domenica 18 dicembre 2011

Robert Louis Stevenson Elogio dell'ozio

Robert Louis Stevenson
Elogio dell'ozio


 
Boswell: ci si annoia a starcene qui in ozio.
Johnson: ciò accade, signore, perché gli altri
stanno lavorando, ci manca la compagnia.
Se tutti stessimo in ozio, nessuno si annoierebbe:
ci divertiremmo tutti a vicenda.



Di questi tempi ognuno di noi è obbligato, sotto pena di una condanna in contumacia per lesa rispettabilità, a dedicarsi a qualche professione remunerativa; e a dedicarcisi con un atteggiamento quasi simile all'entusiasmo. Una voce del partito opposto, di coloro che si accontentano del necessario e preferiscono guardarsi in giro e spassarsela, sa un po' di provocazione e di guasconata. Eppure non dovrebbe essere così. Il cosiddetto ozio - che non è affatto il non fare nulla, ma piuttosto il fare una quantità di cose non riconosciute dai dogmatici regolamenti della classe dominante - ha lo stesso diritto dell'operosità di sostenere la propria posizione.
E' assodato che l'esistenza di gente che si rifiuta di partecipare alla grande corsa a handicap per qualche monetina, rappresenta un insulto e un disinganno per chi invece vi partecipa. Un bravo ragazzo, come se ne vedono tanti, prende la sua decisione, opta per le monetine e, come dicono enfaticamente in America, ci si butta. Non è difficile comprendere il suo risentimento se, mentre procede faticosamente per la sua strada, scorge delle persone sdraiate al fresco sui prati intorno, con un fazzoletto in testa ed un bicchiere a portata di mano. Alessandro fu toccato in un punto molto sensibile dall'indifferenza di Diogene. Dov'era la gloria di aver conquistato Roma per quei barbari tumultuanti che si precipitarono nel Senato, e vi trovarono i Padri seduti impassibili e incuranti del loro successo? E' doloroso aver faticato tanto, aver scalato le cime più impervie, e al termine dell'impresa scoprire che l'umanità non prova alcun interesse per le tue gesta. Ecco perché i fisici condannano tutto ciò che non riguarda la fisica, i finanzieri tollerano a stento chi sa poco di titoli e bilanci, i letterati disprezzano gli illetterati, e tutti coloro che hanno una professione si alleano nello svilire chi non ne ha una. Questa è una delle difficoltà dell'argomento, ma non la peggiore. Non puoi essere messo in galera per aver parlato contro l'operosità, ma potresti essere messo in manicomio, per aver parlato come un pazzo. La maggior difficoltà, nella maggioranza delle dissertazioni, è nello svolgimento; perciò ricordate che questa è un’apologia. Certamente molto si può dire, e con ragione, in favore della solerzia. Soltanto, c'è anche qualche cosa da dire contro di essa; e questo è proprio ciò che, in questa occasione, io voglio dire. Sostenere un argomento non significa necessariamente essere sordo a tutti gli altri. Che un uomo abbia scritto un libro di viaggi in Montenegro non significa che non debba mai essere stato a Richmond.
E' indubbio che la gente dovrebbe starsene molto in ozio in gioventù. Sebbene capiti qualche volta che un lord Macaulay concluda la scuola con tutti gli onori pur restando intelligente, quasi tutti i ragazzi pagano care le proprie medaglie, tanto da rimaner per sempre senza risorse, e iniziano la vita da una situazione fallimentare. E ciò vale per tutto il tempo in cui un giovane educa se stesso o tollera che altri lo educhino.
Doveva essere un pazzo quell'anziano gentiluomo che a Oxford si rivolse a Johnson con queste parole: "Ragazzo, usa con diligenza i tuoi libri e assicurati una quantità di conoscenze; adesso, perché quando gli anni si accumuleranno su di te troverai che immergerti nei libri sarà divenuto un compito davvero molesto." Quel vecchio sembra non essersi accorto che molte altre cose oltre al leggere, diventano moleste - alcune anzi impossibili - quando un uomo deve usare occhiali e bastone.
I libri sono una bella cosa a modo loro, ma sono un ben misero surrogato della vita. E' un peccato star seduti, come la lady di Shalott, a scrutare uno specchio, e voltare le spalle al tumulto affascinante della realtà. E se un uomo legge molto, ricorda il vecchio proverbio, ha poco tempo per pensare.
Provate a ricordare i tempi della vostra scuola, sono sicuro che non rimpiangerete le intense, vivide, istruttive ore in cui avete marinato le lezioni. Piuttosto cancellereste volentieri certi opachi momenti, in classe, vacillanti tra il sonno e la veglia. Per quanto mi riguarda ai miei tempi ho assistito ad alcune buone lezioni. Ricordo ancora che il roteare della trottola è un caso di stabilità cinetica, che l'enfiteusi non è una malattia, né lo stillicidio un crimine. Eppure anche se non rinuncerei volentieri a questi brandelli di scienza, non mi sembrano importanti quanto certi rimasugli della mia vita vagabonda, quando marinavo la scuola.
Non è ora il momento di dilungarsi su quell'efficacissimo luogo di educazione, la strada, che fu la scuola favorita dei Dickens e dei Balzac, e che produce ogni anno molti ingloriosi maestri di Scienza della Vita. Basti dire che se un ragazzo non è in grado di imparare qualcosa dalla strada, non è in grado di imparare nulla. D'altronde chi marina la scuola non sta sempre in strada, se vuole se ne può andare in campagna, attraverso i sobborghi rigogliosi di giardini. Può capitare in un boschetto di lillà accanto a un ruscello, e fumarsi la pipa ascoltando la canzone dell'acqua sulle pietre. Un uccello canterà nel folto. Ed egli potrà abbandonarsi a una corrente di pensieri benevoli e vedere le cose in una nuova prospettiva. Se questa non è educazione, che cosa lo è?
Possiamo immaginare l'Esperto-di-Cose-del-Mondo che si avvicina a un ragazzo di questo genere, e la conversazione che seguirebbe:
"Ebbene, ragazzo, che cosa fai qui?"
"In verità, signore, me la godo."
"Non dovresti essere in classe, a studiare i tuoi libri, per apprendere la Conoscenza?"
"Sì, ma col vostro permesso, anche così io sto imparando."
"Imparando, dice! E che cosa per favore? Forse matematica?"
"No, certo."
"La metafisica, per caso?"
"Neppure."
"Una lingua?"
"No, non è una lingua."
"Un mestiere?"
"No, nemmeno un mestiere."
"E che cosa, allora?"
"In verità, signore, potrà giungere presto per me il tempo di fare un Pellegrinaggio, perciò desidero osservare ciò che fanno le persone in questo caso e dove si trovano i peggiori Pantani e i Roveti, e quale sia il Bastone più utile. Inoltre me ne sto qui, accanto a questo ruscello, ad assimilare profondamente una lezione che il mio maestro mi insegna a chiamare Pace o Appagamento."
Al che l'Esperto-di-Cose-del-Mondo si infuria e agitando il bastone con aria minacciosa prorompe: "Imparare, dice! Questi furfanti dovrebbero essere frustati dal boia!"
E così se ne andrebbe per la sua strada, sgualcendo il colletto con un crepitio d'amido, come una tacchina che fa la ruota.
Ora, questa dell'Esperto, è l'opinione comune. Un fatto non si chiama fatto ma pettegolezzo, se non rientra in una delle categorie scolastiche. Una ricerca deve essere indirizzata a uno scopo riconosciuto e con un nome definito; altrimenti non stai svolgendo una ricerca ma soltanto perdendo tempo, e l'asilo dei poveri è fin troppo per te.
Si pensa che tutta la scienza sia in fondo a un pozzo o in cima a un telescopio. Sainte-Beuve, invecchiando, giunse a considerare tutta l'esperienza come un unico grande libro, nel quale studiare per qualche anno, prima di andarcene di qui. Gli sembrava la stessa cosa leggere il capitolo XX, che è il calcolo differenziale, o il capitolo XXXIX, che è ascoltare la banda nei giardini pubblici.
In realtà una persona intelligente, che guarda con i suoi occhi e ascolta con le sue orecchie, con il sorriso sempre sul volto, imparerà molte più verità che tanti altri da una vita di eroiche veglie notturne.
Certamente esiste una conoscenza, gelida e arida, sulle vette del sapere convenzionale e laborioso; ma è intorno a te, basta guardare, che scoprirai i caldi e palpitanti fatti della vita. Mentre altri si riempiono la memoria di una quantità di parole inutili, che dimenticheranno prima di una settimana, l'ozioso può imparare qualche cosa di veramente utile: suonare il violino, riconoscere un buon sigaro, parlare con garbo e naturalezza a tutti i tipi di uomini.
Molti di coloro che hanno "studiato i libri con diligenza" e sanno tutto di una branca del sapere convenzionale, se ne escono dagli studi con un contegno antiquato e gufesco; e si dimostrano aridi, rigidi e dispeptici in tutte le migliori e più brillanti attività della vita. Molti accumulano una gran fortuna, pur rimanendo rozzi e pateticamente insulsi fino all'ultimo. E intanto ecco l'ozioso che iniziò la vita con loro: ben altra persona, se permettete. Egli ha avuto tempo di prendersi cura della sua salute e del suo spirito; è stato molto all'aria aperta, che è la cosa più salutare per il corpo e per l'anima. E anche se non ha mai letto il grande Libro nei suoi recessi più reconditi, pure vi si è immerso e lo ha scorso tutto con risultati eccellenti. Non potrebbe lo studioso offrire qualche radice ebraica, e il finanziere qualche mezzacorona, in cambio di un po' della conoscenza della vita e dell'arte di vivere che ha un ozioso?
Sì, l'ozioso ha un'altra e più importante qualità: la saggezza. Chi ha molto osservato il puerile piacere della gente nel coltivare le proprie manie, guarderà alle proprie con indulgenza e ironia. Non lo si sentirà mai tra i dogmatici. Avrà una grande e spassionata tolleranza per gente e opinioni di ogni genere. Non scoprirà verità straordinarie, ma neppure accetterà cocenti falsità.
Il suo cammino lo porta verso una strada fuori mano, poco frequentata, ma pianeggiante e gradevole: il viale dei Luoghi Comuni, che porta al Belvedere del Buon Senso.
Di là domina un panorama, se non molto nobile, almeno piacevole. E mentre gli altri contemplano l'Oriente, l'Occidente, il Diavolo e l'Aurora, egli si accontenta di una luce mattutina che illumina l'intero mondo sublunare, mentre un esercito di ombre si disperde rapido in tutte le direzioni, verso il grande meriggio dell'Eternità.
Ombre e generazioni, striduli eruditi e battaglie fragorose finiscono nell'estremo silenzio e nel vuoto. Ma sotto a tutto questo un uomo può vedere dalle finestre del Belvedere, un ampio paesaggio verde e tranquillo; molte stanze illuminate dal focolare; buona gente che ride, beve e fa all'amore come faceva prima del Diluvio o della Rivoluzione francese; e il vecchio pastore che racconta la sua storia sotto il biancospino.
L'attività frenetica, a scuola o in università, in chiesa o al mercato, è sintomo di scarsa voglia di vivere. La capacità di stare in ozio implica una disponibilità e un desiderio universale, e un forte senso d'identità personale. C'è in giro molta gente mediocre, semi-viva, che a malapena è consapevole di vivere, se non nell'esercizio di qualche occupazione convenzionale. Portate queste persone in campagna o a bordo di una nave, vedrete come rimpiangeranno la loro scrivania o il loro studio. Non hanno curiosità; non sanno abbandonarsi alle sollecitazioni del Caso; non provano piacere nell'esercizio delle loro facoltà se non hanno uno scopo. E se la necessità non girovagasse intorno a loro con un bastone, starebbero proprio immobili.
E' inutile parlare a queste persone: non possono stare in ozio, la loro natura non è abbastanza generosa; e passano in una sorta di coma le ore che non impiegano a macinare oro furiosamente. Quando non devono andare in ufficio, quando non hanno fame né voglia di bere, il grande palpitante mondo per loro è solo un gran vuoto. Se devono aspettare il treno per un'ora, cadono in una trance soporosa, a occhi aperti. A guardarli pensereste che non ci sia nulla da vedere e nessuno a cui parlare; li credereste paralitici o dementi. Eppure con ogni probabilità sono grandi lavoratori a modo loro, e hanno buon occhio nello scoprire un errore in un contratto o una nuova tendenza nel mercato. Sono stati a scuola e nelle università, ma per tutto il tempo avevano gli occhi fissi alle medaglie. Sono stati in giro per il mondo e hanno conosciuto gente interessante, ma per tutto il tempo avevano in mente i loro affari.
Come se l'anima dell'uomo non fosse già fin troppo piccola hanno rimpicciolito e immiserito la loro con una vita tutta di lavoro e senza svago. Finché eccoli a quarant'anni con un’attenzione spenta, la mente vuota di argomenti di divertimento, senza un pensiero da attaccare a un altro, quando aspettano il treno.
Un individuo di tal fatta, prima di essere imbracato nei pantaloni lunghi avrebbe potuto giocare ad arrampicarsi, a vent'anni avrebbe dovuto sgranare gli occhi dietro alle ragazze. Ma ora la pipa è spenta, la tabacchiera vuota, e il mio gentiluomo se ne sta seduto impalato, con occhi lamentevoli. Questo non mi sembra davvero il Successo nella Vita.
Ma non è soltanto tale individuo a soffrire delle sue abitudini frenetiche; ne soffrono anche moglie, figli, amici e parenti, fino alla gente che gli siede accanto in treno o in omnibus. La devozione perpetua a ciò che un uomo chiama i suoi affari, può essere sostenuta soltanto dal perpetuo oblio di molte altre cose. E non è affatto certo che gli affari di un uomo siano la cosa più importante che egli abbia da fare. A una valutazione imparziale sarà chiaro che i ruoli più saggi, virtuosi e benefici nel Teatro della Vita sono ricoperti dai protagonisti gratuitamente, e vengono considerati agli occhi del mondo come momenti d'ozio. Perché in quel teatro non solo le comparse, le coriste e i diligenti orchestrali ma anche gli spettatori plaudenti dai loro sedili ricoprono un ruolo e adempiono una funzione importante nel risultato generale.
Senza dubbio voi dipendete molto dal vostro avvocato e dall'agente di cambio, dai capitreno e dai macchinisti che vi trasportano rapidamente da un luogo all'altro, e dai poliziotti che camminano per le strade per proteggervi. Ma non c'è un pensiero di gratitudine nel vostro cuore per certi altri benefattori, quelli che vi fanno sorridere quando li incontrate, o danno sapore al vostro pranzo con la loro simpatia?
Il colonnello Newcombe contribuì a dissipare il denaro degli amici; Fred Bayham aveva la pessima abitudine di farsi prestare le camicie; eppure era meglio incontrare loro che Mr. Barnes. E sebbene Falstaff non fosse sobrio né molto onesto, potrei nominare un paio di Barabba, dai musi lunghi, di cui il mondo farebbe a meno più volentieri. Hazlitt afferma di essere più in obbligo con Northcate, dal quale non ha mai ricevuto quel che si dice un favore, piuttosto che con tutta la sua cerchia di amici esibizionisti; perché pensa che un buon amico sia davvero il miglior benefattore.
So che ci sono persone al mondo che non provano gratitudine se il favore che hanno ricevuto non è costato fatica e disagio. Ma questo è un atteggiamento meschino. Un uomo può mandarvi una lettera di sei pagine di pettegolezzi divertenti oppure potete passare mezzora piacevolmente, magari con profitto, leggendo un suo articolo. Pensate che sarebbe stato un favore più grande se avesse scritto col sangue del suo cuore, come in un patto col diavolo? Pensate davvero che sareste più grato al vostro corrispondente se vi avesse mandato all'inferno per la vostra importunità? Un favore procura più beneficio di ciò che è fatto per dovere, perché è spontaneo, come la carità; perciò è doppiamente benedetto.
Non c'è dovere che sottovalutiamo di più del dovere di essere felici. Quando siamo felici, seminiamo anonimi benefizi sul mondo, che restano sconosciuti anche a noi stessi o, se rivelati, sorprendono più di tutti il loro benefattore. L'altro giorno un monello cencioso e scalzo correva per la strada dietro a una biglia, aveva un'aria così allegra che metteva di buonumore chiunque lo vedesse. Uno di questi passanti, che si era sentito sollevato dai suoi pensieri, in quel giorno più tetri del consueto, fermò il bambino e gli diede qualche soldo, dicendo: "Guarda che cosa si guadagna qualche volta ad avere una faccia allegra." Se prima aveva un aspetto allegro, ora doveva sembrare sia allegro che confuso.
Per conto mio, io approvo questo incoraggiamento dei bambini sorridenti piuttosto che di quelli piagnucolosi. Non voghe pagare le lacrime, se non a teatro; ma sono pronto a trattare largamente il loro opposto.
E' meglio trovare un uomo o una donna felice piuttosto che una banconota da cinque sterline. Lui o lei sono fuochi che irradiano benevolenza; il loro ingresso in una stanza sembra accendere una candela in più. Non abbiamo bisogno di sapere se conoscono i teoremi; essi fanno di meglio, dimostrano nella pratica il grande teorema della Piacevolezza del Vivere.
Se una persona non è felice se non rimanendo in ozio, in ozio deve rimanere. E' un precetto rivoluzionario; ma grazie alla fame e alla paura dell'ospizio è difficile che se ne abusi; nei limiti della pratica è una delle verità più incontestabili di tutta la Morale. Osservate per un momento uno dei vostri giovanotti indaffarati, vi prego. Egli semina fretta e raccoglie indigestione. Investe una grande attività per ottenerne un interesse, e ne riceve in cambio un grande squilibrio nervoso. O si ritira da qualunque compagnia e vive recluso in un abbaino con le pantofole e un calamaio di piombo; oppure capita in mezzo alla gente, teso e pungente, con tutto il sistema nervoso contratto, per scaricare qualche sua collera prima di tornare al lavoro. Non mi importa quanto o quanto bene lavori; quest'uomo è una presenza malefica nella vita degli altri. All'Ufficio delle Circonlocuzioni starebbero meglio senza i suoi servigi, piuttosto che sopportare il suo umore irritabile. Avvelena la vita alla sorgente. E' meglio essere ridotti in miseria da un nipote scapestrato, piuttosto che essere tormentato quotidianamente da uno zio stizzoso.
In nome di Dio, perché tutte queste storie? Per quale ragione devono amareggiare la vita loro e quella degli altri? Che un uomo pubblichi trenta o quaranta articoli all'anno, che finisca o no il suo grande dipinto allegorico, sono questioni di ben poca importanza in questo mondo. I ranghi della vita sono completi; anche se mille cadono, ce ne sono sempre altrettanti a rimpiazzarli sulla breccia. Quando dissero a Giovanna d'Arco che avrebbe fatto meglio a dedicarsi ai lavori domestici, ella rispose che c'era una quantità di filatrici e lavandaie. Lo stesso si può dire delle vostre doti più straordinarie. Quando la natura è così "noncurante di una singola vita" perché dovremmo cullarci nell'illusione che la nostra vita sia di importanza così eccezionale? Supponete che Shakespeare fosse stato abbattuto con una mazzata in una notte tenebrosa, nella riserva di Sir Thomas Lucy, il mondo avrebbe continuato ad agitarsi nel bene e nel male, il secchio sarebbe andato al pozzo, la falce al grano, lo studente al suo libro. E nessuno si sarebbe accorto della perdita.
Se considerate tutte le alternative, non esistono molte opere che valgano il prezzo di una libbra di tabacco, agli occhi di un povero. Questa riflessione è in grado di smorzare le nostre più presuntuose ambizioni terrene. Nemmeno un tabaccaio, d'altronde, potrebbe trovare ragione di vantarsi in questa frase; perché sebbene il tabacco sia un mirabile sedativo i requisiti necessari a venderlo al minuto non sono né preziosi né straordinari. Ahimè, ahimè. Prendetela come volete ma nessun singolo individuo è indispensabile. Atlante non era che un signore con un incubo prolungato.
Eppure continuiamo a vedere mercanti che si affermano e si logorano fino ad ottenere una grande fortuna, e infine la bancarotta; scribacchini che scribacchiano articoletti fino a che il loro carattere diventa un supplizio per chi sta intorno - come se il Faraone avesse comandato agli ebrei di fabbricare una spilla anziché una piramide -; giovanotti che lavorano fino a deperire, e vengono portati via in un carro funebre ornato di pennacchi bianchi. Non pensate che a queste persone il Maestro delle Cerimonie deve aver sussurrato la promessa di qualche momento di gloria? E che questa palletta tiepida su cui recitano la loro farsa è il centro e il bersaglio di tutto l'universo? Ma non è così. Per quanto ne sanno, gli scopi per cui sprecano la loro impagabile giovinezza potrebbero essere chimerici o nefasti; gloria e ricchezza potrebbero non arrivare mai o scoprirli indifferenti. Essi e il mondo che abitano sono così insignificanti che la mente ne gela al pensiero.



* Fotografia: riproduzione free copy da internet dell'edizione "Elogio dell'ozio" di Stevenson per i tipi di Stampa Alternativa
** Testo: "Elogio dell'ozio" di Stevenson scaricato free copy da internet.

sabato 17 dicembre 2011

Charles Bubowski Svastica


Charles Bukowski
Svastica 

"Bukowski scrisse anche un racconto intitolato Svastica, contemplato in Tales of Ordinary Madness e che non è mai stato pubblicato (unico tra i complessivi 64 racconti) in tutte le corrispondenti edizioni italiane dello stesso volume, se non di recente in una pubblicazione a solo con testo a fronte (oggi fuori commercio e reperibile come free copy in internet). Fu dato alle stampe verso la fine degli anni Sessanta in una non precisata tra le seguenti riviste alternative: Open City, Nola Express, Knight, Pix, The Berkeley Barb."
da: Don't try di Erwin Taormina de Greef

Svastica
 
Il Presidente degli Stati Uniti d'America entrò nell'auto, circondato dagli agenti. Prese posto sul sedile posteriore. Era una mattina anonima e scura. Nessuno parlò. Filarono via, e i pneumatici si fecero sentire sulla strada ancora bagnata dalla pioggia della notte precedente. C'era un silenzio molto strano, come mai lo era stato prima. 
Andarono per un po' e ad un certo punto il Presidente disse: 
«Senti, questa non è la strada per l'aeroporto». 
I suoi agenti non risposero. Era stata programmata una vacanza. Due settimane nella sua residenza privata. L'aereo lo attendeva all'aeroporto. 
Cominciò a piovigginare. Sembrava che dovesse piovere ancora. Gli uomini, compreso il Presidente, indossavano pesanti soprabiti; cappelli; tutto ciò faceva sembrare l'auto strapiena. Fuori c'era un vento freddo e insistente. 
«Autista», disse il Presidente, «ritengo che stia andando per la direzione sbagliata». 
Il conducente non rispose. Gli altri agenti non batterono ciglio. 
«Sentite», disse il Presidente, «qualcuno vuol riferire a quell'uomo la via esatta per l'aeroporto?». 
«Non andiamo all'aeroporto», disse l'agente alla sinistra del Presidente. 
«Non stiamo andando all'aeroporto?» domandò il Presidente. 
Gli agenti rimasero indifferenti. La pioggerella diventò pioggia. Il conducente azionò i tergicristalli. 
«Sentite, che c'è?» chiese il Presidente. «Che succede qui?» 
«Piove da settimane», disse l'agente accanto all'autista. «Deprime. Come sarò contento di godermi un po' di sole.» 
«Sicuro, anch'io», disse l'autista. 
«C'è qualcosa che non quadra», disse il Presidente, «esigo sapere… » 
«Non sei più nella condizione di esigere», disse l'agente alla destra del Presidente. 
«Vuoi dire?… » 
«Vogliamo dire!» disse l'agente. 
«È un assassinio?» chiese il Presidente. 
«Andiamo… è fuori moda.» 
«E allora cosa… » 
«Per favore. Abbiamo l'ordine di non discutere con lei.» 
Viaggiarono per alcune ore. Continuava a piovere. Nessuno parlò. 
«Ora», disse l'agente alla sinistra del Presidente, «fai un altro giro, e poi svolta all'interno. Così non verremo seguiti. La pioggia ci è stata di grande aiuto». 
L'auto tratteggiò l'area suggerita, quindi svoltò in una piccola strada sterrata. Era molto fangosa e i pneumatici ogni tanto giravano, slittavano, poi facevano di nuovo presa e l'auto procedeva. Un uomo con un impermeabile giallo, impugnando una torcia, li diresse all'interno di un garage aperto. Si trattava di un'area isolata, con molti alberi. Alla sinistra del garage c'era una piccola casa di campagna. Gli agenti aprirono le portiere. 
«Fuori», dissero al Presidente. Il Presidente obbedì. Gli agenti stavano intorno al Presidente con circospezione, sebbene per miglia non ci fosse essere umano, eccetto l'uomo con la torcia e l'impermeabile giallo. 
«Non vedo perché non avremmo potuto sistemare la faccenda qui», disse l'uomo con l'impermeabile giallo. «Sembra certamente più rischioso nell'altro modo.» 
«Ordini», fece uno degli agenti. «Lo sai com'è. Ha sempre agito secondo intuito. E così anche adesso, più che mai.» 
«Fa molto freddo. Avete tempo per una tazza di caffè? È già pronto.» 
«Molto gentile, grazie. È stato un lungo viaggio. Presumo che l'altra auto sia già pronta.» 
«Certo. È stata controllata più volte. Comunque abbiamo dieci minuti di anticipo sul programma. È per questo che ho suggerito il caffè. Lo sai come la pensa sulla precisione.» 
«O.K. Allora, entriamo.» 
Entrarono nella casa di campagna, tenendo con molta attenzione il Presidente tra di loro. 
«Tu siediti lໂ disse uno degli agenti al Presidente. 
«È un ottimo caffè», disse l'uomo con l'impermeabile giallo, «macinato a mano». 
Fece il giro con la caffettiera. Ne versò uno per sé, si sedette, con l'impermeabile giallo ancora indosso e il cappuccio gettato sulla stufa. 
«Ah, veramente buono», disse uno degli agenti. 
«Panna e zucchero?» domandò un altro al Presidente. 
«Va bene», rispose… 
Non c'era molto spazio nella vecchia macchina, ma fecero in modo di entrare con il Presidente di nuovo sul sedile posteriore… La vecchia auto slittò nelle grosse buche e sul fango, ma riuscì a tornare sulla strada. Fu di nuovo per la maggior parte un viaggio silenzioso. Uno degli agenti si accese una sigaretta. 
«Maledizione, non riesco proprio a smettere!» 
«Beh, è difficile, tutto lì. Non preoccuparti.» 
«Non sono preoccupato. Solo disgustato.» 
«Senti, non pensarci. Questo è un gran giorno per la Storia.» 
«Eccome!» fece quello con la sigaretta. 
Quindi, aspirò… 
Parcheggiarono nei pressi di una vecchia pensione. Continuava a piovere. Rimasero lì alcuni istanti. 
«Ora», disse l'agente di fianco all'autista, «fatelo uscire. È sgombro. Nessuno in giro». 
Camminarono con il Presidente in mezzo a loro, prima attraverso la porta di ingresso, quindi su per tre piani di scale, sempre tenendo il Presidente in mezzo a loro. Si fermarono e bussarono alla 306. Il segnale: battuta, pausa, tre battute, pausa, due battute… 
La porta fu aperta e gli uomini spinsero dentro il Presidente. La porta fu poi chiusa a chiave e sprangata. Dentro attendevano tre uomini. Due avevano una cinquantina d'anni. L'altro era vestito con una vecchia camicia da manovale, pantaloni di seconda mano molto larghi e scarpe da dieci dollari scalcagnate e sporche. Stava seduto al centro della stanza su una sedia a dondolo. Poteva avere una ottantina d'anni, sorrideva… e gli occhi erano gli stessi; naso, mento, fronte non erano molto cambiati. 
«Benvenuto, Signor Presidente. Ho aspettato molto la Storia, la Scienza e Voi; siete arrivati tutti secondo i piani, oggi… » 
Il Presidente guardò il vecchio sulla sedia a dondolo. «Mio Dio! Tu sei… tu sei… » 
«Mi hai riconosciuto! Altri tuoi concittadini hanno scherzato sulla somiglianza! Troppo stupidi per rendersi conto che io ero… » 
«Ma fu provato che… » 
«Certo che fu provato. I bunker: 30 aprile 1945. Abbiamo voluto così. Sono stato paziente. La Scienza era con noi ma a volte ho dovuto accelerare la Storia. Volevamo l'uomo giusto. Tu sei l'uomo giusto. Era impossibile per gli altri – troppo lontani dalla mia filosofia politica… tu sei l'ideale. Adoperando te sarà più facile ma come ti ho detto dovevo accelerare un po' il percorso della Storia… la mia età… ho dovuto… » 
«Vuoi dire…?» 
«Sì, io ho fatto assassinare il tuo presidente Kennedy. E poi, suo fratello… » 
«Ma perché il secondo assassinio?» 
«Ci avevano informati che quell'uomo avrebbe vinto le elezioni presidenziali.» 
«Ma che ne farete di me? Mi è stato detto che non mi avreste assassinato… » 
«Posso presentarti i dottori Graf e Voelker?» 
I due uomini salutarono il Presidente con un cenno del capo e sorrisero. 
«Ma allora cosa succederà?» chiese il Presidente. 
«Scusa un attimo. Devo chiedere ai miei uomini; Karl, com'è andata con il Doppione?» 
«Bene. Abbiamo telefonato dalla fattoria. Il Doppione è arrivato all'aeroporto come 
previsto. Il Doppione ha annunciato che, viste le condizioni del tempo, avrebbe annullato il volo fino al giorno dopo. Quindi ha annunciato che avrebbe fatto un giro in macchina… che gli piaceva essere accompagnato in giro sotto la pioggia… » 
«E poi?» chiese il vecchio. 
«Il Doppione è morto.» 
«Bene. Andiamo avanti. Storia e Scienza sono arrivate alla loro ora.» 
Gli agenti fecero andare il Presidente verso uno dei due tavoli operatori. Gli dissero di spogliarsi. Il vecchio andò verso l'altro tavolo. I dottori Graf e Voelker indossarono i camici e si prepararono per l'incarico...
L'uomo dall'aspetto più giovane si alzò da uno dei due tavoli operatori. Si vestì con gli abiti del Presidente, poi andò verso il grande specchio sul muro a nord. Stette lì per buoni cinque minuti. Poi si girò. 
«Miracoloso! Neanche una cicatrice… niente riabilitazione. Congratulazioni, signori! Come fate?» 
«Sì, Adolf», rispose uno dei due dottori, «abbiamo fatto molta strada da quando… ». 
«Aspetta! Non voglio mai più sentire il nome Adolf… fino al momento giusto, finché non lo dico IO!… Sino ad allora non si parlerà più tedesco… ORA sono il Presidente degli Stati Uniti d'America!» 
«Sì, Signor Presidente!» 
Poi si toccò sopra il labbro superiore: 
«Mi mancano i miei vecchi baffi!». 
Sorrisero. 
Quindi egli chiese: 
«E il vecchio?». 
«L'abbiamo messo a letto. Non si sveglierà per ventiquattro ore. In questo momento… ogni cosa… tutte le prove dell'operazione sono state distrutte, dissolte. Tutto quel che dobbiamo fare è uscire di qui», disse il dottor Graf. «Ma… Signor Presidente, quest'uomo… io suggerirei… » 
«No, ti dico, è indifeso! Lascialo soffrire come ho sofferto io!» 
Andò verso il letto e guardò l'uomo. Un vecchio di ottant'anni con i capelli bianchi. 
«Domani sarò nella sua residenza privata. Chissà se a sua moglie piacerà il mio modo di fare l'amore.» Fece una risatina. 
«Sono sicuro, mein Führer… oh, mi scusi! Sono sicuro, Signor Presidente, che le piacerà moltissimo il suo modo di fare l'amore.» 
«Lasciamo questo posto, allora. Prima i dottori, per la loro strada. Poi noi… uno o due alla volta… una comitiva di auto, quindi una buona dormita alla Casa Bianca.»
Il vecchio con i capelli bianchi si alzò. Era solo nella stanza. Poteva fuggire. Uscì dal letto in cerca dei suoi vestiti e come attraversò la stanza, vide un vecchio in un grosso specchio. 
No, pensò, oh mio dio, no! 
Alzò un braccio. Il vecchio nello specchio alzò un braccio. Si mosse in avanti. Il vecchio nello specchio si ingrandì. Guardò le sue mani – aggrinzite, non erano le sue mani! Guardò i suoi piedi! Non erano i suoi piedi! Non era il suo corpo! 
«Dio mio!» disse ad alta voce. «O MIO DIO!» 
Allora sentì la sua voce. Neanche la voce era la sua. Avevano anche scambiato le corde vocali. Si toccò la gola, la testa. Nessuna cicatrice! Nessuna cicatrice da nessuna parte. Si mise gli abiti del vecchio e scese le scale. Bussò alla prima porta, c'era scritto “Proprietaria”. 
La porta si aprì. Una donna anziana. 
«Sì, signor Tilson?» chiese. 
«Signor Tilson? Signora, io sono il Presidente degli Stati Uniti d'America! È un'emergenza!» 
«Oh, signor Tilson, siete così divertente!» 
«Senta, dov'è il telefono?» 
«Proprio dove è sempre stato, signor Tilson, alla destra della porta d'ingresso.» 
Si frugò nelle tasche. Gli avevano lasciato qualche spicciolo. Guardò nel portafoglio. Diciotto dollari. Mise una moneta nel telefono. 
«Signora, qual è l'indirizzo qui?» 
«Signor Tilson, voi SAPETE l'indirizzo. Vivete qui da anni! Vi comportate molto stranamente oggi, signor Tilson. E vi dirò di più!» 
«Sì, sì… cosa?» 
«Vi ricordo che l'affitto scade proprio oggi!» 
«Oh, signora, per favore mi dica questo indirizzo!» 
«Come se non lo sapesse! È 2435 Shoreham Drive.» 
«Sì», disse al telefono, «tassì? Voglio un tassì al 2435 di Shoreham Drive. Aspetterò al primo piano. Il mio nome? Il mio nome? Va bene, il mio nome è Tilson… ». 
È inutile andare alla Casa Bianca, pensò, hanno quella copertura… Andrò dal più grosso giornale. Glielo dirò. Dirò tutto all'editore. Tutto quel che è accaduto…
Gli altri pazienti risero di lui. «Vedi quel tipo? Che somiglia un po' a quel tizio, quel dittatore, comesichiama, solo molto più vecchio. Comunque, quando venne qui un mese fa, pretendeva di essere il Presidente degli Stati Uniti d'America. Questo un mese fa. Adesso non lo dice più tanto. Ma di sicuro gli piace leggere il giornale. Non ho mai visto uno così ansioso di leggere un giornale. Bisogna dire che se ne intende di politica, però. Penso sia quello che l'ha fatto impazzire. Troppa politica.» 
Suonò la campana della cena. Tutti i pazienti se ne accorsero. Eccetto uno. 
Un infermiere andò verso di lui. 
«Signor Tilson?» 
Non ci fu risposta. 
«SIGNOR TILSON!» 
«Oh… sì?» 
«È ora di cena, signor Tilson!» 
Il vecchio con i capelli bianchi si alzò e andò lentamente verso il refettorio.

Fotografia: copertina originale dell'edizione di Stampa Alternativa, 1994
Introduzione tratta da "Don't try" di Erwin Taormina de Greef (inedito).
Racconto originale di Charles Bukowski scaricato free copy da internet.

giovedì 8 dicembre 2011

Italo Calvino Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno Einaudi Nuovi coralli n. 16 (1964)

Italo Calvino 
Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno 
Einaudi Nuovi coralli n. 16 (1964)

La prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno (romanzo opera prima del 1946 poi rivisto e corretto nel 1964) è centrale per comprendere sia l'opera di Italo Calvino sia quell’insieme di voci che fu del neorealismo. Con le dovute specificità, leggendo questo documento - come il romanzo qui chiamato in causa - sono notevoli e costanti i rimandi che l'Autore fa ad alcuni suoi maestri indiscussi: da Stevenson a Conrad giusto per dirne un paio. E sono illuminanti anche le citazioni sottotraccia. 


Prefazione

Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la prima cosa che ho scritto, se si eccettuano pochi racconti. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente da un clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello di una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del mio primo romanzo.
Questo ci tocca oggi, soprattutto: la voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte. L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle «mense del popolo», ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie.
Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica. Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca d’effetti angosciosi o truculenti. Alcuni miei racconti, alcune pagine di questo romanzo hanno all’origine questa tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio.
Eppure, eppure, il segreto di come si scriveva allora non era soltanto in questa elementare universalità dei contenuti, non era lì la molla (forse l’aver cominciato questa prefazione rievocando uno stato d’animo collettivo, mi fa dimenticare che sto parlando di un libro, roba scritta, righe di parole sulla pagina bianca); al contrario, mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse in quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere.
Il «neorealismo» per noi che cominciammo di lì, fu quello; e delle sue qualità e difetti questo libro costituisce un catalogo rappresentativo, nato com’è da quella acerba volontà di far letteratura che era proprio della «scuola». Perché chi oggi ricorda il «neorealismo» soprattutto come una contaminazione o coartazione subita dalla letteratura da parte di ragioni extraletterarie, sposta i termini della questione: in realtà gli elementi extraletterari stavano lì tanto massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura; tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che per noi era il mondo.

Il «neorealismo» non fu una scuola (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l'una all'altra - o che si supponevano sconosciute -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato «neorealismo». Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanti critici ci rimproveravano d'essere gli allievi diretti o indiretti. Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. Ci eravamo fatta una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia,Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio (Continuo a parlare al plurale, come se alludessi a un movimento organizzato e cosciente, anche ora che sto spiegando che era proprio il contrario. Come è facile, parlando di letteratura, anche nel mezzo del discorso più serio, più fondato sui fatti, passare inavvertitamente a contar storie... Per questo, i discorsi sulla letteratura mi dànno sempre più fastidio, quelli degli altri come i miei).
Il mio paesaggio era qualcosa di gelosamente mio (è di qui che potrei cominciare la prefazione: riducendo al minimo il cappello di «autobiografia d'una generazione letteraria», entrando subito a parlare di quel che mi riguarda direttamente, forse potrò evitare la genericità, l'approssimazione...), un paesaggio che nessuno aveva mai scritto davvero (Tranne Montale, - sebbene egli fosse dell'altra Riviera, Montale che mi pareva di poter leggere quasi sempre in chiave di memoria locale, nelle immagini e nel lessico). lo ero della Riviera di Ponente; dal paesaggio della mia città - San Remo - cancellavo polemicamente tutto il litorale turistico lungomare con palmizi, casinò, alberghi, ville - quasi vergognandomene; cominciavo dai vicoli della Città vecchia, risalivo per i torrenti, scansavo i geometrici campi di garofani, preferivo le «fasce» di vigna e d'oliveto coi vecchi muri a secco sconnessi, m'inoltravo per le mulattiere sopra i dossi gerbidi, fin su dove cominciano i boschi di pini, poi i castagni, e cosi ero passato dal mare - sempre visto dall'alto, una striscia tra due quinte di verde - alle valli tortuose delle Prealpi liguri.
Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva che esso diventasse secondario rispetto a qualcos'altro: a delle persone, a delle storie. La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui. Lo scenario quotidiano di tutta la mia vita era diventato interamente straordinario e romanzesco: una storia sola si sdipanava dai bui archivolti della Città vecchia fin su ai boschi; era l'inseguirsi e il nascondersi d'uomini armati; anche le ville, riuscivo a rappresentare, ora che le avevo viste requisite e trasformate in corpi di guardia e prigioni; anche i campi di garofani, da quando erano diventati terreni allo scoperto, pericolosi da attraversare, evocanti uno sgranare di raffiche nell'aria. Fu da questa possibilità di situare storie umane nei paesaggi che il «neorealismo»…

In questo romanzo (è meglio che riprenda il filo; per mettersi a rifare l’apologia del «neorealismo» è troppo presto; analizzare i motivi di distacco corrisponde di più al nostro stato d’animo, ancor oggi) i segni dell’epoca letteraria si confondono con quelli della giovinezza dell’autore. L’esasperazione dei motivi della violenza e del sesso finisce per apparire ingenua (oggi che il palato del lettore è abituato a trangugiare cibi ben più bollenti) e voluta (che per l’autore questi fossero motivi esterni e provvisori, lo prova il seguito della sua opera).
E altrettanto ingenua e voluta può apparire la smania di innestare la discussione ideologica nel racconto, in un racconto come questo, impostato in tutt’altra chiave: di rappresentazione immediata, oggettiva, come linguaggio e come immagini. Per soddisfare la necessità dell’innesto ideologico, io ricorsi all’espediente di concentrare le riflessioni teoriche in un capitolo che si distacca dal tono degli altri, il IX, quello delle riflessioni del commissario Kim, quasi una prefazione inserita in mezzo al romanzo. Espediente che tutti i miei primissimi lettori criticarono, consigliandomi un taglio netto del capitolo; io, pur comprendendo che l’omogeneità del libro ne soffriva (a quel tempo, l’unità stilistica era uno dei pochi criteri estetici sicuri; ancora non erano tornati in onore gli accostamenti di stili e linguaggi diversi che oggi trionfano), tenni duro: il libro era nato così, con quel tanto di composito e di spurio.
Anche l’altro grande tema futuro di discussione critica, il tema lingua-dialetto, è presente qui nella sua fase ingenua: dialetto aggrumato in macchie di colore (mentre nelle narrazioni che scriverò in seguito cercherò di assorbirlo tutto nella lingua, come un plasma vitale ma nascosto); scrittura ineguale che ora quasi s’impreziosisce ora corre giù come vien viene badando solo alla resa immediata; un repertorio documentaristico (modi di dire popolari, canzoni) che arriva quasi al folklore…
E poi (continuo l’elenco dei segni dell’età, mia e generale; una prefazione scritta ha un senso solo se è critica), il modo di figurare la persona umana: tratti esasperati e grotteschi, smorfie contorte, oscuri drammi visceral-collettivi. L’appuntamento con l’espressionismo che la cultura letteraria e figurativa italiana aveva mancato nel Primo Dopoguerra, ebbe il suo grande momento nel Secondo. Forse il vero nome per quella stagione italiana, più che «neorealismo» dovrebbe essere «neo-espressionismo».
Le deformazioni della lente espressionistica si proiettano in questo libro sui volti che erano stati dei miei cari compagni. Mi studiavo di renderli contraffatti, irriconoscibili, «negativi», perché solo nella «negatività» trovavo un senso poetico. E nello stesso tempo provavo rimorso, verso la realtà tanto più variegata e calda e indefinibile, verso le persone vere, che conoscevo come tanto umanamente più ricche e migliori, un rimorso che mi sarei portato dietro per anni…

Questo romanzo è il primo che ho scritto. Che effetto mi fa, a rileggerlo adesso (Ora ho trovato il punto: questo rimorso. E’ di qui che devo cominciare la prefazione)?. Il disagio che per tanto tempo questo libro mi ha dato in parte si è attutito, in parte resta: è il rapporto con qualcosa di tanto più grande di me, con emozioni che hanno coinvolto tutti ì miei contemporanei, e tragedie, ed eroismi, e slanci generosi e geniali, e oscuri drammi di coscienza. La Resistenza; come entra questo libro nella «letteratura della Resistenza»?
Al tempo in cui l'ho scritto, creare una «letteratura della Resistenza» era ancora un problema aperto, scrivere «il romanzo della Resistenza» si poneva come un imperativo; a due mesi appena dalla Liberazione nelle vetrine dei librai c'era già Uomini e no di Vittorini, con dentro la nostra primordiale dialettica di morte e di felicità; i «gap» di Milano avevano avuto subito il loro romanzo, tutto rapidi scatti sulla mappa concentrica della città; noi che eravamo stati partigiani di montagna avremmo voluto avere il nostro, di romanzo, con il nostro diverso ritmo, il nostro diverso andirivieni...
Non che fossi così culturalmente sprovveduto da non sapere che l'influenza della storia sulla letteratura è indiretta, lenta e spesso contraddittoria; sapevo bene che tanti grandi avvenimenti storici sono passati senza ispirare nessun grande romanzo, e questo anche durante il «secolo del romanzo» per eccellenza; sapevo che il grande romanzo del Risorgimento non è mai stato scritto... Sapevamo tutto, non eravamo ingenui a tal punto: ma credo che ogni volta che si è stati testimoni o attori d'un'epoca storica ci si sente presi da una responsabilità speciale…
A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere soggezione dal tema, decisi che l'avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d'un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l'aspro sapore, il ritmo…

Questo romanzo è il primo che ho scritto. Come posso definirlo, ora, a riesaminarlo tanti anni dopo (Devo ricominciare da capo. M’ero cacciato in una direzione sbagliata: finivo per dimostrare che questo libro era nata da un’astuzia per sfuggire all’impegno; mentre invece, al contrario…)? Posso definirlo un esempio di «letteratura impegnata» nel senso più ricco e pieno della parola. Oggi, in genere, quando si parla di«letteratura impegnata» ci se ne fa un’idea sbagliata, come d’una letteratura che serve da illustrazione a una tesi già definita a priori, indipendentemente dall’espressione poetica. Invece, quello che si chiamava l’«engagement», l’impegno, può saltar fuori a tutti i livelli; qui vuole innanzitutto essere immagini e parola, scatto, piglio, stile, spezzatura, sfida.
Già nella scelta del tema c’è un’ostentazione di spavalderia quasi provocatoria. Contro chi? Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata.
Primo fronte: a poco più d’un anno dalla Liberazione già la «rispettabilità ben pensante» era in piena riscossa, e approfittava d’ogni aspetto contingente di quell’epoca – gli sbandamenti della gioventù postbellica, la recrudescenza della delinquenza, la difficoltà di stabilire una nuova legalità – per esclamare: «Ecco, noi l’avevamo sempre detto, questi partigiani, tutti così, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo bene che razza d’ideali…». Fu in questo clima che io scrissi il mio libro, con cui intendevo paradossalmente rispondere ai benpensanti: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!». Il senso di questa polemica, di questa sfida è ormai lontano: e anche allora, devo dire, il libro fu letto semplicemente come romanzo, e non come elemento di discussione su di un giudizio storico. Eppure, se ancora vi si sente frizzare quel tanto d’aria provocatoria, proviene dalla polemica d’allora.
Dalla doppia polemica. Per quanto, anche la battaglia sul secondo fronte, quello interno alla «cultura di sinistra», ora pare lontana. Cominciava appena allora il tentativo d’una «direzione politica» dell’attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare l’«eroe positivo», di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria. Cominciava appena, ho detto: e devo aggiungere che neppure in seguito, qui in Italia, simili pressioni ebbero molto peso e molto seguito. Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria: quando scrissi questo libro l’avevo appena avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere d’una nuova retorica (Avevamo ancora intatta la nostra carica d’anticonformismo, allora: dote difficile da conservare, ma che – se pur conobbe qualche parziale eclisse – ancora ci sorregge, in quest’epoca tanto più facile, non meno pericolosa…). La mia reazione d’allora potrebbe essere enunciata così: «Ah, sì, volete “l’eroe socialista”? Volete il “romanticismo rivoluzionario”? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe. Il mondo delle “lingère”, vi rappresento, il lunpenproletariat (Concetto nuovo, per me allora; e mi pareva una gran scoperta. Non sapevo che era stato e avrebbe continuato a essere il terreno più facile per la narrativa)! E sarà l’opera più positiva, più rivoluzionaria di tutte! Che ce ne importa di chi è già un eroe, di chi la coscienza ce l’ha già? E’ il processo per arrivarci che si deve rappresentare! Finché resterà un solo individuo al di qua della coscienza, il nostro dovere sarà di occuparci di lui e solo di lui!».
Così ragionavo, e con questa furia polemica mi buttavo a scrivere e scomponevo i tratti del viso e del carattere di persone che avevo tenuto per carissimi compagni, con cui avevo per mesi e mesi spartito la gavetta di castagne e il rischio della morte, per la cui sorte avevo trepidato, di cui avevo ammirato la noncuranza nel tagliarsi i ponti dietro le spalle, il modo di vivere sciolto da egoismi, e ne facevo maschere contratte da perpetue smorfie, macchiette grottesche, addensavo torbidi chiaroscuri – quelli che nella mia giovanile ingenuità immaginavo potessero essere torbidi chiaroscuri – sulle loro storie… Per poi provarne un rimorso che mi tenne dietro per anni…

Devo ancora ricominciare da capo la prefazione. Non ci siamo. Da quel che ho detto, parrebbe che scrivendo questo libro avessi tutto ben chiaro in testa: i motivi di polemica, gli avversari da battere, la poetica da sostenere… Invece, se tutto questo c’era, era ancora in uno stadio confuso e senza contorni. In realtà il libro veniva fuori come per caso, m’ero messo a scrivere senza avere in mente una trama precisa, partii da quel personaggio di monello, cioè da un elemento d’osservazione diretta della realtà, un modo di muoversi, di parlare, di tenere un rapporto con i grandi, e, per dargli un sostegno romanzesco, inventai la storia della sorella, della pistola rubata al tedesco; poi l’arrivo tra i partigiani si rivelò un trapasso difficile, il salto dal racconto picaresco all’epopea collettiva minacciava di mandare tutto all’aria, dovevo avere un’invenzione che mi permettesse di continuare a tenere la storia tutta sul medesimo gradino, e inventai il distaccamento del Dritto.
Era il racconto che – come sempre succede – imponeva soluzioni quasi obbligatorie. Ma in questo schema, in questo disegno che si veniva formando quasi da solo, io travasavo la mia esperienza ancora fresca, una folla di voci e volti (deformavo i volti, straziavo le persone come sempre fa chi scrive, per cui la realtà diventa creta, strumento, e sa che solo così può scrivere, eppure ne prova rimorso…), un fiume di discussioni e di letture che a quell’esperienza s’intrecciavano.
Le letture e l’esperienza di vita non sono due universi ma uno. Ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con esse. Che i libri nascano sempre da altri libri è una verità solo apparentemente in contraddizione con l’altra: che i libri nascano dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini Appena finito di fare il partigiano trovammo (prima in pezzi sparsi per riviste, poi tutto intero) un romanzo sulla guerra di Spagna che Hemingway aveva scritto sei o sette anni prima: Per chi suona la campana. Fu il primo libro in cui ci riconoscemmo: fu di lì che cominciammo a trasformare in motivi narrativi e frasi quello che avevamo visto sentito e vissuto, il distaccamento di Pablo e di Pilar era il «nostro» distaccamento. (Ora magari quello è il libro di Hemingway che ci piace di meno; anzi, già a quei tempi, fu scoprendo in altri libri dello scrittore americano – particolarmente nei suoi primi racconti – la vera sua lezione di stile, che Hemingway divenne il nostro autore).
La letteratura che ci interessava era quella che portava questo senso d’umanità ribollente e di spietatezza e di natura: anche i russi del tempo della Guerra civile – cioè di prima che la letteratura sovietica diventasse castigata e oleografica – li sentivamo come nostri contemporanei. Soprattutto Babel, del quale conoscevamo L’armata a cavallo, tradotto in Italia già prima della guerra, uno dei libri esemplari del realismo del nostro secolo, nato dal rapporto tra l’intellettuale e la violenza rivoluzionaria.
Ma anche – su un livello minore – Fadeev (prima di diventare un funzionario della letteratura sovietica ufficiale), il suo primo libro, La disfatta, l’aveva scritto con quella sincerità e quel vigore (non ricordo se l’avessi già letto quando scrissi il mio libro, e non vado a verificare, non è quello che importa, da situazioni simili nascono libri che si somigliano, come struttura e come spirito); Fadeev che seppe finire bene come aveva cominciato, perché fu il solo scrittore staliniano, nel ’56, a dimostrare d’aver capito fino in fondo la tragedia di cui era stato corresponsabile (la tragedia in cui Babel e tanti altri scrittori veri della Rivoluzione avevano perso la vita), e a non tentare ipocrite recriminazioni, ma a trarne la conseguenza più severa: un colpo di pistola in fonte.

Questa letteratura c’è dietro al Sentiero dei nidi di ragno. Ma in gioventù ogni libro nuovo che si legge è come un nuovo occhio che si apre e modifica la vista degli altri occhi o libri-occhi che si avevano prima, e della nuova idea di letteratura che smaniavo di fare rivivevano tutti gli universi letterari che m’avevano incantato dal tempo dell’infanzia in poi… Cosicché, mettendomi a scrivere qualcosa come Per chi suona la campana di Hemingway volevo insieme scrivere qualcosa come L’isola del tesoro di Stevenson.
Chi lo capì subito fu Cesare Pavese, che indovinò dal Sentiero tutte le mie predilezioni letterarie. Nominò anche Nievo, a cui avevo voluto dedicare un segreto omaggio ricalcando l’incontro di Pin con Cugino sull’incontro di Carlino con lo Spaccafumo nelle Confessioni d’un Italiano.
Fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me n’ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione. La mia storia cominciava a esser segnata, e ora mi pare tutta contenuta in quell’inizio.
Forse, in fondo, il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta, il grande strappo lo dài solo in quel momento, l’occasione di esprimerti si presenta solo una volta, il nodo che porti dentro o lo sciogli quella volta o mai più. Forse la poesia è possibile solo in un momento della vita che per i più coincide con l’estrema giovinezza. Passato quel momento, che tu ti sia espresso o no (e non lo saprai se non dopo cento, centocinquant’anni; i contemporanei non possono essere buoni giudici), di lì in poi i giochi son fatti, non tornerai che a fare il verso agli altri o a te stesso, non riuscirai più a dire una parola vera, insostituibile…

Interrompo. Ogni discorso basato su una pura ragione letteraria, se è veritiero, finisce in questo scacco, in questo fallimento che è sempre lo scrivere. Per fortuna scrivere non è solo un fatto letterario, ma anche altro. Ancora una volta, sento il bisogno di correggere la piega presa dalla prefazione.
Questo altro, nelle mie preoccupazioni d’allora, era una definizione di cos’era stata la guerra partigiana. Con un mio amico e coetaneo, che ora fa il medico, e allora era studente come me, passavamo le sere a discutere. Per entrambi la Resistenza era stata l’esperienza fondamentale; per lui in maniera molto più impegnative perché s’era trovato ad assumere responsabilità serie, e a poco più di vent’anni era stato commissario d’una divisione partigiana, quella di cui io pure avevo fatto parte come semplice garibaldino. Ci pareva, allora, a pochi mesi dalla Liberazione, che tutti parlassero della Resistenza in modo sbagliato, che una retorica che s’andava creando ne nascondesse la vera essenza, il suo carattere primario. Mi sarebbe difficile ora ricostruire quelle discussioni; ricordo solo la continua nostra polemica contro tutte le immagini mitizzate, la nostra riduzione della coscienza partigiana a un quid elementare, quello che avevamo conosciuto nei più semplici dei nostri compagni, e che diventava la chiave della storia presente e futura.
Il mio amico era un argomentatore analitico, freddo, sarcastico verso ogni cosa che non fosse un fatto; l’unico personaggio intellettuale di questo libro, il commissario Kim, voleva essere un suo ritratto; e qualcosa delle nostre discussioni d’allora, nella problematica del perché combattevano quegli uomini senza divisa né bandiera, dev’essere rimasta nelle mie pagine, nei dialoghi di Kim col comandante di brigata e nei suoi soliloqui.
L’entroterra del libro erano queste discussioni, e più indietro ancora, tutte le mie riflessioni sulla violenza, da quando m’ero trovato a prendere le armi. Ero stato, prima d’andare coi partigiani, un giovane borghese sempre vissuto in famiglia; il mio tranquillo antifascismo era prima di tutto opposizione al culto della forza guerresca, una questione di stile, di «sense of humour», e tutt’a un tratto la coerenza con le mie opinioni mi portava in mezzo alla violenza partigiana, a misurarmi su quel metro. Fu un trauma, il primo…
E contemporaneamente, le riflessioni sul giudizio morale verso le persone e sul senso storico delle azioni di ciascuno di noi. Per molti dei miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile (Fu Pavese che riuscì a scrivere: «Ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione», nelle ultime pagine della Casa in collina, strette tra il rimorso di non aver combattuto e lo sforzo d’essere sincero sulle ragioni del suo rifiuto).

Ecco: ho trovato come devo impostare la prefazione. Per mesi, dopo la fine della guerra, avevo provato a raccontare l’esperienza partigiana in prima persona, o con un protagonista simile a me. Scrissi qualche racconto che pubblicai, altri che buttai nel cestino; mi muovevo a disagio; non riuscivo mai a smorzare del tutto le vibrazioni sentimentali e moralistiche; veniva fuori sempre qualche stonatura; la mia storia personale mi pareva umile, meschina; ero pieno di complessi, d’inibizioni di fronte a tutto quel che più mi stava a cuore.
Quando cominciai a scrivere storie in cui non entravo io, tutto prese a funzionare: il linguaggio, il ritmo, il taglio erano esatti, funzionali; più lo facevo oggettivo, anonimo, più il racconto mi dava soddisfazione; e non solo a me, ma anche quando lo facevo leggere alla gente del mestiere che ero andato conoscendo in quei primi tempi postbellici, - Vittoriani e Ferrata a Milano, Natalia e Pavese a Torino, - non mi facevano più osservazioni. Cominciai a capire che un racconto, quanto più era oggettivo e anonimo, tanto più era mio.
Il dono di scrivere «oggettivo» mi pareva allora la cosa più naturale del mondo; non avrei mai immaginato che così presto l’avrei perduto. Ogni storia si muoveva con perfetta sicurezza in un mondo che conoscevo così bene: era questa la mia esperienza, la mia esperienza moltiplicata per le esperienze degli altri. E il senso storico, la morale, il sentimento, erano presenti proprio perché li lasciavo impliciti, nascosti.
Quando cominciai a sviluppare un racconto sul personaggio d’un ragazzetto partigiano che avevo conosciuto nelle bande, non pensavo che m’avrebbe preso più spazio degli altri. Perché si trasformò in un romanzo? Perché – compresi poi – l’identificazione tra me e il protagonista era diventata qualcosa di più complesso. Il rapporto del personaggio del bambino Pin e la guerra partigiana corrispondeva simbolicamente al rapporto che con la guerra partigiana m’ero trovato ad avere io. L’inferiorità di Pin come bambino di fronte all’incomprensibile mondo dei grandi corrisponde a quella che nella stessa situazione provavo io, come borghese. E la spregiudicatezza di Pin, per via della tanto vantata sua provenienza dal mondo della malavita, che lo fa sentire complice quasi superiore verso ogni «fuori-legge», corrisponde al modo «intellettuale» d’essere all’altezza della situazione, di non meravigliarsi mai, di difendersi dalle emozioni… Così, data questa chiave di trasposizioni – ma fu solo una chiave a posteriori, sia ben chiaro, che mi servì in seguito a spiegarmi cos’avevo scritto – la storia in cui il mio punto di vista personale era bandito ritornava ad essere la mia storia…

La mia storia era quella dell’adolescenza durata troppo a lungo, per il giovane che aveva preso la guerra come un alibi, nel senso proprio e in quello traslato. Nel giro di pochi anni, d’improvviso l’alibi era diventato un qui e ora. Troppo presto, per me; o troppo tardi: i sogni sognati troppo a lungo, io ero impreparato a viverli. Prima, il capovolgersi della guerra estranea, il trasformarsi in eroi e in capi degli oscuri e refrattari di ieri. Ora, nella pace, il fervore delle nuove energie che animava tutte le relazioni, che invadeva tutti gli strumenti della vita pubblica, ed ecco anche il lontano castello della letteratura s’apriva come un porto vicino e amico, pronto ad accogliere il giovane provinciale con fanfare e bandiere. E una carica amorosa elettrizzava l’aria, illuminava gli occhi delle ragazze che la guerra e la pace ci avevano restituito e fatto più vicine, divenute ora davvero coetanee e compagne, in un’intesa che era il nuovo regalo di quei primi mesi di pace, a riempire di dialoghi e di risa le calde sere dell’Italia resuscitata.
Di fronte a ogni possibilità che s’apriva, io non riuscivo a essere quello che avevo sognato prima dell’ora della prova: ero stato l’ultimo dei partigiani; ero un innamorato incerto e insoddisfatto e inabile; la letteratura non mi s’apriva come un disinvolto e distaccato magistero ma come una strada in cui non sapevo da che parte cominciare. Carico di volontà e tensione giovanili, m’era negata la spontanea grazia della giovinezza. Il maturare impetuoso dei tempi non aveva fatto che accentuare la mia immaturità.
Il protagonista simbolico del mio libro fu dunque un’immagine di regressione: un bambino. Allo sguardo infantile e geloso di Pin, armi e donne ritornavano lontane e incomprensibili; quel che la mia filosofia esaltava, la mia poetica trasfigurava in apparizioni nemiche, il mio eccesso d’amore tingeva di disperazione infernale.
Scrivendo, il mio bisogno stilistico era tenermi più in basso dei fatti, l’italiano che mi piaceva era quello di chi «non parla l’italiano a casa», cercavo di scrivere come avrebbe scritto un ipotetico me stesso autodidatta.
Il sentiero dei nidi di ragno è nato da questo senso di nullatenenza assoluta, per metà patita fino allo strazio, per metà supposta e ostentata. Se un valore oggi riconosco a questo libro è lì: l’immagine d’una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l’indigenza del «troppo giovane» e l’indigenza degli esclusi e dei reietti.

Se dico che allora facevamo letteratura del nostro stato di povertà, non parlo tanto d’una programmaticità ideologica, quanto di qualcosa di più profondo che era in ciascuno di noi.
Oggi che scrivere è una professione regolare, che il romanzo è un «prodotto», con un suo «mercato», una sua «domanda» e una sua «offerta», con le sue campagne di lancio, i suoi successi e i suoi tran-tran, ora che i romanzi italiani sono tutti «di un buon livello medio» e fanno parte della quantità di beni superflui di una società troppo presto soddisfatta, è difficile richiamarci alla mente lo spirito con cui tentavamo di cominciare una narrativa che aveva ancora da costruirsi tutto con le proprie mani.
Continuo a usare il plurale, ma vi ho già spiegato che parlo di qualcosa di sparso, di non concordato, che usciva da angoli di provincia diversi, senza ragioni esplicite in comune che non fossero parziali e provvisorie. Fu più che altro – diciamo – una potenzialità diffusa nell’aria. E presto spenta.
Già negli Anni Cinquanta il quadro era cambiato, a cominciare dai maestri: Pavese morto, Vittoriani chiuso in un silenzio d’opposizione, Moravia che in un contesto diverso veniva acquistando un altro significato (non più esistenziale ma naturalistico) e il romanzo italiano prendeva il suo corso elegiaco-moderato-sociologico in cui tutti finimmo per scavarci una nicchia più o meno comoda (o per trovare le nostre scappatoie).
Ma ci fu chi continuò sulla via di quella prima frammentaria epopea: in genere furono i più isolati, i meno «inseriti» a conservare questa forza. E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata.
Una questione privata (che ora si legge nel volume postumo di Fenoglio Un giorno di fuoco) è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest'altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perchè.
E’ al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio.

Questo romanzo è il primo che ho scritto, quasi la prima cosa che ho scritto. Cosa ne posso dire, oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto.
Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’esser definito; e questa definizione poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescinderne.
E ancora: per coloro che da giovani cominciarono a scrivere dopo un’esperienza di quelle con «tante cose da raccontare» (la guerra, in questo e in molti altri casi), il primo libro diventa subito un diaframma tra te e l’esperienza, taglia i fili che ti legano ai fatti, brucia il tesoro di memoria – quello che sarebbe diventato un tesoro se avessi avuto la pazienza di custodirlo, se non avessi avuto tanta fretta di spenderlo, di scialacquarlo, d’imporre una gerarchia arbitraria tra le immagini che avevi immagazzinato, di separare le privilegiate, presunte depositarie d’una emozione poetica, dalle altre, quelle che sembravano riguardarti troppo o troppo poco per poterle rappresentare, insomma d’istituire di prepotenza un’altra memoria, una memoria trasfigurata al posto della memoria globale coi suoi confini sfumati, con la sua infinita possibilità di recuperi… Di questa violenza che le hai fatto scrivendo, la memoria non si riavrà più: le immagini privilegiate resteranno bruciate dalla precoce promozione a motivi letterari, mentre le immagini che hai voluto tenere in serbo, magari con la segreta intenzione di servirtene in opere future, deperiranno, perché tagliate fuori dall’integrità naturale della memoria fluida e vivente. La proiezione letteraria dove tutto è solido e fissato una volta per tutte, ha ormai occupato il campo, ha fatto sbiadire, ha schiacciato la vegetazione dei ricordi in cui la vita dell’albero e quella del filo d’erba si condizionano a vicenda. La memoria – o meglio l’esperienza, che è la memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso -, l’esperienza primo nutrimento anche dell’opera letteraria (ma non solo di quella), ricchezza vera dello scrittore (ma non solo di lui), ecco che appena ha dato forma a un’opera letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad essere il più povero degli uomini.
Così mi guardo indietro, a quella stagione che mi si presentò gremita d’immagini e di significati: la guerra partigiana, i mesi che hanno contato per anni e da cui per tutta la vita si dovrebbe poter continuare a tirar fuori volti e ammonimenti e paesaggi e pensieri ed episodi e parole e commozioni: e tutto è lontano e nebbioso, e le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole, le pagine scritte già in polemica con una memoria che era ancora un fatto presente, massiccio, che pareva stabile, dato una volta per tutte, l’esperienza, - e non mi servono, avrei bisogno di tutto il resto, proprio di quello che lì non c’è. Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo.

Copertina: Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno  Einaudi Nuovi coralli n. 16 (1964)
Testo: scaricato free copy da internet.