martedì 15 maggio 2012

Alfonso Gatto Poesie (1929-1969)




Alfonso Gatto
Poesie (1929-1969)

Infanzia
(da Isola 1929-1932)

Il bambino sorpreso alla finestra
della sera tranquilla, odorava
la leggerezza tepida dei fiori
sollevati nell’aria celeste.
Inquietamente raccoglieva il volto
in un silenzio scolorito
e calmo la sua vergogna ridonava
all’impalpabile sera
assiepata dall’erbe e dai tetti.

Sognava: nella piazzetta antica
la chiesa era un piccolo chiosco
con la bandierina allegra:
alla cupola di maiolica
s’illuminavano gli scarabei
sulle lastre d’acqua verdina.
Il silenzio dell’umido erboso
acquetava le scale,
i balconcini coi tralci, le stive
dei fondaci colmi di frutta.
Così s’accendeva il fanale,
a poco a poco aggregato dall’acque,
sulla laguna invernale.
Affondavano le case
in lontananze distrutte,
sgretolate senza rumore:
trasaliva il bambino invecchiato
intirizzito all’ombrello.

Andava a trovare i suoi morti
rinchiusi in armadi sconnessi:
traboccava allegra pioggia
sul piccolo porto di legno,
ed una gioia strana
lo flagellava col vento
in un presagio del mare.


Alba a Sorrento
(da Morto ai paesi 1933-1937)

Al freddo stretto i limoni movevano la luna d’alba
prossima ad esalare scialba nel cielo dei portoni.
Sulla finestra a grate, tra i rami d’arancio
portava il vento uno slancio di polle rosate:
i gerani smorti dal gelo trepidavano d’aria
sotto l’arcata solitaria illuminata dal cielo.

Ai monti pallidi d’ali sorgevano voci remote,
per strada le ruote dei primi carri, i fanali
tenui nel vetro dell’aria, trasparenza del verde
fresco delle persiane; lungo i cancelli
il sole era un caldo cane addormentato tra i monelli.

Nord
(da La memoria felice 1937-1939)

Forse ai sabati calmi ancora sverna
la montagna nel grigio e curva al lago
nella luce degli alberi Lierna
strema il pallido sole.

                O, di me vago,
al treno che la lascia, un altro sogno
pianga la riva. Interminato echeggi
quello sparo di nulla, quasi il cielo
lasci d’incanto un altro cielo e fugga
verso il lastrico gelido dei monti.


Ricordo
(da Arie e ricordi 1940-1941)

Un bambino perduto fosti e un nome
prima che il vento t’allietasse l’erba.
Nel chiamarti dal bianco mezzogiorno
taceva la città, eri già dove
passano i sogni senza un’ombra e intorno
lasciano strade dolci di rumore.


Domenica
(da Poesie d’amore 1941-1949)

È lontana nel bianco della stanza
a muovere allo specchio i suoi capelli
una donna che canta.
Sembra silenzio il piccolo portone
che n’aspetta la voce dentro il verde
allegro dei suoi pampini.
Una fanciulla combinata a festa
trova pulito il paesetto e il canto.

Dietro il paese accade che la morte
abbia il dolce rumore della vita.
S’accostano al silenzio, boccia a boccia,
i giocatori in maniche di seta,
celesti già che il bianco della strada
altre voci consuma, altri clamori
occulti prima. Così trova un bacio
la ragazza che lascia tra le siepi
il nastro azzurro della sua farfalla.

Favola
(da Amore della vita 1944)

Le mamme pesanti e buone d’un tempo
una sera rimasero sedute
sul muretto del campo.
E divennero mute, di un’altra età,
pingui e rosee come il mare.

A mio padre
(da Il capo sulla neve 1943-1947)

Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno”. Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.

La mano
(da Giornale di due inverni 1943-’44 1964-’65)

Ora che tutto è certo si fa ambigua
la speranza del tempo, la paura
d’averlo già fermato ad un’esigua
soglia di luce nella stanza oscura.

Ma questo conta: il limite, la mano
che ci distingue, il battere vicino
del cuore. Il cuore non è più lontano
complice e solo: tinto dal suo vino

della sua feccia, non è più che umano.

Estate
(da La forza degli occhi 1950-1953)

La ruggine della dolcezza
È più del sole l’accaglio del tetto,
l’uomo dal ciuffo di carota
urla in mezzo alle fiamme dell’estate.
Le aiuole son tutte in frantumi
di giallo, d’azzurro netto.
Secca il legno delle facciate
il vecchio colore dei bagni sui fiumi.
E il ragazzo col piede nell’acqua
come vuole dolcezza ignota
che va.

Dentro il vicolo verde
si dorme sottovoce.
Il tempo perduto si perde
con le braccia in croce.

Cortile
(da Osteria flegrea 1954-1961)

La pupa del sarto incantata
è rimasta nel cortile d’inverno,
le parla a volte in eterno
la piccola malata.

Le invidia gli occhi, le ciglia,
le sorprende il petto.
Porta le mani sul suo busto stretto,
crede che le somiglia.

Ritorno a Napoli
(da La storia delle vittime 1963-1965)

Questo dei muri bianco funerario
e la squallida luce che la sera
ricorda dai millenni perché vario
lo stuolo dei fanciulli nella sera

bocca l’investa e se ne rida in fuga
ai fuochi accesi ove già brucia il vento:
questo freddo dei pesci e la lattuga
avvizzita sul marmo: in un momento

che è d’altro d’altro ancora e più se stesso
ravvivano lo scempio, la gazzarra
delle trombe in discesa. Ma chi narra
la vita non ha nulla e più se stesso,

il suo vento, il suo freddo, l’esser come
di tutti è lo straniero che s’arresta
attonito alla voce nel suo nome
lontana, fisso a un nugolo di festa.

Tacciono tutti, imbianca il lapidario
silenzio del suo nome. Chi lo chiama
nella sera dei morti, chi nel vario
tumulto dei fanciulli ancor l’ama?

La pergola
(da Rime di viaggio per la terra dipinta 1968-1969)

I primi freddi e l’ultimo tepore
dell’ottobre marino, la canaria
nel suo scialle di brividi ne muore
teneramente, quasi fatta d’aria

e di luce e di nulla, solitaria
cerula voce del posteggiatore
al suo filo di grazia, ma la varia
tristezza del suo volgere all’amore

il sollievo dell’anima è nel vento
di prima sera, ancora chiaro: porta
al largo la memoria ch’ebbe un volto,
un nome che ritorna dall’ascolto,
invocata distanza, luna sorta
dal nulla agli occhi dell’incantamento.

* Testi: Alfonso gatto, Poesie (1929-1969) scelte dall'autore, Mondadori Oscar Poesia, 1972.

** Fotografia: riproduce la copertina del libro, scaricata free copy da internet.

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