giovedì 11 ottobre 2012

L’autunno di Sergiusz Piasecki



L’autunno
di Sergiusz Piasecki

L’autunno.
L’oro pende dagli alberi, formicola nell’aria, striscia sotto i piedi. Intorno c’è un mare d’oro.
Si cammina su tappeti d’oro. E questa stagione dalle profonde, oscure notti, è anche per i contrabbandieri la “stagione d’oro”.
Il confine freme di vita. Le spedizioni si seguono notte per notte. I contrabbandieri lavorano come pazzi. Non hanno nemmeno il tempo di prendere delle sbornie con tutti i quattrini che guadagnano. Nessuno di noi vede quasi la luce del giorno, perché di giorno si dorme dopo le sgobbate notturne.
Sono dimagrito e mi sono abbronzato. Anche Trofida è scuro. Ma mi sento molto più robusto di una volta, quando facevo le prime spedizioni. Ora una marcia di trenta chilometri, di notte, con un carico sulle spalle, è uno scherzo per me. Ho passato undici volte i reticolati. Sono già stato sfiorato dalle pallottole dei Verdoni. Quando sentii per la prima volta il loro sibilo mi divertii assai, ero eccitato dal pericolo. Non avevo affatto la sensazione di poter essere colpito io, no, per niente!
Quando uscivamo nella notte e procedevamo adagio, silenziosi, mi sembrava di camminare sott’acqua. Mi sembrava che fossimo intrepidi navigatori che attraverso svariati pericoli cercavano il loro porto.
Se in una profonda notte autunnale si potesse squarciare il velo delle tenebre, si vedrebbero per lungo spazio file di contrabbandieri che avanzano furtivamente a gruppi di tre, quattro, cinque e certe volte anche dieci e più uomini. I gruppi più numerosi sono guidati da esperti conoscitori della frontiera, i “macchinisti”. I piccoli gruppi scorrazzano, di solito, per proprio conto. Anche le donne prendono parte a queste spedizioni, spesso parecchie insieme, nell’intento di acquistare per argento, per oro, o per dollari merce polacca da poter rivendere con lauti profitti in Russia. Le bande armate sono poche perché, di solito, i contrabbandieri non usano armi. E se qualcuno si tira dietro un fucile se ne sbarazza al più presto soprattutto se viene fermato dalle guardie. È l’arma più temuta di tutte, l’“otrez”, il fucile a canna corta dei banditi. C’è un gruppo, però, che è sempre armato: è quello degli Alinciuki, di Sacka e di qualche altro contrabbandiere che ha buone ragioni per esserlo.
Abolendo il velo dell’oscurità sulla frontiera si potrebbero vedere i pescecani del confine, i contadini che tendono agguati ai contrabbandieri; essi sono armati di “otrez”, di carabine, di rivoltelle, di mazze, di scuri e di forche. Si potrebbero anche vedere le bande sovversive, composte di parecchi uomini armati, oltreché di carabine e di rivoltelle, di mitragliatrici e di granate; quelle dei ladri di cavalli che contrabbandano questi animali dalla Polonia alla Sovietia e viceversa. Si potrebbe scorgere, infine, una figura insolita, un uomo che, solo soletto, misura con i suoi passi il confine e varca la frontiera nei luoghi più pericolosi. Egli avanza con le mani piene di bombe, con le rivoltelle alla cintura e il pugnale al fianco; è una spia… È un audace, un astuto, salvatosi miracolosamente da mille avventure, risoluto come il Diavolo stesso, spavaldo bandito della frontiera. Lo temono tutti: i contrabbandieri e le guardie confinarie, gli agenti dello spionaggio e del controspionaggio e anche i contadini. Acciuffare un contrabbandiere è una bella cuccagna, ma imbattersi in un demonio simile è la cosa più terribile che possa capitare.
Si potrebbero vedere ancora molte altre cose strane ed interessanti… ma di esse parlerò nel seguito del mio racconto.

* Testo: tratto da L’amante dell’Orsa Maggiore di Sergiusz Piasecki, pagine 59-60, con la traduzione dal polacco di Evelina Bocca Radomska e Gian Galeazzo Severi, Arnoldo Mondadori Editore, Gli Oscar, ottobre 1965 I edizione

** Fotografia di Sergiusz Piasecki scaricata free copy da internet 

martedì 4 settembre 2012

Il secondo avvento per Mark Twain



Il secondo avvento
per Mark Twain

[…] A Black Jack viveva con i suoi genitori una ragazza aggraziata e gentile, Nancy Hopkins. Gli Hopkins erano vecchi residenti, anzi, né loro né i loro antenati fino alla seconda generazione avevano conosciuto altri luoghi se non Black Jack. Come iniziò a sbocciare la sua femminilità, Nancy venne corteggiata da molti giovanotti del villaggio; alla fine ella diede la preferenza al fabbro Jackson Barnes e i genitori gliela promisero in sposa. Ben presto la cosa divenne nota a tutti e naturalmente fu ampiamente discussa, come si fa nei paesi. I giovani fidanzati ricevettero battute di spirito, scherzi e felicitazioni alla maniera franca e rude della frontiera, mentre i corteggiatori rifiutati erano tempestati di insulse battute.
Poi, esaurito l’argomento, sopraggiunse un periodo di calma; un periodo in cui le lingue erano ferme, non essendoci niente di niente di cui si potesse parlare in quel piccolo mondo. Ma poco dopo ci fu un cambiamento: all’improvviso tutte le lingue tornarono attive. Anzi, più attive di quanto non fossero mai state a memoria d’uomo, perché non era mai accaduto di avere a disposizione un argomento così prodigioso come quello che ora si presentava: Nancy Hopkins, la dolce sposa promessa, era…
La notizia volò di bocca in bocca con rapidità quasi telegrafica: le mogli lo dissero ai mariti, i mariti agli scapoli; se ne impadronirono le serve e lo raccontarono alle giovani signorine; si spettegolò in ogni angolo; pionieri rudi e volgari ci scherzavano sopra pesantemente bevendo whisky all’emporio del villaggio, accompagnando le spiritosaggini con parole blasfeme e oscene e possenti esplosioni di rauche risate. Invitarono l’ignaro fabbro ad entrare nell’emporio e gli buttarono in faccia la sensazionale notizia con brutale franchezza e limpidezza. All’iniziò si sentì annichilito dal dolore e dall’infelicità, ma ben presto a questi sentimenti si succedette la rabbia e si mise a dire che sarebbe andato a rompere il fidanzamento. Dopo che fu uscito il pubblico dell’emporio si organizzò come assemblea pubblica per valutare cosa si dovesse fare della ragazza. Dopo un breve dibattito si deliberò:
1.      che doveva dire il nome del traditore
2.      e sposarlo immediatamente
3.      altrimenti sarebbe stata linciata ed esiliata nella Riserva Indiana.
La riunione non si era ancora sciolta quando videro ritornare Jackson Barnes e, con stupore di tutti, aveva il volto calmo, placido, felice, addirittura gioioso. Tutti gli si accalcarono intorno per sentire cosa poteva dire a spiegazione di tale strano esito. Ci fu un profondo silenzio sospeso per alcuni istanti, poi Barnes disse, colmo di meraviglia, con voce e toni solenni:
Ha spiegato. Ha chiarito tutto. Io sono soddisfatto e le ho restituito il mio amore e la mia protezione. Mi ha raccontato tutto e con perfetta franchezza, senza nascondere nulla. È pura e incontaminata. Darà alla luce un figlio ma non ha avuto a che fare con nessun uomo. È Dio che l’ha onorata, che l’ha presa, è da lui che avrà questo bambino. Ineffabile gioia è la nostra perché siamo benedetti fra tutti gli uomini.
Aveva il volto radioso di divina gioia mentre parlava. Ma quando ebbe concluso si levò dalla folla una brutale derisione: tutti lo schernivano, lo assaltavano da ogni parte con insulti e domande. […].


* Testo: tratto da Il secondo avvento – The second advent di Mark Twain, pagine 5-9, con la traduzione di Carla Muschio, Stampa Alternativa, 1 euro, novembre 2002 I edizione

** Fotografia di Mark Twain scaricata free copy da internet


lunedì 13 agosto 2012

Il paradiso di Magnus Pym La spia perfetta di John Le Carrè


Il paradiso di Magnus Pym
La spia perfetta
di John Le Carrè

Il paradiso era una terra dorata tra Gerrards Cross e il mare, dove Dorothy stirava con addosso un pullover d’angora e andava a fare la spesa con un cappottone blu. Il paradiso era il luogo in cui Rich e Dorothy si erano rifugiati dopo il matrimonio clandestino, una terra di sogno con nuove partenze e tanti futuri eccitanti, ma io non ricordo un giorno di quel periodo senza che Lippsie non vi si aggirasse sullo sfondo con passo impaziente o mi dicesse quello che è giusto o quello che è sbagliato con una voce che non mi irritava. A est, a un’ora di Bentley, c’era la Città, e nella Città c’era il West End dove Rich aveva l’ufficio; e nell’ufficio c’era un grande ritratto fotografico colorato a mano del Nonno TP che portava il collare al sindaco, ed era per via dell’ufficio che Rich tornava a casa tardi la sera, il che per il piccolo Pym andava benissimo perché allora poteva entrare nel letto con Dorothy per darle un po’ di calore, lei era minuta e freddolosa anche per un bambino. Certe volte Lippsie restava a casa con noi, certe altre andava a Londra con Rich perché doveva diplomarsi e, adesso, capisco, giustificare il fatto che fosse viva quando tanti del suo popolo erano morti.
Il paradiso era una successione di lustri cavalli da corsa che Syd chiamava “semprelesti” e un susseguirsi di ancor più lustre Bentley che, come le case, si consumavano con la stessa rapidità del credito a cui erano state comprate e che bisognava cambiare con velocità da mozzare il fiato per comprare altri modelli più nuovi e più cari. Certe volte le Bentley erano talmente preziose che bisognava portarle dietro la casa e nasconderle in giardino per paura che lo sguardo degli infedeli ne appannasse lo splendore. Certe altre volte Pym le guidava a mille miglia all’ora sedendo in grembo a Rich, lungo strade in costruzione dal fondo sabbioso fiancheggiate da betoniere, suonando il gran clacson dalla voce profonda mentre Rich salutava gli operai gridando “Come va, ragazzi?” e invitandoli tutti quanti a casa sua a bere un bicchiere di spumante. E c’era anche Lippsie con noi seduta accanto al volante, dritta e remota come un cocchiere, finché Rich non le rivolgeva la parola o non diceva qualche battuta. Allora il suo sorriso era come il sole delle vacanze e lei ci amava tutt’e due.
Il paradiso era anche St. Moritz da dove arrivavano i coltelli a serramanico svizzeri, per quanto non so come le Bentley e quei due inverni di prima della guerra passati in Svizzera si siano fusi nella memoria in un luogo solo. Anche oggi mi basta sentire l’odore di cuoio che si sente dentro una macchina di lusso per tornare con voluttà alle grandi sale d’albergo di St. Moritz sulla scia del turbolento amore di Rich per le celebrazioni. Il Kulm Hotel, il Suvretta House, il Grand Hotel per Pym erano un unico gigantesco palazzo con servitori diversi ma con un’unica corte: il seguito di Rich composto da buffoni, acrobati, consiglieri e fantini; lui praticamente non andava da nessuna parte senza di loro. Di giorno, portieri italiani muniti di lunghe scope ci toglievano la neve dagli scarponi ogni volta che passavamo dalle porte girevoli. Di notte, mentre Rich e la sua corte banchettavano con le Bellezze del luogo e Dorothy era troppo stanca, Pym s’avventurava tenuto per la mano da Lippsie per le viuzze coperte di neve stringendo il coltello a serramanico che aveva in tasca e immaginando di essere un principe russo pronto a proteggerla da chiunque ridesse di lei visto che era tanto seria. E la mattina quando si alzava presto andava da solo in punta di piedi fin sul pianerottolo a guardare attraverso le balaustre la sua schiera di servi al lavoro nella gran sala sottostante, e così facendo annusava l’odore stantio di sigaro e il profumo delle donne e l’odore di cera che luccicava simile a rugiada sul parquet mentre loro lo lucidavano con l’ampio movimento degli spazzoloni. Di questo sapevano le Bentley di Rich, dopo: delle bellezze, di cera d’api, del fumo dei suoi sigari da miliardario. E appena appena, per via delle gite sulla slitta tirata da cavalli nella foresta gelata a fianco di Lippsie, di freddo e di sterco di cavallo, mentre lei chiacchierava in tedesco con l’uomo che guidava la slitta.
Ritornati a casa, il paradiso erano le piramidi di luci mandarini avvolti in carta d’argento, e i rosei lampadari della sala da pranzo e quando andavamo rombando in lontani ippodromi a far vedere in giro i nostri bracciali di Proprietari e a guardare perdere i “semprelesti”; e anche un minuscolo televisore in bianco e nero incassato dentro un gran mobile di mogano sul quale guardavamo la regata dietro a un cielo di puntini bianchi, e quando guardavamo il Grand National i cavalli erano così lontani che Rich si chiedeva come facessero a trovare la strada giusta, ma ho paura adesso che i cavalli di Rich non la trovassero mai, e per questo Syd li chiamava “semprelesti”. E poi il cricket in giardino con Syd, sei pence se non faceva fuori Titch in sei mani. E poi la boxe in salotto con Morrie Washington, l’esperto di corte sul corpo a corpo, giacché Morrie era il nostro Ministro dei Beni Culturali: aveva parlato con Bud Flanagan e aveva stretto la mano a Joe Louis, e aveva fatto da spalla all’Uomo con gli Occhi a Raggi X. Ed era anche quando il signor Muspole, il gran contabile, mi tirava fuori le mezze corone dalle orecchie, per quanto il signor Maspole non mi sia mai stato troppo simpatico: dovevo far troppi calcoli a mente. E poi vedere le zollette di zucchero che scomparivano sotto l’avvocatesco cappello floscio di Perce Loft: venivano trasformate in chimere sotto i miei occhi. E andare a cavalluccio per il giardino sulle spalle dei fantini in panciotto: gente che si chiamava Billie e Jimmy e Gordon e Charlie e che erano i maghi più bravi del mondo, gli elfi più veri, e che leggevano tutti i miei fumetti e mi davano i loro quando li avevano finiti.
Ma sempre da qualche parte in questo carnevale trovo Lippsie, ora madre, ora dattilografa, musicista, giocatrice di cricket, e sempre personale tutrice di Pym in campo morale, Lippsie che corre impaziente fuori campo inseguendo una palla alta mentre tutti le gridano Achtung!, e hop, attenta alle aiuole. E fu ancora in paradiso che Rich diede un calcio a un pallone nuovo di zecca, un pallone per adulti, e prese il giovane Pym in piena faccia, il che fu come essere colpiti dall’interno da tutte le Bentley in una volta, con lo stesso cuoio che viaggiava alla stessa spericolata velocità. Quando si riebbe, Dorothy era china su di lui stringendo un fazzoletto tra i denti e gemendo: “Oh no, ti prego mio Dio, no” perché c’era sangue dappertutto. Il pallone gli aveva fatto soltanto un taglio sulla fronte ma Dorothy era convinta che gli avesse schiacciato il globo oculare destro dentro l’orbita così che non sarebbe uscito mai più. Poveretta, era troppo terrorizzata per lavare il sangue così dovette pensarci Lippsie, perché Lippsie era capace di toccarmi allo stesso modo in cui toccava gli animali e gli uccellini feriti. Mai ho conosciuto una donna che più di lei avesse mani capaci di toccare. E io sono convinto adesso che questo io fossi per lei: una cosa da toccare e tener cara e proteggere, dopo che le avevano tolto tutto il resto. Io ero il suo barlume di speranza e d’amore nella prigione dorata in cui Rich la teneva.
In paradiso quando Rich era in casa non era mai notte e nessuno andava a letto tranne Dorothy, che si era autonominata la Bella Addormentata di corte. Pym poteva partecipare alla festa quanto voleva e loro erano tutti là, Rich e Syd e Morrie Washington e Perce Loft e il signor Muspole e Lippsie e i fantini, sdraiati sul pavimento in mezzo a mucchi di soldi, a guardare la pallina della roulette rimbalzare mentre TP in grande uniforme li osservava, così che deve esserci stata una sua fotografia anche in casa. E rivedo tutti noi che balliamo alla musica del grammofono e ci raccontiamo storielle su uno scimpanzé che si chiamava Little Audrey che rideva e rideva a storielle incomprensibili per il piccolo Pym. Però Pym rideva più forte di tutti perché stava imparando come si fa a piacere alla gente, imitando le voci e raccontando buffe storielle che lo rendessero simpatico. In paradiso tutti si amavano perché una volta Pym trovò Lippsie seduta sulle ginocchia di Rich e un’altra volta lo vide ballare guancia a guancia con lei, un sigaro stretto tra i denti, cantando “Sotto gli archi” con gli occhi chiusi. Ed era un peccato che Dorothy fosse anche questa volta troppo stanca per mettersi l’abito lungo con le gale che Rich le aveva comprato – uno rosa per Dorothy e uno bianco per Lippsie – e venir giù anche lei a divertirsi un po’. Ma quanto più forte Rich la chiamava gridando da sotto tanto più sodo lei dormiva, come Pym ebbe modo di accertare quando Rich lo mandò su a dirglielo. Bussò alla porta e nessuno rispose. In punta di piedi si avvicinò all’enorme letto e le tolse dalla guancia qualcosa che in un primo momento prese per una ragnatela. La chiamò prima a bassa voce e poi gridando, ma senza risultato alcuno. Dorothy dormendo piangeva, riferì quando scese di sotto. Ma la mattina dopo tutto era tornato a posto perché erano tutt’e tre nello stesso letto con Rich in mezzo, e a Pym fu permesso di entrarci anche lui vicino a Lippsie mentre Dorothy scendeva di sotto a tostare il pane e Lippsie lo teneva gravemente stretto a sé osservandolo con il suo cipiglio perplesso, moralistico, che, oggi penso, era un modo di dirmi che si vergognava della sua debolezza e della sua infatuazione, e se ne voleva purificare col suo interesse per me.
In paradiso, è vero, Rich alzava la voce, ma mai con Pym. Mai una volta è successo; aveva una volontà abbastanza forte da poterne fare a meno, e un amore ancora più forte. Gridava con Dorothy, la blandiva o l’ammoniva a proposito di cose che Pym non poteva capire. Più di una volta la trascinò fisicamente al telefono obbligandola a parlare con la gente – con lo zio Makepeace, con i bottegai, con altre persone che chissà come ci minacciavano, e solo Dorothy poteva renderli mansueti, perché Lippsie si rifiutava di farlo, e comunque non aveva l’accento giusto. Fu allora, credo, che Rich sentì fare per la prima volta il nome di Wentworth, perché mi ricordo di Dorothy che mi teneva la mano per farsi coraggio mentre diceva alla signora Wentworth di non preoccuparsi per i soldi che tutto sarebbe finito bene se solo avesse smesso di insistere tanto. Fu così che fin dall’inizio il nome Wentworth significò cose cattive per Pym. Divenne sinonimo di paura e di fine di tutto.

* Testo: tratto da La spia perfetta di John Le Carrè, pagine 85-89, con la traduzione di Marco e Dida Paggi, CDE su licenza Mondadori, 1987 I edizione

** Fotografia di John Le Carrè scaricata free copy da internet

domenica 5 agosto 2012

Le Coefore nella traduzione di Edoardo Sanguineti


Le Coefore
nella traduzione di Edoardo Sanguineti

L’osservazione è banale, anche se non è mancato chi, come Walter Benjamin, ha saputo divinarne implicazioni arcane e peregrine: certo è che, fra tutti i prodotti letterari, più che mai davanti a una traduzione potremo dire a buon diritto “in principio era la parola”. Se poi la parola è quella di Eschilo, e il traduttore si chiama Edoardo Sanguineti, dall’ovvietà sembrano dischiudersi suggestioni particolarmente insinuanti. Letteratura che si nutre di letteratura, oggetto verbale che trae la sua vita da un altro oggetto verbale, questa volta la traduzione pone a confronto un leader dell’avanguardia, il poeta di Liborintus e di Wirrwarr, con il fondatore, nientemeno, della tragedia classica. Il lettore può immaginare da solo le acrobazie che, con un po’ d’ingegno e di spregiudicatezza, non sarebbe poi tanto arduo improvvisare sul tema.
In verità, la suggestione è abbastanza capziosa ed estrinseca. L’avanguardia non ha, naturalmente, nulla a che spartire con l’iconoclastia goliardica, se non nella pigrizia degli interpreti. Inoltre, l’opera del traduttore implica sempre la mediazione di una filologia, o comunque di una disciplina esegetica: e Sanguineti, come è noto, sa affidarsi con altrettanta naturalezza, oltre che agli strumenti della scrittura, alle strategie tortuose e riflesse della critica. Felice coincidenza, che del resto ha già fatto le sue prove in altre traduzioni esemplari: Le Baccanti di Euripide, la Fedra di Seneca, Le Troiane ancora di Euripide e, fuori dal genere teatrale, Il Giuoco del Satyricon. A continuare la serie viene ora la versione delle Coefore. Sarà bene, allora, parlare di questa così come si offre al lettore, iuxta propria principia.
La tragedia è la seconda (dopo l’Agamennone e prima delle Eumenidi) dell’unica trilogia tramandataci integra dall’antichità, l’Orestea. Ed è quella appunto in cui entra in scena l’eroe eponimo, tornato in Argo con l’amico Pilade per vendicare, secondo l’ordine di Apollo, la morte del padre. Vendetta atroce perché egli dovrà uccidere, con l’usurpatore Egisto, anche la propria madre, Clitemnestra. La prima parte del dramma si svolge davanti alla tomba di Agamennone, dove Oreste vede sopraggiungere Elettra, accompagnata dal Coro di ancelle (le coefere, ossia portatrici di libagioni), venute a celebrare riti funebri per placare l’ombra del morto: egli si rivela alla sorella, e con evoca il padre affinché lo assista nell’impresa. È in sostanza una lunga lamentazione, rievocativa e propiziatoria, attraverso la quale Oreste vince l’orrore del matricidio e si persuade ad agire. Segue serrata e fulminea la catastrofe. Elettra ora è assente, e il solo Oreste domina la scena, nella sua angoscia d’azione: intorno a lui si moltiplicano, in fugaci apparizioni, i personaggi (lo schiavo, la nutrice, Egisto), fino al dialogo terribile e risolutivo con l’antagonista, la madre. A differenza di Amleto (che in fondo deve uccidere solo l’usurpatore, anche se poi diventa causa di morte anche alla regina), Oreste ha avuto la forza di respingere il dubbio che l’attanaglia: ma già le mostruose Erinni custodi dei sacri vincoli di sangue, vengono a perseguitare l’eroe, che fugge per un nuovo esilio. La tragedia non ha dunque scioglimento, perché con la catastrofe finale apre al contempo un dilemma ulteriore nella coscienza del pubblico. L’intreccio inestricabile della “pietà” e del “terrore” resta sospeso davanti a un conflitto morale che non ha soluzione.
Il testo delle Coefore ci è pervenuto attraverso un unico codice, il Mediceus o Laurentianus XXXII 9, risalente al decimo o undicesimo secolo. E questo complica, anziché semplificare, il problema filologico, perché gli interrogativi che esso solleva non trovano neppure quella possibilità di risposta che spesso offre una collazione, un confronto sistematico fra più codici. In assenza di orientamenti ausiliari, per quanto concerne i passi controversi, il traduttore deve tuttavia compiere una scelta, soprattutto se il suo lavoro ha come in questo caso una destinazione precisa: la scena del teatro di Siracusa, dove le Coefere saranno rappresentate, per la regia di Giuseppe Di Martino, il 1° giugno 1978.
La funzionalità teatrale si impone pertanto, nella circostanza, come il solo criterio effettivo e responsabile. Un criterio che si rivela pertinente, al di là delle scelte testuali, anche per la veste linguistica medesima assunta dalla traduzione. Come l’epos, così il mito tragico si colloca, per dirla con Bachtin, in un “passato assoluto”, e una “distanza assoluta” lo separa dal pubblico. Conservare questa distanza, ecco il problema più insidioso. Di norma, il traduttore ricorre a un lessico arcaico, aulico, illustre: ma questo per sua natura addita, semmai, una lontananza storica, ancora interna alla dimensione lineare del tempo. Qui, già l’incipit suona diversamente dal consueto: non “Ermes ctonio”, bensì “Ermes dei morti”. Sanguineti suscita la solennità e il decoro, che si addicono alle vicende del mito, attraverso altri mezzi: l’ellissi, la concentrata fissità delle sentenze (“chi fa, soffra”) e, soprattutto, il ritmo. La sua è, certo, una versificazione libera, ma profondamente “regolata”, tale da rendere palese anche a uno spoglio sommario una serie di fenomeni rilevanti: l’uso frequente dell’allitterazione, il ricorso alla figura etimologica (“Per me, e per te, allora, io devo pregare questa preghiera?”), la prolessi del pronome, che il Leopardi avrebbe definito una “sprezzatura” peregrina nella sua apparente colloquialità (“Le ha già, il padre, le offerte che la terra beve”). Il verso si costituisce come un’integrazione di fattori fonetici, sintattici e lessicali, predisposta sin dall’inizio alla ricezione: cioè all’evento, interiormente misurato, che oltre la soglia invalicabile del proscenio evoca e purifica l’emozione dello spettatore per virtù stessa della sua conchiusa distanza.
Si riproducono, insomma, le condizioni della catarsi aristotelica: che, se non è un principio estetico generalmente valido, ci restituisce comunque la verità storica, la “poetica” a cui gran parte della tragedia classica s’ispira. La rappresentazione è , uguale per tutti. Rispecchiandosi in essa, l’irriducibile individualità del sentimento vissuto, pietà o terrore, si riscopre condivisa da un uditorio universale. Così che resti sancita e continui a rinnovarsi la parola originaria:

“Nessuno, tra gli effimeri, varcherà illeso
Tutto il tempo vitale, senza pagarlo”.

f. b.


* Testo: Introduzione a Eschilo, Le Coefore,  Traduzione di Edoardo Sanguineti, Il Saggiatore, Biblioteca delle Silerchie CIV, 1978, edizione esclusiva per il XXV ciclo dio spettacoli classici dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico.

** Fotografia: locandina ufficiale per la rappresentazione de Le Coefore di Eschilo per la regia di Giuseppe Di Martino al Teatro Antico di Siracusa, 1° giugno 1978.

domenica 29 luglio 2012

Autoritratto di un naufrago Robinson Crusoe nell’isola disabitata


Autoritratto di un naufrago
Robinson Crusoe nell’isola disabitata

Come ho già detto, ero alquanto impaziente di recuperare la mia barca, sebbene fossi molto riluttante a correre nuovi rischi; perciò di tanto in tanto meditavo sulla possibilità di riportarla indietro lungo la costa, mentre in altri momenti stavo benissimo anche senza di essa. Nondimeno covavo in me una strana smania di ritornare in quel punto dell’isola ove, come ho già raccontato, nel corso del mio ultimo giro di esplorazione ero salito in cima a una collina per studiare il profilo della costa e la direzione delle correnti, e di decidere così sul da farsi. Questa sorta di frenesia aumentava di giorno in giorno, e alla fine decisi di far ritorno laggiù per via di terra, seguendo la spiaggia. Così feci. Ma se una persona qualsiasi, in Inghilterra, avesse incontrato un uomo del mio aspetto, o ne sarebbe stata impaurita, o si sarebbe sbellicata dalle risa. Anch’io, del resto, mi fermavo sovente a guardarmi, e non potevo esimermi dal sorridere all’idea di circolare per le strade dello Yorkshire vestito ed equipaggiato in quella maniera. Siate dunque tanto cortesi dal farvi un’idea della mia persona in base alla seguente descrizione.
Portavo un grande copricapo, un berretto di pelo di capra alto e informe, con un lembo che mi pendeva sul dietro, sia per proteggermi dal sole, sia per impedire che la pioggia mi colasse dietro il collo, nulla essendo, in quel clima, tanto nocino quanto l’acqua che filtra sotto gli indumenti.
Avevo una corta casacca di pelle di capra, le cui falde mi scendevano fino a mezza coscia, e un paio di brache dello stesso materiale, aperte al ginocchio. Queste brache erano fatte con la pelle di un vecchio caprone, e il pelo pendeva così lungo da entrambe le parti, che arrivava fino a metà polpaccio come un paio di pantaloni. Non avevo né scarpe né calze, ma ai piedi portavo certe strane cose, non saprei nemmeno io come chiamarle, simili in qualche modo a un paio di uose, che avvolgevo intorno alle gambe e allacciavo di lato come fossero state ghette; ma di una forma barbara, come d’altronde tutti i miei indumenti.
Portavo una lunga cintura di pelle di capra essiccata, che allacciavo usando due piccole cinghie dello stesso cuoio, in sostituzione delle fibbie, e ai lati della quale, in una specie di fodero, pendevano al posto di una spada e di un pugnale, una piccola sega e un’accetta. Avevo poi una seconda cintura, meno larga ma allacciata con lo stesso espediente, che portavo a tracolla; e in fondo a questa, sotto il mio braccio, erano fissate due borse, anch’esse di pelle di capra, una delle quali mi serviva per tenervi la polvere, e l’altra le pallottole. Sulla schiena reggevo un cesto, sulle spalle il fucile, e sopra la testa un orrendo ombrello di pelle di capra, sgraziato e sbilenco, che tra l’altro era l’oggetto più utile tra quanti me ne portavo appresso, fatta eccezione per il fucile. Quanto alla mia faccia, il suo colore non era poi tanto simile a quello di un mulatto, ma invece parrebbe lecito attendersi da un uomo che non se ne curava affatto, e che viveva in un clima tropicale. Da principio mi ero lasciato crescere la barba fino ad averla lunga circa un quarto di iarda; ma poi, dal momento che forbici e rasoio non mi mancavano, me l’ero tagliata abbastanza corta. Solo sul labbro superiore mi ero lasciato crescere un paio di mustacchi alla maomettana, come ne avevo visti portare da certi Turchi che avevo conosciuto a Salé: giacché i Mori non li portavano a quel modo, mentre i Turchi sì. Non oso dire che questi miei baffi, o mustacchi, fossero tanto lunghi da potervi appendere il cappello, nondimeno erano di foggia e lunghezza così spropositate, che in Inghilterra li avrebbero giudicati né più né meno spaventosi.
Ma tutto questo sia detto per inciso. Infatti il pubblico disposto a osservarmi era così scarso, che non era il caso di attribuire la minima importanza al mio aspetto fisico.  Così abbigliato, intrapresi dunque il mio viaggio e rimasi fuori per cinque o sei giorni.


* Testo, tratto da Robinson Crusoe di Daniel Defoe, Garzanti i grandi libri, novembre 1999, XVIII edizione, pp. 159-161. Traduzione a cura di Riccardo Mainardi.

**  Fotografia, riproduzione di Robinson Crusoe scaricata free copy da internet.



sabato 28 luglio 2012

L’angelo del silenzio Il serial killer secondo James Ellroy


L’angelo del silenzio
Il serial killer secondo James Ellroy

L’ispettore dell’Fbi Thomas Dusenberry definisce così il serial killer: “Il perpetratore di una serie di omicidi singoli o multipli. Il nostro prototipo di serial killer è un maschio bianco di intelligenza superiore alla media, dai ventiquattro ai quarant’anni di età. I due elementi sopracitati sono una costante, al contrario di ogni altra caratteristica, ragione per cui questo genere di assassino è molto difficile da catturare.
“Per prima cosa, spesso i serial killer modificano il modus operandi a seconda della vittima. Possono uccidere una persona per gratificazione sessuale e un’altra per denaro. Possono strangolare una vittima e sparare a un’altra. Si sono dati i casi di serial killer che hanno stuprato una mezza dozzina di vittime femminili ignorandone sessualmente un’altra mezza dozzina.
“Questi uomini tendono inoltre a viaggiare molto e a sbarazzarsi delle vittime in modo che i corpi non vengano trovati. A parte la complessa natura della psiche di un serial killer e degli schemi del suo modus operandi, è proprio questo stile di vita vagabondo ad aumentare la loro sfuggevolezza: giocano sull’inadeguatezza del sistema di comunicazione interno alle forze di polizia della nazione.
“I cinquanta stati del nostro paese sono serviti da migliaia di agenzie di polizia. Da anni ormai il livello delle comunicazioni tra agenzie all’interno di uno stesso stato è adeguato alle esigenze di identificazione, ma lo scambio di informazioni tra stato e stato è una barzelletta, e rappresenta l’ostacolo numero uno nelle indagini su omicidi e scomparse legati da un probabile filo conduttore.”
E come si intende risolvere il problema?
“Nel momento in cui un assassino oltrepassa la linea di confine tra due stati dopo avere commesso un omicidio, diventa un criminale federale. Quello che stiamo facendo è controllare e mettere in relazione i casi irrisolti di omicidio e scomparsa di tutti i cinquanta stati, spingendoci indietro fino a dieci anni or sono. Se riusciamo a stabilire dei collegamenti tra stato e stato, richiederemo i dossier completi alle agenzie coinvolte e ci metteremo in contatto telefonico con gli investigatori dei singoli casi. Analizzeremo i casi a seconda del modus operandi, delle prove materiali, delle probabilità indiziarie e di un’altra mezza dozzina di voci indicate dai rapporti degli psicologi che collaborano con la squadra speciale. È probabile che da tutte queste informazioni emergeranno degli schemi, sui quali noi costruiremo alcune ipotesi e daremo il via alle indagini coinvolgendo agenti esperti della divisione criminale.”
La squadra speciale ha preso possesso di un’intera ala dell’accademia dell’Fbi di Quantico. Gli agenti convivo con risme di fogli bianchi, scrivanie e computer, nonché con un gigantesco cervello elettronico collegato con le forze di polizia di tutti i cinquanta stati. Chiamato “Serial Sally” da tutti gli agenti della squadra speciale, questo cervellone fungerà da punto di partenza di ogni possibile indagine. Già programmato con i dati relativi a ventisette casi risolti, Serial Sally sarà assistito da una mezza dozzina di psicologi di primordine dotati di grossa esperienza sul campo, da tre patologi specializzati in casi di omicidio e da quattro agenti della divisione criminale, uomini con alle spalle quindici e più anni di militanza nell’Fbi. Saranno loro i cosiddetti “Fantini della carta”, costantemente alla ricerca di legami, collegamenti e indizi.
“Sono molto ansioso di iniziare” ci ha dichiarato l’ispettore Dusenberry, agente responsabile della squadra speciale. “Ho già letto migliaia di pagine sull’argomento. Sono cose deprimenti, e le cifre sono sbalorditive. Un uomo nell’Alabama ha ucciso ventinove donne in due anni; a Chicago, Gacy ne ha uccise trentatré. C’è il nostro amici Ted Bundy, naturalmente, e poi ci sono le statistiche sui bambini scomparsi o presunti assassinati. E queste sono ancora più incredibili. La polizia di Anchorage, in Alaska, ha un sospetto che a quanto pare sarebbe colpevole di sessantanove omicidi, perpetrati nel giro di diciotto mesi. Il dolore dietro queste cifre è impressionante, e mi spinge a dire che il problema dei serial killer è la priorità numero uno nella lotta contro il crimine in America.”
L’ispettore Dusenberry, dal 1961 impegnato nell’Fbi, si è laureato alla facoltà di legge di Notre Dame e ha alle spalle sedici anni di esperienza con la divisione criminale, per la maggior parte passati alla supervisione delle indagini sulle rapine in banca. È sposato, ha un figlio e una figlia all’università e ringrazia il cielo che l’incarico di responsabile della squadra speciale gli sia stato affidato quando ormai i suoi due figli sono cresciuti e sua moglie è tornata a iscriversi all’università per una laurea in storia dell’arte. “Sarà un lavoro lungo e duro” ci ha dichiarato. “Il fatto che i miei ragazzi e mia moglie siano a scuola e la natura sedentaria del mio compito mi renderanno più facile applicarmi. Se fossi costretto a passare lo stesso numero di ore sulla strada e occuparmi di rapine, mi tormenterebbe saperli preoccupati per me.”

* Testo, tratto da James Ellroy, L'angelo del silenzio, Mondadori Oscar Bestsellers, gennaio 2000, I edizione, pp. 244-247.Traduzione a cura di Stefano Bortolussi.

**  Fotografia, riproduzione free copy della copertina di James Ellroy, L'angelo del silenzio, Mondadori Oscar Bestsellers, gennaio 2000, I edizione.