lunedì 28 maggio 2012

Jack London, Il vagabondo delle stelle


Jack London
Il vagabondo delle stelle

Ho sempre avuto, nel corso della mia intera esistenza, la netta sensazione di aver vissuto in altri tempi e in altri luoghi, di avere addirittura ospitato in me altre persone. Ma, credimi, lo stesso vale anche per te che leggerai queste righe: torna con la mente alla tua fanciullezza, e rivivrai come tua l’esperienza di cui parlo. Eri, allora, qualcosa di instabile, di non ancora cristallizzato, di malleabile, eri un’anima in mutamento, una coscienza e un’identità che si andavano formando, proprio così, e che nel formarsi apprendevano anche a dimenticare.
Hai dimenticato molto, caro lettore, eppure, nel leggere queste pagine ti si pareranno davanti, confuse e indistinte, visioni di altri tempi, di altri luoghi su cui si soffermò il tuo sguardo di bambino e che oggi ti sembrano sogni. E tuttavia, ammesso che fossero sogni, da dove traevano la loro sostanza? I sogni sono un fantastico impasto di cose a noi note, è dalle nostre esperienze che traggono il loro contenuto. Quand’eri piccolo, hai sognato di cadere da grandi altezze, di volare come fanno le creature alate, di essere atterrito da ragni striscianti o da esseri viscidi, forniti di zampe innumerevoli. Nei tuoi incubi hai udito voci e scorto volti estranei e familiari al tempo stesso, hai sognato albe e tramonti che ora, se ci ripensi, ti appaiono ignoti.
Ebbene, queste visioni infantili erano sogni di altri mondi, di altre vite, di cose che nella tua vita reale, in questo mondo reale, non avevi mai visto. Da dove venivano, allora? Da altre vite, da altri mondi? Forse, quando sarai giunto in fondo al mio racconto, troverai risposta a queste domande, che certamente ti sarai poste prima ancora di prendere in mano questo libro.

Di ciò Wordsworth, che non era né un visionario né un profeta, ma un uomo normale, come lo siamo tutti, aveva piena coscienza. Sapeva quello che sai tu e che sa ognuno, ma riuscì ad esprimerlo in maniera perfetta nel brano che si apre con le parole “Né nudità completa, né in totale oblio”. (citato da “Intimations of Immortality from Recollections of Early Childhood”, n.d.t.).
È vero, si è appena nati al mondo, e già le ombre della prigione si chiudono attorno a noi, e troppo presto apprendiamo a dimenticare; eppure, quando eravamo appena nati, serbavamo sicura memoria di altre epoche e di altri luoghi. Ma è altrettanto vero che quando eravamo in fasce, o ancora ci trascinavamo a quattro zampe, abbiamo sognato di volare, siamo stati tormentati, torturati e atterriti nei nostri incubi da forme vaghe e mostruose. Eravamo infanti, privi di qualsiasi esperienza, eppure conoscevamo la paura, ne avevamo memoria, e che cos’è la memoria, se non esperienza?
Quanto a me, nella tenera età in cui balbettavo, incapace di esprimere a parole i bisogni più elementari, come mangiare o dormire, già sapevo di essere stato un vagabondo delle stelle. È così. Io, che non avevo mai pronunciato la parola re, ricordavo di essere stato un tempo figlio di re. Non solo questo: ricordavo pure che una volta ero stato schiavo e figlio di schiavi e che avevo portato un collare di ferro intorno al collo.
E non è tutto. Quando avevo tre, quattro, cinque anni, non ero ancora un io, ma un essere in trasformazione, un flusso di spirito che non si era ancora solidificato nello stampo del mio corpo, in un tempo e uno spazio definiti. In quel tempo in me si dibatteva, rendendo turbolento quel flusso, tutto ciò che ero stato in diecimila vite precedenti, che ora cercava di amalgamarsi per fare di me l’uomo che sono oggi.
Sembrano fole, non è così? Ma ricorda, caro lettore – che spero di avere compagno in un lungo viaggio attraverso il tempo e lo spazio – ricorda, ti prego, lettore, che su queste cose ho meditato a fondo, e che per molti anni, nel sudore e nel sangue di notti buie, sono stato da solo con i miei molti io per contemplare e compulsare i miei molti io, attraversando gli inferni di tutte le mie esistenze. Ne ho tratto conoscenze che condividerai con me, se vorrai dedicare un po’ del tuo tempo a leggere, in sereno ozio, queste pagine.
Stavo dicendo che all’età di tre, quattro, cinque anni, non ero ancora me stesso, ma qualcosa in divenire, che prendeva forma nello stampo del mio corpo nello stesso tempo in cui il passato, possente e indistruttibile, lottava nell’indistinto impasto del mio essere, ancora incerto su quale forma assumere. Non era la mia voce che gridava di notte, atterrita da cose conosciute e che tuttavia non conoscevo e non potevo conoscere. E lo stesso può dirsi per le mie collere, per i miei affetti, per le mie risa infantili. Nelle mie grida si levavano altre voci, voci di uomini e donne di epoche trascorse, le voci di tutte le schiere indistinte dei miei progenitori. Nel ruggito della mia collera andava a mescolarsi il ruggito di bestie più antiche delle montagne, e la rossa collera che trovava sfogo nella mia isteria infantile vibrava con quella, inarticolata e priva di senso, di belve vissute prima di Adamo, prima ancora delle ere geologiche.
Ho svelato il mio segreto: la collera rossa! Ecco che cosa mi ha perduto in questa attuale esistenza, è a causa sua che nel breve arco di qualche settimana mi tireranno fuori dalla cella per issarmi su una pedana dal pavimento instabile, graziosamente ornata di una corda ben tesa, donde penzolerò appeso per la gola finché morte non sopravvenga. La rossa collera mi ha perduto in tutte le mie esistenze; la rossa collera è il disastroso retaggio di un tempo in cui il mondo altro non era che fango informe.

*  Jack London, Il vagabondo delle stelle, Gli Adelphi n. 264, traduzione a cura di Stefano Manferlotti, 2009, V edizione.
** Fotografia: copertina del libro Il vagabondo delle stelle, Gli Adelphi n. 264, scaricata free copy da internet.

giovedì 24 maggio 2012

Mario Girolamo Gullace CON LE BRACCIA

Mario Girolamo Gullace
CON LE BRACCIA

ogni giorno ci portavi la preda
sanguinante chiodi e impalcature.
la fatica la segnavi rossa
in calendario, il sabato a metà,
a volte tutto, e ti restava solo
un giorno dove non versavi
la tua età a sfinimento. era un
cine, quattro passi fino al Po,
a rivoltare il fazzoletto di una
terra, per maturare figli agresti.
il sole sulla fronte, il sale sulla
fronte, i solchi sulla fronte del
bracciante, con la fonte e il delta.
ogni giorno quella caccia, che la
sera ti stendeva dolorante, senza
forza di parlare, a risparmiare le
mascelle per la cena scarna. ogni
giorno quel sudario, non da fiera
tigre o da belva linda e vellutata,
ma da fronte fiera di mani burbere,
e del peso sulle spalle mille volte
il tuo, una casa di tre piani trascinata
fino all'architrave della nostra.
è l'uguale storia di altri milioni
di Sisifo, ma io facevo il tifo per te.
* Testo: Mario Girolamo Gullace
** Copertina: fotografia suggerita da Mario Girolamo Gullace

domenica 20 maggio 2012

Emily Dickinson, Poesie


Emily Dickinson
Poesie

(31)
Fa’ ch’io per te sia l’estate
Quando saran fuggiti i giorni estivi!
La tua musica quando il fanello
Tacerà e il pettirosso!

A fiorire per te saprò sfuggire alla tomba
Riseminando il mio splendore!
E tu coglimi, anemone,
Tuo fiore per l’eterno! (c. 1858)

(135)
L’acqua è insegnata dalla sete.
La terra, dagli oceani traversati.
La gioia, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglia.
L’amore, da un’impronta di dolore.
Gli uccelli, dalla neve. (c. 1859)

(189)
È poca cosa il pianto,
Sono brevi i sospiri:
Pure, per fatti di questa misura
Uomini e donne muoiono! (c. 1860)

(241)
Mi piace un volto d’agonia
Perché so ch’è sincero.
L’uomo non può contraffare lo spasimo
Né simulare il rantolo.

Gli occhi si fanno vitrei ed è la morte.
Impossibile fingere
Le perle di sudore sulla fronte
Infilate dalla sommessa angoscia. (c. 1861)

(367)
Sempre, come una musica,
Insiste la memoria.
Tamburi dagli spalti immateriali,
Flauti del Paradiso!

Echi di schiere battezzate,
Cadenze troppo grandi,
Che soltanto si addicono agli eletti
Alla destra di Dio. (c. 1862)

(516)
La bellezza non ha causa:
Esiste.
Inseguila e sparisce.
Non inseguirla e rimane.

Sai afferrare le crespe
Del prato, quando il vento
Vi avvolge le sue dita?
Iddio provvederà
Perché non ti riesca. (c. 1862)

(618)
Rimane oziosa l’anima
Che ha ricevuto un colpo micidiale:
Lo spazio della vita le si tende davanti
Senza nulla da fare.

E vi chiede lavoro –
Fosse soltanto di appuntare spilli
O di fare il più misero rammendo da bambini –
Per aiutare le sue mani vuote. (c. 1862)

(713)
Se meritassi in me stessa la fama,
Ogni altro applauso sarebbe
Superfluo, come incenso
Senza necessità.

Se non la meritassi, anche se fosse
Altissimo per gli altri il mio nome,
Sarebbe un pregio spregevole,
Un futile diadema. (c. 1863)

(726)
Abbiamo prima sete – è l’atto di natura –
E dopo, quando stiamo per morire,
Chiediamo supplichevoli un po’ d’acqua
A dita che ci passano vicine.

Ed è figura di un bisogno più alto
La cui risposta adeguata
Sono le grandi acque occidentali
Chiamate Eternità. (c. 1863)

(802)
Il tempo sembra così vasto
Che, non vi fosse l’eterno,
Temo che questa sfera
Illuderebbe il mio finito essere,
Escludendo Colui che i rudimenti
Dello spazio ci dà per prepararci
All’ampiezza stupenda
Dei suoi diametri. (c. 1863)

(875)
Da un’asse all’altro avanzavo
Così lenta, prudente.
Sentivo le stelle sul capo,
E sotto i piedi il mare.

Questo solo sapevo: che un altro
Passo sarebbe stato irrevocabile.
Ed avevo quell’andatura incerta
Che chiamano esperienza. (c. 1864)

(897)
Fortunato il sepolcro,
Che conquista ogni preda,
Sicuro del successo, anche se in ultimo:
Unico pretendente non deluso. (c. 1864)

(962)
Morirono a metà dell’estate,
Un tempo pieno e perfetto:
Era l’estate chiusa su se stessa
Nel suo colmo splendore.

Quando l’ultime spighe maturavano
Per essere falciate,
Essi, attraverso la nebbia del sepolcro,
Approdarono nella perfezione. (c. 1864)

(1008)
Come stanno silenti le campane
Nelle torri, finché, gonfie di cielo,
Balzino con i piedi argentei
In melodia frenetica! (c. 1865)

(1042)
La primavera ritorna sul mondo.
Guardo l’aprile, che non ha colori
Per me, finché tu venga,
Come prima del giungere dell’ape
Restano inerti i fiori,
Destati all’esistenza da un ronzio. (1865)

(1069)
Il Paradiso dipende da noi.
Chiunque voglia
Vive nell’Eden, nonostante Adamo
E la cacciata. (c. 1866)

(1404)
Marzo: mese d’attesa.
Le cose che ignoriamo
E le persone del nostro presagio
Sono in cammino.
Ci sforziamo di fingere fermezza
Come si deve, ma la gioia solenne
Ci tradisce, così come tradisce
Il giovanotto appena fidanzato. (c. 1877)

(1441)
Questi giorni febbrili condurli alla foresta
Dove le fresche acque strisciano intorno al muschio
E l’ombra sola devasta il silenzio:
Pare talvolta che questo sia tutto. (c. 1878)


* Testo: Emily Dickinson, Poesie, Fabbri editore, I grandi classici della poesia, 1997, traduzione Margherita Guidacci.
** Fotografia: copertina dell’edizione fabbri free copy da internet.



venerdì 18 maggio 2012

Jacques Prévert Immenso e rosso (Il Prévert di Prévert)


Jacques Prévert
Immenso e rosso
(Il Prévert di Prévert)


Immenso e rosso
(da Parole)

Immenso e rosso
Sopra il Gran Palais
Il sole d’inverno appare
E scompare
Come lui il mio cuore sparirà
E tutto il mio sangue se ne andrà
Se ne andrà in cerca di te
Mio amore
Mia beltà
E ti ritroverà
Là dove sei tu.





La bella vita
(da Spettacolo)

Chiusi dentro i serragli
Ci sono gli animali
Che passano la vita
Dietro un'inferriata
E noi siamo i fratelli
Di quel povero bestiame

Non siamo da compiangere
Siamo da biasimare
Ci siam lasciati prendere
Cosa avevamo fatto?
Figli dei corridoi
Delle correnti d'aria
Il mondo ci ha sbattuto fuori
La vita ci ha buttati all'aria

La miseria è nostra madre
E nostro padre è il bar
Venuti su in cassetti
Che ci han fatto da letti
La gente ci ha piantati
Nudi sul selciato

Fin dalla nostra infanzia
Stivati nelle carceri
Dormiamo tra le sbarre
E lì giriamo in tondo
Senza sentir canzoni
Senza vedere il mondo

Non siamo da compiangere
Siamo da biasimare
Ci siam lasciati prendere
Cosa avevamo fatto?
Figli dei corridoi
Delle correnti d'aria
Il mondo ci ha buttato fuori
La vita ci ha buttati all'aria.
                                           

Confidenze d’un condannato
(da La pioggia e il bel tempo)

Perché m’hanno tagliato la testa?
Posso anche dirlo ora, col tempo tutto diventa meno grave.
Una cosa semplice, veramente.
Ero andato a passare la serata da amici, ma c'era molta gente e m’annoiavo. In quel periodo ero un po' triste e avevo di frequente mal di testa.
Quell'atmosfera di festa mi irritava e mi stancava. M’accomiatai. La padrona di casa m’avvertì che la luce delle scale non funzionava e che per di più non funzionava nemmeno l'ascensore.
- Posso farle un po' di luce, se vuole, attenda un attimo.
- Luce, lei vuole scherzare, le dissi, sono come un gatto, io, di notte vedo chiaro.
- Avete sentito, disse rivolgendosi agli amici, è come un gatto, splendido, vede chiaro di notte.
Perché mai avevo parlato così, un modo di dire come un altro, una frase gentile che voleva anche essere arguta, disinvolta.
Incominciai a scendere faticosamente i primi gradini delle scale e le sbarrette d’ottone del tappeto facevano uno strano rumore sotto i miei passi che scivolavano.
Mi trovavo in un buio così fitto che dapprima ebbi voglia di risalire e di chiamar gente.
Dapprima mi frugai nelle tasche, ma inutilmente, niente fiammiferi.
Mi sedetti e mi misi a pensare, non so più su che cosa, forse aspettavo che qualcuno mi venisse in aiuto, senza beninteso sapere o indovinare che avevo bisogno d'aiuto.
Stavo rialzandomi a fatica quando, non trovando il corrimano, cozzai violentemente contro il muro e incominciai a sanguinare dal naso.
Mentre mi rovistavo le tasche in cerca d’un fazzoletto, mi capitò finalmente in mano una scatola di fiammiferi con dentro, disgraziatamente, un fiammifero solo.
Lo accesi con infinite precauzioni e, cercando di nuovo il corrimano, scorsi dapprima in uno specchio, sul pianerottolo del piano dove m’ero fermato, il mio viso tutto coperto di sangue.
E poi di nuovo l’oscurità.
Io ero lì, sempre più disarmato.
All'improvviso, allungando a caso la mano a tentoni, toccai un serpente che si mise a scivolarmi fra le dita.
Bella serata. 
Il serpente era semplicemente il corrimano che per fortuna avevo ritrovato, mi strisciava piano piano sotto la mano che aveva appena finito d’asciugare il viso così stupidamente insanguinato.
Allora mi misi a ridere: ero salvo.
Mentre scendevo allegramente ma prudentemente fui investito di colpo da qualcuno o da qualcosa che, fosse questo o fosse quella, scendeva a sua volta insieme con una piccola fiamma, certamente quella d’un accendino.
Rialzandomi ancora una volta, camminai di nuovo nel buio, con le due mani protese.
Queste due mani incontrarono il muro ed il muro cedette...
Non era il muro ma una porta socchiusa.
All'improvviso musica e luce dai piani superiori.
Senza dubbio qualche invitato che a sua volta scendeva accompagnato dalla padrona di casa con un candeliere in mano.
Davvero, non sapevo dove mettermi e non per modo di dire; così, approfittando della porta per nascondermi, andai avanti, quando a un tratto, nella luce che diventava più viva, scoprii un corpo disteso ai miei piedi.
Era il corpo di Antonietta.
Stava lì per terra, sola, con gli occhi aperti così pure la gola.
Antonietta con la quale ero vissuto tanto a lungo e che il mese prima m’aveva abbandonato.
Antonietta che avevo supplicato, che avevo persino minacciato.
Non riuscii a trattenere un grido. 
Di terrore, quel grido, e anche di stupore.
La padrona di casa e gl’invitati si precipitano, qualche porta si schiuse, presto altre luci s’unirono alla loro, rette da altri inquilini molto succintamente vestiti, terrorizzati e lividi.
Era già passato molto tempo da quando m’ero accomiatato e io stavo lì, muto e coperto di sangue, stravolto come nelle storie meno belle.
Accanto al corpo della mia amica perduta e - in quale stato - ritrovata, sul pavimento una lama brillava come una fetta di luna in un cielo stellato.
Un lume vacillava in ogni mano tremante.
Vedete già il processo: il ricorso respinto, l’ultimo bicchiere, il crocefisso da baciare e di nuovo come una luna il bagliore della lama.
Che volete, mettetevi al mio posto. Cosa potevo dire, cosa potevo raccontare? Avevo passato un quarto d'ora troppo brutto fra le tenebre sinistre di quella scala buia, e avevo avuto la folle imprudenza d’affermare: io vedo chiaro di notte, sono come i gatti, io.
Chi mi avrebbe creduto allora e senza ridermi in faccia?
Sì, sono sicuro, m’avrebbero riso in faccia per molti, molti anni, troppi per i miei gusti.
Ho preferito star zitto piuttosto che essere deriso.

* Testo: poesie tratte dall'antologico della Feltrinelli, U.E. n. 553, 1970, con la traduzione di Ivos Margoni e Franca Madonia.
** Fotografia:  copertina della edizione Feltrinelli freee copy da internet.