuovo, più profondo, il richiamo ammonitore: «Gregor! Gregor!» Intanto all'uscio dirimpetto si udiva la sommessa implorazione della sorella: «Gregor! Non stai bene? Ti serve qualcosa?» «Ecco, son pronto,» rispose lui in tutte e due le direzioni, e si sforzò di togliere alla voce ogni inflessione strana pronunziando molto chiaramente le singole parole e intercalandole con lunghe pause. Il padre infatti se ne tornò alla sua colazione, ma la sorella sussurrò: «Apri, Gregor, te ne scongiuro.» Ma Gregor si guardò bene dall'aprire, anzi lodò in cuor suo l'abitudine presa viaggiando di chiudere sempre, anche a casa, tutte le porte a chiave.


II
 
Solo al crepuscolo Gregor si svegliò da quel sonno greve, simile a un deliquio. Certamente, anche se non l'avessero disturbato, non avrebbe tardato molto a destarsi: si sentiva, infatti, riposato e sazio di sonno; ma gli parve di avvertire qualcuno camminare in punta di piedi e richiudere cautamente la porta che dava in anticamera. La luce dei lampioni elettrici entrava dalla via, macchiando qua e là di bianco il soffitto della stanza e le parti alte dei mobili; ma giù, dove stava lui, tutto era buio. Pian piano, brancicando ancora goffamente con le antenne (di cui, però, cominciava ora ad apprezzare l'utilità), avanzò verso la porta per vedere cosa ci fosse di nuovo. Il suo fianco sinistro sembrava ridotto ad una sola grossa cicatrice che gli dava fitte sgradevoli, ed era costretto a zoppicare sulla sua doppia fila di gambe: tra l'altro, nel corso degli avvenimenti del mattino, una zampetta era rimasta ferita - quasi un miracolo che se ne fosse ferita una sola! - e si trascinava esanime.
Solo quando fu presso la porta capì che cosa era stato ad attirarlo: un odore di roba mangereccia. Vi era deposta una ciotola colma di latte zuccherato, con inzuppati alcuni pezzetti di pane. Fu sul punto di ridere dalla gioia, poiché si sentiva ancor più fame che al mattino, e tuffò la testa nel latte quasi fin sopra gli occhi; ma subito la ritrasse deluso: non solo il cibarsi gli riusciva difficile a causa della scorticatura del fianco (per mangiare doveva lavorare sbuffando con l'intero corpo), ma anche il latte, che era sempre stato la sua bevanda preferita - e che certamente per questo motivo la sorella gli aveva preparato - non gli piaceva più. Quasi con disgusto si allontanò dalla ciotola e si ritirò nel mezzo della camera.
Nel tinello, come Gregor constatò ispezionando dalla fessura dell'uscio, era accesa la luce a gas; ma mentre di solito a quell'ora il babbo, preso il giornale pomeridiano, ne dava lettura a voce spiegata alla mamma e talvolta anche alla sorella, in quel momento non si sentiva nulla. Chissà, forse quell'abitudine di leggere ad alta voce, di cui la sorella gli aveva parlato e scritto così sovente, negli ultimi tempi era caduta in disuso. Ma anche su tutto il resto della casa, che pure certamente non era vuota, gravava lo stesso silenzio. «Che vita tranquilla facevano i miei!» si disse Gregor fissando l'oscurità dinanzi a sé, e provò un senso d'orgoglio all'idea di aver potuto assicurare ai genitori e alla sorella una vita simile in una casa così bella. Possibile che tutta quella pace, quell'agiatezza, quella letizia fosse ora destinata ad una fine spaventevole? Preferì non attardarsi in questi pensieri e si mise a strisciare su e giù per la stanza.



III
 
Per un mese Gregor soffrì della grave ferita riportata: la mela, che nessuno osava togliere, gli era rimasta conficcata quale visibile ricordo nelle carni. Ma l'accaduto era evidentemente servito a ricordare anche al babbo che, con tutta la bruttezza e la ripugnanza del suo attuale aspetto, Gregor era un membro della famiglia, e non si poteva quindi trattarlo da nemico: al contrario, unico dovere dei familiari di fronte a lui era di reprimere il ribrezzo e di pazientare, null'altro.
La ferita aveva tolto a Gregor - probabilmente per sempre - l'agilità dei movimenti, tanto che adesso, per attraversare la stanza, impiegava, come un vecchio invalido, parecchi minuti; quanto all'arrampicarsi sui muri, non ci pensava nemmeno più. Ma a tale peggioramento del suo stato aveva corrisposto un motivo di piena soddisfazione per lui: ogni sera veniva aperto l'uscio verso il tinello (non senza che egli fosse rimasto, prima, a fissarlo immobile per un'ora o due) e Gregor, dal buio della sua camera, poteva contemplare non visto tutta la famiglia seduta intorno alla tavola illuminata, e ascoltarne i discorsi: ciò con una sorta di tolleranza collettiva, ossia in condizioni ben diverse da prima.
Naturalmente non eran più le animate conversazioni di un tempo, a cui Gregor aveva sempre pensato con un po' di nostalgia quando, nelle stanzucce d'albergo, si buttava stanco fra le coltri umide. Adesso quasi sempre c'era silenzio.Il babbo, poco dopo terminata la cena, s'addormentava sulla poltrona; la mamma e la sorella si raccomandavano a vicenda di tacere; la mamma, curva sotto la lampada, cuciva biancheria fina per un negozio di mode; la sorella, avendo trovato un impiego di commessa, la sera studiava stenografia e francese, nella speranza di ottenere in seguito qualche posto migliore. Ogni tanto il babbo si svegliava e, come fosse del tutto ignaro d'aver dormito, diceva alla mamma: «Quanto hai cucito, oggi!» poi subito richiudeva gli occhi, mentre le due donne si scambiavano uno stanco sorriso.
Il babbo, per una singolare testardaggine, quand'era a casa rifiutava di togliersi l'uniforme di servizio; e mentre la vestaglia inutilizzata restava appesa all'attaccapanni, lui, tutto vestito, sonnecchiava al suo posto, come se dovesse sempre essere pronto per il servizio e anche a casa aspettasse la chiamata d'un superiore. Di conseguenza l'uniforme, ad onta delle cure che le dedicavano la mamma e la sorella, andò perdendo la sua lucentezza (tanto più che fin dall'inizio non era nuova); spesso Gregor passava intere serate a guardare quell'abito sempre più macchiato, coi soli bottoni d'oro costantemente lucidi e splendidi, entro il quale il vegliardo, benché scomodissimo, dormiva tranquillo.


* Copertina: Salvador Dalì, Metamorfosi di Narciso, 1937
** Immagini all'interno: free copy da internet, sono le copertine di alcune edizioni delle Metamorfosi di Kafka.

mercoledì 17 agosto 2011

Giuseppe Pitrè, Lu munacheddu.







Lu munacheddu.

(Opera LI, Libro II, da Fiabe, novelle e 
racconti popolari siciliani di Giuseppe Pitrè)**



Ora cuntu un cuntu chi fa scantari pocu mancu; èsti lu cuntu di lu Munacheddu.
Si cunta e si riccunta ca cc'eranu 'na vota dui munaceddi. Sti dui munaceddi ogn'annu jianu a la cerca: uno era cchiù granni e uno era cchiù nicu. Ogn'annu jianu a la cerca, ca jèranu puvireddi. 'Na vota sgarraru la via; un viulazzu tintu tintuni. Lu nicu dissi a lu granni: — «'Un è lu violu nostru, chistu.» — «Avogghia, caminamu.»
Caminannu vittiru 'na grutta grannissima, e cc'eran'armalu chi facía focu; ma iddi 'un si lu cridevanu ch'era n'armalu. Dici: — «Ora si nni jemu ddocu a ripusari.» — Traseru, e cc'era st'armalu ch'ammazzava pecuri (ca avia pecuri) e la jardiava. Comu traseru chisti, st'armalu ammazzau 'na vintina di pecuri, li jardiau. — «Manciàti!» — «'Un vulemu manciari, ca 'un avemu fami.» — «Manciàti v'haju dittu!» Accabbata ca si manciaru tutti sti pecuri lu diavulu si susíu (ca dd'armalu era diavulu); iddi si curcaru, e iddu, l'armalu, iju a pigghiari 'na petra grannissima, la misi davanzi la grutta, pigghiau un ferru grannissimu puntutu puntutu, lu jardíu, e cci lu nfilau 'nta lu coddu a lu granni di li munaceddi, lu jardiau e si lu vulia manciari cu lu nicu. — «Nu nni vogghiu manciari, ca sugnu sàturu,» dici lu nicu. — «Susi, masinnò a tia ammazzu.»
Lu mischineddu pi lu scantu si susíu, si misi 'n tavula, pigghiava, lu mischinu, un pizzuddu, e facia finta ca manciava, e jittava 'n terra, e jittava 'n terra. — «Maria! sugnu sàturu, veru.»
A la notti lu banientu pigghia lu ferru, lu quadiau e cci lu ficca 'nta l'occhi; l'occhi cci sbudiddaru tutti. — «Ah! ca m'ammazzau!» Lu banientu si 'nfilau 'nta la lana di li pecuri pi lu scantu; a tantuni a tantuni l'armalu va a leva la petra di la grutta e nesci tutti li pecuri a una a una. Vinni la pecura unn'era lu banientu, e lu banientu 'un cc'era cchiù. Si nni iju 'n Trapani, a mari. Cc'eranu 'n Trapani tutti li varchi, e li vara. Dici iddu: — «Ora facìtimi mettiri ddocu e vi lu cuntu.» Si misi 'nta na varca; l'armalu lu iju a piscari, e li marinara misiru a curriri varca varca. 'Nta mentri curri, pigghia 'na petra di pettu, iddu, ca era orvu, cadíu e si rumpíu la testa. Lu mari, a quantu sangu cci niscíu a chistu, si russiau tuttu. Lu picciottu si nni iju, e l'armalu arristau ddà.
E accabbau lu cuntu.

Erice




LI.
(Traduzione letterale)

Il fraticello.
Adesso vi racconto una storia che mette non poca paura; questa è la storia del fraticello.
Si racconta da sempre che c’erano una volta due fraticelli. Questi due fraticelli ogni anno andavano a fare la questua: uno era più grande e uno più piccolo. Ogni anno andavano a fare la questua perché erano poverelli. Una volta sbagliarono la strada e presero un sentiero bruttissimo. Il più piccolo disse al più grande: — «Non è il nostro viottolo questo» — «Non importa, andiamo.»
Camminando videro una grotta grandissima, dov’era un animale che faceva del fuoco; ma quelli non potevano credere che fosse un animale. Dice: — «Ora andiamo là per riposare.» — Entrarono e trovarono questo animale che ammazzava pecore (perché aveva pecore) e le cucinava. Non appena questi entrarono, l’animale ammazzò una ventina di pecore e le cucinò. — «Mangiate!» — «Non vogliamo mangiare perché non abbiamo fame.» — «Mangiate, vi ho detto!» Non appena finirono di mangiare tutte le pecore, il diavolo si alzò (perché quell’animale era il diavolo); quelli si misero a dormire, e quell’altro, l’animale, andò a prendere una pietra grandissima, la mise davanti alla grotta, prese un ferro grandissimo molto appuntito, lo mise sul fuoco e infilzò al collo il più grande dei fraticelli, lo cucinò e volle mangiarlo con il più piccolo. — «Non lo voglio mangiare perché sono pieno,» disse il piccolo. — «Alzati, sennò t’ammazzo.»
Per la paura il disgraziato si alzò, prese posto a tavola, ne prendeva, il poveretto, un pezzetto, e faceva finta di mangiarlo, e invece lo gettava a terra. — «Mamma mia, sono pieno, per davvero.»
Di notte il buonuomo prende il ferro, lo mette sul fuoco e glielo conficca negli occhi; gli occhi gli schizzarono di fuori tutt’e due. — «Ah, mi hanno ammazzato!» Per la paura il buonuomo si nasconde tra la lana delle pecore; a tentoni l’animale va a togliere la pietra dell’antro della grotta e fa uscire le pecore a una a una. Poi fu il turno della pecora dov’era il buonuomo; ma il buonuomo non c’era più. Se n’era andato a Trapani, al mare. C’erano a Trapani tutte le barche e i pescatori. Lui dice: — «Fatemi accomodare là e vi racconto tutto.» Si mise nella barca; l’animale li andò a pescare, e i marinai si affrettarono a raggiungere le barche. Mentre corre, inciampa su una pietra, perché era cieco, cadde e si ruppe la testa. Il mare, per il tanto sangue che quello perdeva, si tinse tutto di rosso. Il ragazzo se ne andò, e l’animale rimase là.
E così finì il racconto.

Erice



LI.
(Traduzione in italiano)

Il frate.

Adesso vi racconto una storia che mette non poca paura. È la storia del frate.
Si racconta da sempre che c’erano due frati che ogni anno andavano a fare la questua: uno era più grande e uno più piccolo. Andavano a fare la questua perché erano molto poveri. Una volta, però, sbagliarono strada e presero un sentiero mai battuto. Il più piccolo disse al più grande: «Questo non è il nostro viottolo.»
L’altro gli rispose: «Non importa, andiamo.»
Camminando videro una grotta grandissima, dov’era un orco che faceva una brace. Quelli, però, non potevano credere che fosse un orco. Così uno disse all’altro: «Ora andiamo là per riposare.» Entrarono e trovarono quest’orco che ammazzava pecore (perché allevava soltanto pecore) e le cucinava. Non appena l’orco li vide, sgozzò una ventina di pecore e le cucinò alla brace.
«Mangiate!» li invitò.
«Non vogliamo mangiare perché non abbiamo fame.» gli risposerò quelli risoluti.
«Mangiate, vi ho detto!» insistette l’orco.
Non appena finirono di mangiare tutte le pecore, il diavolo si alzò (perché quell’orco era il diavolo in persona); mentre i due frati si misero a dormire. A quel punto, l’orco andò a prendere una pietra gigantesca e l’appoggiò davanti alla grotta per impedire che i due frati fuggissero. Poi prese un ferro enorme molto appuntito, lo mise sul fuoco e quando fu incandescente, lo infilzò al collo del più grande dei frati. Lo cucinò alla brace e volle mangiarlo con il più piccolo.
«Non lo voglio mangiare perché sono sazio.» disse il frate.  
«Alzati, sennò ti ammazzo.» insistette l’orco.
Per la paura il disgraziato si alzò, si sedette a tavola e, per non contrariare l’orco, ne prendeva un pezzetto, faceva finta di mangiarlo e, invece, lo gettava a terra. «Mamma mia, sono sazio, per davvero.» si giustificava per sottrarsi a quella situazione.
Di notte il buonuomo, mentre l’orco dormiva, prese il ferro, lo mise sul fuoco e quando fu incandescente, glielo conficcò negli occhi che gli uscirono dalle orbite. Per il dolore l’orco cominciò a urlare: «Ah, mi hanno ammazzato!».
Per non essere ucciso e mangiato anche lui, il buonuomo si nascose nella lana delle pecore; mentre l’orco a tentoni raggiunse l’antro della grotta per togliere la pietra e fare uscire le pecore a una a una. Quando fu il turno della pecora dove si nascondeva il buonuomo, quello non c’era più perché se n’era già andato a Trapani, al mare.
Là, per fortuna, c’erano tutte le barche e i pescatori. Il frate gli disse: «Fatemi accomodare nella barca e vi racconto la brutta avventura che ho vissuto.»
Quelli lo fecero sedere nella barca, ma l’orco li raggiunse, e tutti i marinai se la diedero a gambe levate per non essere uccisi. Mentre l’orco correva per raggiungerli, inciampò su una pietra, perché oramai era cieco, cadde e si ruppe la testa. Per il tanto sangue che perdeva, il mare si tinse tutto di rosso. Il frate ne approfittò e se ne andò mentre l’orco rimase là.
E così finì il racconto.

Erice


Produzione: Ithaca©

* Copertina: free copy da internet, Annibale Carracci - La Galleria Farnese: Polifemo e Aci
** Testo: FIABE, NOVELLE E RACCONTI POPOLARI SICILIANI RACCOLTI ED ILLUSTRATI DA GIUSEPPE PITRÈ, FORNI EDITORE — BOLOGNA, Ristampa anastatica dell'edizione di Palermo, 1870-1913, Vol. II, Opera LI.