lunedì 3 ottobre 2011

Italo Calvino, Le notti dell'UNPA

Italo Calvino 
Le notti dell'UNPA

da


L'entrata in guerra


Ero un ragazzo tardo; a sedici anni, per l’età che avevo ero piuttosto indietro in molte cose. Poi, im­provvisamente, nell’estate del ‘40, scrissi una com­media in tre atti, ebbi un amore, e imparai ad an­dare in bicicletta. Ma non avevo ancora passato una notte fuor di casa, quando venne la disposizio­ne che durante le vacanze gli allievi del liceo pre­stassero servizio notturno nell’UNPA una volta la settimana.
Si dovevano tutelare gli edifìci scolastici cittadini in caso di incursione aerea. Incursioni però non ce n’erano state ancora, e questa dell’UNPA pareva una formalità come tante. Per me era una cosa nuova e allegra; era settembre, i miei compagni di scuola erano quasi tutti ancora via, in villeggiatura o a caccia, o sfollati in giugno per la guerra e non più tornati; in città c’eravamo solo io e Biancone: io che andavo a spasso tutto il giorno annoiandomi a morte, e lui che andava a spasso la notte diver­tendosi - pareva - a più non posso. Questi turni dell’UNPA si facevano in coppia; naturalmente io e Biancone ci facemmo iscrivere assieme; lui m’a­vrebbe guidato per tutti i posti che sapeva; ci ripro­mettevamo grandi cose. Ci fu assegnato il palazzo delle scuole elementari e il turno del venerdì notte. Una stanza con due brande e un telefono era il no­stro corpo di guardia lì alle scuole; nostro compito era il tenerci pronti in caso di allarme; potevamo anche fare ispezioni in giro, cioè uscire e andare a spasso quanto volevamo, ma uno alla volta, perché ci avrebbero fatto delle telefonate di controllo. Noi naturalmente pensammo subito che mettendoci d’accordo coi capisquadra avremmo potuto uscire anche insieme, e che il telefono ci sarebbe servito soprattutto per fare degli scherzi ai conoscenti nelle prime ore del mattino.
Ma per quanto ci dicessimo: - Faremo questo e quest’altro! Vedrai come ci divertiremo! - e già nei giorni che precedevano quel venerdì avessimo pro­gettato e previsto si può dire tutto il possibile, io m’aspettavo, da quella notte, altro ancora, che pu­re non sarei riuscito a esprimere: una rivelazione nuova, che ancora non sapevo quale sarebbe stata, la rivelazione della notte. Per Biancone invece tutto pareva allegramente solito e prevedibile, e anch’io facevo finta che lo fosse per me, ma intanto, intor­no a ogni generico progetto, sentivo il tempo sco­nosciuto della notte schiumare, nella mia immagi­nazione, come un mare invisibile.
Uscii, quel venerdì dopo cena, ed era ancora una sera come le altre, e io mi portavo dietro il pigiama e una federa, da mettere al guanciale della brandina in cui avrei dormito. E anche una rivista illu­strata, perché tra le tante occupazioni avremmo pure passato un po’ di tempo a leggere.
La scuola era un grande edificio in pietra, col tetto di lamiera. Era alta sopra la strada, in una posizione un po’ infelice, e vi si accedeva per tre scalinate. Era un’opera del Regime, ma non risen­tiva per nulla dell’impettita architettura di quell’e­poca; spirava un’aria d’ovvietà burocratica, quale il tiepido fascismo del mio paese cercava il più possibile di mantenere. Anche il bassorilievo del frontone, che pure rappresentava un balilla e una piccola italiana seduti ai lati della scritta «Scuole comunali», pareva ispirato a un’assennatezza pe­dagogica tutta ottocentesca.
Era una notte senza luna. Il palazzo delle scuo­le rifletteva ancora un vago chiarore. Con Bianco­ne avevamo appuntamento lì, ma lui naturalmente non era puntuale. Più in su nel buio erano ville e campi. Si sentivano i grilli e le rane. Io non riu­scivo più a ritrovare l’ardore di quell’aspettativa che m’aveva portato fin lì. Adesso, girando avanti e indietro, sotto a quelle scuole elementari, da so­lo, con in mano un pigiama, una federa e un giornale illustrato, mi trovavo fuori posto e imba­razzato.
Stavo lì aspettando, e tutt’a un tratto s’alzò una fiamma a lambirmi la schiena; spiccai un sal­to: il giornale illustrato che tenevo sottobraccio aveva preso fuoco; lo lasciai cadere a terra, e pri­ma ancora di spaventarmi compresi che era uno degli scherzi di Biancone. Appiattato contro il muro, teneva ancora in mano il fiammifero col quale mi s’era avvicinato di soppiatto nel buio. Non rideva. Aveva come sempre un’aria ufficiale e inappuntabile. Disse:                
- Scusate, voi dell’UNPA, avete mica visto un incendio qui attorno?
- L’incendio che ti bruciasse il sedere! - comin­ciai a imprecare, e con un colpo di tacco spensi il giornale. - Ma che razza di scherzi!
- Non è uno scherzo. È un’ispezione. l’unpa, caro mio, vita pericolosa, bisogna essere pronti a tutto. Però ho visto che fai bene la guardia. Bravo. Ciao. Io allora me ne posso andare per i fatti miei.
Gli dissi di far meno il furbo, che dovevamo an­dare su a vedere il nostro corpo di guardia e a po­sare la roba.
Ma le porte della scuola erano chiuse; a schiac­ciare il campanello si sentiva solo un lontano trillo di suoneria; a bussare rimbombavano echi di corri­doi vuoti.
- Non c’è nessuno! La bidella è in campagna! - disse una voce alle nostre spalle, allarmata forse per il nostro tambureggiare sulla porta. Ci voltam­mo e c’era un muro e lassù tra ombre di piante di fagioli l’ombra di un uomo; con l’annaffiatoio ver­sava un liquido che all’odore si riconosceva come concime di latrina. Era un ortolano che approfitta­va delle ore della notte per concimare le piante sen­za disturbare i vicini con il puzzo.
- Ma noi dobbiamo entrare! Siamo l’unpa!
- Chi?
- L’ unpa!
A una casetta, una piccola luce si spense tutt’a un tratto. Biancone mi diede una gomitata, soddi­sfatto di questa prova della nostra autorità. - Vedi cosa vuol dire? - mi disse piano, - siamo l’unpa.
- La bidella sta in campagna perché ha paura degli allarmi, - disse di lassù l’oscuro annaffiatore, - ma non è distante: se salite per quella strada, ve­drete là in cima una casa a un piano. Chiamate: «Bigìn! » e lei risponde.
- Grazie.
- Niente. E... voi che siete dell’unpa, la luce az­zurra così possiamo tenerla, o è proibito?
- Sì, sì, - rispondemmo noi con sufficienza, - è un po’ troppo chiara, ma potete tenerla...
Biancone, piano, mi disse: - Quella puzza. Glie­lo diciamo?
- Cosa?
- Che è proibito. Richiama gli aeroplani nemici.
- Ma va’, dài, - e prendemmo per la strada ac­ciottolata che saliva in campagna.
Dalle casette sparse trasparivano lievi lame di lu­ce azzurra e rumori attutiti: alzate di voci, acciotto­lio di piatti, pianto di bambini. La notte fuori era il rovescio della notte in casa: noi eravamo il passo sconosciuto che risuona per strada, il fischio della canzonetta che chi ancora non dorme cerca di se­guire mentre s’allontana e si perde.
Alla casa della bidella c’era un chiarore. Bianco­ne, per stabilire subito un rapporto autoritario, gri­dò: - Luce! Luce! - ma qui la luce restò accesa.
- Bigìn! - gridammo ancora, - Bigìn!
- Chi è?
- La chiave! Vogliamo la chiave della scuola!
- Chi siete?
- Siamo l’unpa! Luce! Ehi, quella luce! S’aperse una persiana, la luce sfolgorò senza schermi su tutto il quadrato della finestra, aprendo la vista colorata d’una cucina con i rami e gli smalti appesi ai muri, e la Bigìn disse: - E non statemi ad angosciare! - Aveva in mano un coltello che gron­dava gocce rosse, e mezzo pomodoro. Sbattè la persiana, tornò il buio e noi restammo accecati.
La Bigìn ci venne incontro sotto una bassa per­gola. C’era un graticcio di canne su cui andava po­sando i pomodori per salarli. Era una donnetta scura, cui l’alta pettinatura a chignon dava una suggestione d’imponenza. Restò lì sotto la pergola e continuò a salare i pomodori al buio, con gesti si­curi come se ci vedesse.
Con noi era sospettosa; o non aveva voglia di muoversi. - Ma siete proprio voi quelli dell’unpa?
- Certo, guardi: abbiamo anche il pigiama, - disse Biancone, come se fosse una risposta del tutto logica, e srotolò dal suo pacco un paio di calzoni a righe colorate reggendoseli davanti come se volesse dimostrare che era proprio la sua misura.
La bidella non parve trovar nulla da eccepire su quella strana presentazione di documenti. Disse so­lo: - Ma perché non c’è il maestro Belluomo?
Belluomo era un giovanotto, maestro elementa­re, che sovraintendeva appunto a questa storia dei turni di guardia.
- Perché ci siamo noi. Noi ci ha mandati lui. Finalmente la bidella lasciò i pomodori e s’asciu­gò le mani nel grembiule. Noi le dicemmo che non si disturbasse, che ci bastava avere le chiavi; mac­ché, voleva venire a mostrarci tutto lei, perché noi non sapevamo. - Avete una lampadina?
- No. Ci vediamo al buio, noi dell’unpa.
- Fa lo stesso. L’ho io, - e dalle tasche del suo gran grembiule tirò fuori una lampadinetta a pila, di latta, e ne proiettò un getto di luce che prese a muovere davanti ai suoi piedi come la punta d’un bastone, prima di fare un passo.
Così andavamo per quell’acciottolata discesa, tra muretti d’orti e di vigne, noi due dietro quella lenta bidella.
- Non me l’avevi detto, - feci a Biancone, - che mi portavi a passare la notte in campagna.
Biancone, senza dir nulla, sparì.
La bidella girò intorno la lampadina. - Dov’è andato, l’altro?
- E che ne so?
Saltò giù da un muretto tutt’a un tratto, Bianco­ne, quasi addosso alla bidella. Aveva due grappoli d’uva in mano. - Te’, mangia, - disse, gettando­mene uno.
- Belle cose! - disse la bidella. - Se vi vede il pa­drone vi spara!
Ecco che eravamo i notturni ladri di frutta, quel­li cui mio padre minacciava sempre di sparare con lo schioppo caricato a sale e cui la mia fantasia di bambino legalitario cercava invano di dare un vol­to. Ecco che la sregolatezza della notte mi si ripre­sentava con quella remota immagine degli anni in­fantili.
- Belle cose! - diceva la bidella.
- To’! Un pollaio! - osservava Biancone, rivolto a me. - Eh, che ne dici?
Nel cielo senza luna a malapena si distinguevano le soffici ombre dei pipistrelli. Intorno alla lampadi­na della bidella svolazzavano brune farfalle nottur­ne. Un rospo che attraversava la strada restò abba­gliato. - Ehi, attenta che lo schiaccia! - Macché, le sgusciò tra i piedi.
Giungemmo a un punto dove la campagna finiva e s’indovinava in basso la discesa dei tetti. «Ora in­forca una scopa e vola sulla città», pensai. Ma la bi­della ci conduceva già verso la porta della scuola, e apriva.
Senza accendere la luce, ci guidò per i corridoi e le scale. Al chiarore della lampadina sfilavano le porte delle aule, i cartelloni didattici appesi ai muri. La bi­della si guardava intorno con aria d’apprensione, come timorosa di lasciare in nostra balìa quegli am­bienti e oggetti la cui pulizia e il cui ordine le costa­vano tanta fatica.
Ci fece salire molte scale e ci aperse il nostro allog­giamento, poi sparì. Mentre noi prendevamo posses­so della stanza, la sentivamo sciabattare e brontolare per i corridoi, ora a un piano ora a un altro. - Che cosa sta facendo? Chiude tutto a chiave? O vorrà re­stare tutta la notte anche lei a fare la guardia?
Tutt’a un tratto, giù a pianterreno il portone ge­mette sui cardini e la serratura scattò.
- Se n’è andata?
- E la chiave non ce l’ha lasciata? Ci ha chiusi dentro! Strega!
Andammo a vedere le finestre del pianterreno, ma quelle senza inferriate erano alte da terra, non tanto che non si potesse saltar giù, ma abbastanza perché poi non si potesse risalire.
Ci mettemmo al telefono per cercare quel Belluomo che doveva anche lui avere la chiave. A casa sua svegliammo la madre ma lui non c’era; alle altre scuole, dove dovevano trovarsi dei mo­bilitati come noi, nessuno rispondeva; alla Gil, al Fascio, niente: svegliammo o disturbammo mezza città e finimmo poi per trovarlo per caso in un caffè, dove volevamo chiedere che ci facessero scommettere per telefono sulle partite a boccette.
- Ah, sì, vengo subito, - fece quello sciagu­rato.
Aspettandolo, facemmo un giro per la scuola, nelle aule, in palestra: ma non trovammo nulla d’interessante, e non potevamo accendere le luci, perché mancavano quasi dappertutto le scherma­ture alle finestre. Tornammo a sdraiarci nelle no­stre brandine, a leggere e a fumare.
Quel giornale illustrato che Biancone m’aveva mezzo incendiato era pieno di fotografie di città dell’Inghilterra viste dall’aereo, con le bombe che ci cadevano sopra a grappoli. Noi non sapevamo cosa voleva dire e sfogliavamo le pagine distratti. Poi c’era raccontata tutta la storia di re Carol di Romania perché in quei giorni c’era stato un col­po di Stato e avevano cambiato re. L’articolo era divertente, soprattutto per noi che non eravamo abituati a leggere di intrighi di corte e di politica nei giornali. Lo lessi forte a Biancone. C’era la storia della Lupescu, che noi commentammo con risa ed esclamazioni eccitate, non tanto per la sto­ria in sé, quanto per quel nome: Lupescu, così morbidamente ferino e pieno di ombre.
- La Lupescu! La Lupescu! - gridavamo saltan­do sulle brande.
- La Lupescu! - gridavo per i corridoi echeggianti e affacciandomi alle finestre, guardando il buio manto della notte nel quale ancora non ero riuscito ad avvolgermi.
Biancone aveva trovato due maschere antigas. - Queste sono per noi! - Subito cercammo di calzar­cele in capo. Respirare era difficile, l’interno delle maschere aveva uno sgradevole odore di caucciù e di magazzino, ma erano oggetti a noi non del tutto inconsueti, perché fin da ragazzi, a scuola, la prati­cità della maschera antigas e la facilità a difendersi da eventuali, anzi, probabili attacchi di gas asfis­sianti ci erano state inculcate come articoli di fede. Così, con le teste trasformate in quelle di enormi formiche viste al microscopio, ci esprimevamo in muggiti inarticolati e giravamo semiciechi per gli androni della scuola. Trovammo anche degli elmet­ti, di quelli vecchi, della guerra del ‘15, delle accet­te, e delle lampadine a torcia schermate d’azzurro. Ora la nostra attrezzatura di «unpisti» era perfet­ta; ci armammo di tutto punto e sfilammo per i corridoi in parata, al canto d’una marcia: - Un-pà! Un-pà! - che però attraverso le maschere antigas suonava come un confuso: - Uhà! Uhà!
- U - e - u! - muggì Biancone avvolgendosi nel tendone d’una finestra con un movimento sinuoso.
- Uh! Uh! - gli risposi io, alzando l’accetta co­me in un grido di guerra.
Biancone fece segno di no. - U-e-u!- scandì ancora, sottolineando l’ancheggiare lascivo.
- Ah! - compresi con entusiasmo. - Lupescu! Lupescu! - e cominciammo a rappresentare le sce­ne d’una versione antigas della vita di re Carol e della sua amante.
Suonò il campanello. Era Belluomo. Ci facem­mo segno l’un l’altro di star zitti. Senza far rumore scendemmo nelle aule a pianterreno. Belluomo suonava ancora, bussava. Le finestre del pianterre­no, da cui prima avevamo studiato il modo di usci­re, le avevamo lasciate aperte. Ci affacciammo a due finestre diverse, con la maschera antigas, l’el­metto, i guantoni contro l’iprite, Biancone con in mano un’accetta, io col cannello d’una pompa. Belluomo era un giovane basso di statura, biondo, striminzito in una divisa di capomanipolo della Gil con sahariana e stivaloni. Stanco di suonare, non vedendo segno di vita né luci accese, fece per an­darsene. Biancone con l’accetta battè tre colpi. Bel­luomo si voltò verso quella finestra, vide una sago­ma affacciata. - Ehi! - disse. - Sei tu, Biancone? - Restammo zitti. Accese la sua lampadina a torcia e la puntò verso il davanzale. - Oh! - Aveva illumi­nato la maschera antigas e l’accetta. - Ehi, cosa hai lì? Sei matto? - In quella sentì uno scroscio d’ac­qua. Da un’altra finestra scendeva un getto che si spandeva sul marciapiedi. Ero io che avevo collega­to la pompa a un rubinetto.
Passava gente per strada e si fermò vedendo quell’armeggio. Belluomo aveva subito voltato il suo riflettore verso la mia finestra. Fece in tempo a vedere la mia maschera affacciarsi, le mie mani in­guantate ritirare la pompa e scomparire.
Ridiresse il fascio di luce sulla finestra di prima, ma non c’era più nessuno. I passanti gli erano ve­nuti intorno. - Cosa c’è? Cosa c’è? I gas? I gas? - A lui seccava dire che doveva essere uno scherzo, gli pareva di perderci d’autorità; e poi non capiva nemmeno tanto bene; era un tipo pignolo, senza senso d’umorismo.
- Là! Lassù! - disse un passante, e indicò una fi­nestra al terzo piano. Aveva visto apparire uno di quei muti fantasmi antigas. Belluomo cercò di rag­giungerlo con la luce della torcia elettrica. Scom­parve. - Ehi! Cretini! Scendete! - Al quarto piano ne apparve un altro. - Ma che c’è? - chiedevano i passanti, - ci sono i gas nelle scuole? - E Belluo­mo: - Ma no, non è niente... - Noi continuavamo ad apparire e sparire da quelle finestre. - Ci sono le manovre? - chiedeva la gente. - Niente, niente; sgombrare, sgombrare, - e li mandò via. Ci erava­mo divertiti abbastanza e smettemmo.
Questo Belluomo non aveva poca né punta auto­rità. Era un buon ragazzo, bisogna dire, o comun­que non aveva abbastanza memoria e vivacità di sentimenti per essere vendicativo. - Oh, ma cos’a­vete fatto, ma siete scemi, ma è proprio una cosa da scemi, - cominciava a inveire con la sua cantile­na lagnosa, con i suoi stracchi insulti, ma già si ca­piva che quel po’ di animazione che c’era in lui s’andava velocemente smontando, perché nella sua testa tutto tendeva a minimizzarsi e ad appiattirsi. Quel nostro spettacolare dileggio della sua autorità e dei nostri doveri era completamente sprecato per lui: ci considerava con l’accento di fastidio consuetudinario del maestro che non sa tenere la discipli­na. Quindi, dopo un po’ di lamentosi rimproveri, passò a farci le consegne del materiale, che già del resto avevamo collaudato per conto nostro, e a spie­garci i nostri compiti. Ci condusse nelle soffitte, ci mostrò le casse di sabbia da spargere per neutraliz­zare gli spezzoni incendiari.
Si era molto rinfrancato e pareva tornato consa­pevole della sua autorità. Ci consegnò la chiave, raccomandandoci di non lasciare il palazzo incusto­dito per nessuna ragione.
- Signorsì, signorsì, sarà fatto... Adesso usciamo e andiamo insieme a donne, - gli disse Biancone, con la sua aria inappuntabile.
Belluomo aprì la bocca, corrugò la fronte, si strinse nelle spalle e se n’andò brontolando. Era tornato cupo e infelice.
Uscimmo di lì a poco. Era passata mezzanotte. Continuava quel tiepido buio senza stelle e senza vento. Nelle vie non passava quasi nessuno. In piaz­za, sotto il semaforo occhieggiante c’era l’ombra di un uomo bassotto, col puntino della sigaretta acce­sa. Biancone lo riconobbe dalla posa, a mani in ta­sca e gambe larghe. Era un amico suo, Palladiani, un gran nottambulo. Biancone fischiò un motivo di canzone che doveva avere un significato speciale per loro; l’altro prese a canterellare il seguito come in un improvviso scoppio d’allegria. Ci avvicinammo. Biancone voleva scroccargli una sigaretta, ma Pal­ladiani disse di non averne e riuscì anzi a scroccarne una a Biancone. Alla luce del cerino mi apparve il suo pallido viso di giovanotto invecchiato.
Disse che aspettava una certa Ketty, a Biancone ben nota, che era andata a una festa in una villa, e ora doveva essere di ritorno. - A meno che non si fermi là, - disse ridendo improvvisamente e ac­cennando a un motivetto di fox-trot. Raccontò anche di come, vedendo una certa Lori con una certa Rosella, le avesse detto una frase allusiva che io non capii ma che Biancone mostrò di ap­prezzare moltissimo. Poi ci chiese: - E i nuovi scherzi da oscuramento li sapete? - No, - dicem­mo e lui ce li spiegò. Ne fummo entusiasti, e subi­to volevamo metterli in pratica. Ma Palladiani, preso da non so quali misteriosi impegni, ci salu­tò, e s’allontanò canterellando.
Gli scherzi da oscuramento erano, per esempio, questo: camminavamo in due molto in fretta, con le sigarette accese; vedevamo avvicinarsi sullo stesso marciapiede un passante isolato che veniva in direzione contraria; allora, continuando a cam­minare fianco a fianco alzavamo uno la destra e l’altro la sinistra, sporgendo la sigaretta accesa al­l’altezza delle nostre teste; il passante vedeva i due puntini delle sigarette discosti e credeva di poter passare in mezzo, invece si trovava tutt’a un trat­to la via sbarrata da due persone e restava lì come un citrullo. Poi si poteva fare anche l’inverso: camminare discosti, ai due margini del marciapie­de e tenere invece le sigarette vicine, in mezzo a noi; il passante credendo che camminassimo nel bel mezzo del marciapiede si faceva da una parte, così andava a urtare contro uno di noi; balbetta­va: - Oh, scusi! - e si faceva prontamente dalla parte opposta, dove si trovava naso a naso col se­condo.
In questi giochi passammo alcuni piacevoli quar­ti d’ora, finché trovammo passanti adatti. Alcuni, disorientati, chiedevano scusa, altri masticavano improperi o accennavano ad attaccar lite, ma noi scantonavamo in fretta. Io mi turbavo ogni volta, immaginando in ciascun passante che avanzava un misterioso personaggio notturno, tipi da coltello, loschi ubriachi. Erano invece o professionisti che soffrivano d’insonnia e portavano a spasso cani da caccia, o scialbi giocatori d’azzardo che rincasava­no dalla partita, o operai del turno di notte del gasometro. Per poco non facevamo lo scherzo a due carabinieri, che ci guardarono brutto. - È tutto in ordine in giro? - disse loro Biancone, sfrontato, mentre io lo tiravo per una manica.
- Che? Che volete? - fecero i carabinieri.
- Siamo dell’unpa, di servizio, - fece loro Bian­cone; - dicevo: è tutto in ordine?
- Eh? Sì, sì, in ordine -. Salutarono non ben convinti e passarono via.
E donne sole, anche, avremmo voluto trovare, e non ce n’erano, tranne una matura prostituta con cui il gioco non riuscì perché tendeva non a evitare lo scontro ma a provocarlo. Accendemmo un ceri­no per esaminarla e subito spegnemmo. Dopo una brevissima intervista la lasciammo perdere.
Più che per le vie larghe questi scherzi erano buoni per le piccole strade strette e buie, a gradini, che scendono dalla città vecchia. Ma là il gioco era già l’ombra, il disegno delle arcate e delle ringhiere, la stretta delle case sconosciute, la notte stessa, e noi smettemmo di armeggiare con le nostre siga­rette.
Già dal colloquio con Palladiani io avevo capito che Biancone non era poi quel conoscitore della vi­ta notturna che io m’aspettavo. Aveva sempre un po’ troppa fretta di dire: - Sì... già... no, proprio lei! - a ogni nome che Palladiani citava, preoccu­pato di mostrarsi al corrente; e certo all’ingrosso lo era, ma doveva, la sua, essere un’infarinatura su­perficiale e lacunosa, in confronto alla perfetta pa­dronanza che Palladiani dimostrava. Anzi, io ave­vo guardato Palladiani allontanarsi con un po’ di rimpianto, al pensiero che lui e lui solo, e non Biancone, potesse introdurmi nel cuore di quel mondo. Ora, scrutavo ogni mossa di Biancone con occhio critico, attendendo di riconfermarmi nella primitiva fiducia, o di perderla del tutto.
Certo, io provavo per questa nostra passeggiata notturna un senso di delusione. O comunque, un’impressione opposta a quella attesa. Giravamo in una povera stretta via; non passava nessuno; nelle case era spenta ogni luce; eppure ci si sentiva in mezzo a tanti. Le finestre seminate in disordine per le oscure pareti erano aperte o socchiuse, e da ognuna usciva un sommesso respiro e talora un cu­po russare; e il ticchettio delle sveglie; e il gocciolio dei lavandini. Eravamo in strada e i rumori erano rumori di casa, di cento case insieme; e perfino l’a­ria senza vento aveva quella pesantezza che il son­no umano fa gravare nelle stanze.
La presenza di estranei addormentati suscita negli animi onesti un naturale rispetto, e noi nostro malgrado ne eravamo intimiditi; e quell’accordo rotto e irregolare d’ansiti, e il ticchettio delle sve­glie, e la povertà delle case, davano l’impressione d’un riposo precario, affaticato; e i segni della guerra che intorno si vedevano: luci azzurre, pali per puntellare i muri, mucchi di «sacchi a terra», le frecce che indicavano i rifugi, e perfino la nostra stessa presenza parevano minacce a quel dormire di gente stanca. Così, noi avevamo abbassato la voce, avevamo senz’accorgercene dimesso la nostra men­talità di schiamazzatori, di ribelli alla regola, di violenti contro ogni rispetto umano. Il sentimento che ora ci dominava era una sorta di complicità con la gente sconosciuta che dormiva dietro quelle mura, l’impressione di scoprire un qualche loro se­greto, e di saperlo rispettare.
La strada finiva in una scala con la ringhiera di ferro, e sotto, in un incerto chiarore lunare, era una piazza vuota, coi banchi e i cavalletti del mer­cato accatastati. E tutt’intorno, l’anfiteatro delle vecchie case gonfie di sonno e di respiro.
Da una via che scendeva nella piazza risuonò un passo e un canto: era un coro, sguaiato, fatto di voci senz’accordo né calore; e un pestare di scarpo­ni. Venne giù una squadra della milizia, gente di mezza età, uno dietro l’altro, e ancora altri in un gruppo che li raggiungeva di corsa, in camicia ne­ra, insaccati nella rozza divisa grigioverde, con gli schioppi e i tascapani sobbalzanti. Cantavano un ritornello volgare, ma con qualche esitazione e ti­midezza, come si sforzassero, ora che la notte li affrancava da ogni parvenza di disciplina, d’osten­tare la loro natura di soldati di ventura, nemici a tutti e superiori alla legge.
L’irruzione loro in quel punto portò un vento di violenza; mi s’aggricciò la pelle come a un trat­to fossi piombato nella guerra civile, una guerra il cui fuoco era da sempre durato nella cenere e di tanto in tanto levava una lingua di fuoco.
- Guarda che banda! - disse Biancone, e fermi alla ringhiera, li guardavamo allontanarsi nella piazza vuota, rintronante ai loro passi.
- Donde vengono, sì, donde vengono? Cosa c’è, su di là? - chiesi io, sicuro che uscissero da chissà quale bordello, mentre forse era una squa­dra che tornava dal suo turno in qualche inutile corpo di guardia sulla montagna, o da qualche marcia di manovra.
- Su di là? Ah, sì, ci dev’essere... - fece Bian­cone, tradendo ancora la sua limitata competenza. - Ma vieni con me, so io dove portarti!
L’apparizione dei militi aveva rotto quell’atmo­sfera di quiete che ci sovrastava: ora eravamo te­si, eccitati, con un bisogno d’azione, d’impre­visto.
Scendemmo per la scala, verso la piazza.
- Dove andiamo? - chiesi.
- Ah! Dalla Lupescu! - fece lui.
- La Lupescu! - gridai, e mi feci da parte per­ché stava salendo la scala un uomo curvo, con la testa grigia quasi rapata, in maniche di camicia, che saliva appoggiandosi con una grossa mano nodosa alla ringhiera. L’uomo, senza guardarci in faccia, continuando a salire, disse, con una forte voce baritonale: - Lavoratori...
Biancone stava già brontolando una risposta, - che c’era poco da sfottere, che lavoravamo anche noi, a modo nostro, - quando il vecchio, che intan­to era arrivato in cima alla scala, soggiunse, sempre forte, ma in un tono più basso: - ... unitevi!
Io e Biancone ci fermammo.
- Hai sentito?
- Sì...
- Sarà un comunista?
- «Lavoratori, unitevi!» È un comunista, hai sentito?
- Ma non pareva mica un ubriaco?
- Macché: camminava su dritto. È un comuni­sta! Ce n’è pieno, nella città vecchia!
- Andiamo a parlargli!
- Dài! Raggiungiamolo!
Ci voltammo e prendemmo di corsa su per la scala.
- Ma cosa gli diciamo?
- Prima gli facciamo capire che con noi può par­lare... Poi gli chiediamo che ci spieghi quella frase...
Ma l’uomo non c’era più; di là si dipartivano di­versi vicoli; corremmo dall’uno all’altro, a caso; era scomparso; non si capiva dove potesse essersi cacciato, in così poco tempo; ma non lo ritrovam­mo più.
Eravamo pieni di curiosità e di smania: smania di strappare i freni, di fare cose nuove e proibite. Ma l’immagine in cui più facilmente s’esprimeva quest’impreciso desiderio era quella del sesso, e co­sì ci dirigemmo verso la casa d’una certa Meri-meri.
Stava, questa Meri-meri, in una bassa casa, con al pianterreno stalle di carrettieri, posta al margine tra il fitto ammucchio di case della città vecchia e gli orti della campagna. La strada acciottolata usci­va da un archivolto buio, e dopo la casa di Meri-meri continuava fiancheggiata da una rete metalli­ca, oltre la quale una valanga d’immondizie frana­va per un incolto pendio.
Con Biancone mi feci sotto quella casa, a una cui finestra trapelava luce dietro la spessa tendina; Biancone fischiò due volte, poi chiamò: - Meri-meri!
La tendina si sollevò e alla finestra apparve il bianco d’una donna, un viso lungo, pareva, circon­dato dal nero dei capelli, e le spalle, le braccia.
- Che c’è? Chi siete?
- La Lupescu! - dissi piano a Biancone. - Di’, è la Lupescu, quella lì!
Biancone cercava di mettersi nella luce d’un fio­co lampione. - Sono io, mi riconosci? Ma sì, che sono venuto l’altra settimana! Sono qui con un amico. Ci fai salire?
- No. Non posso -. Riabbassò la tendina. Biancone fischiò ancora, chiamò. - Meri-meri! O Meri-meri! - Prese a tempestare di pugni l’uscio.
- Deve aprire, perdìo! Perché non può?
La donna s’affacciò ancora. Adesso aveva una sigaretta in bocca. - Non sono sola. Tornate tra un’ora -. Restammo un po’ in ascolto, finché sentimmo che veramente nella sua stanza ci doveva es­sere un uomo.
Riprendemmo a girare. Ora eravamo in una strada tra i quartieri vecchi e i nuovi, dove le case antiche e anguste avevano una dubbia verniciatura cittadina e moderna.
- Questa è una via buona, - diceva Biancone. Un’ombra ci venne incontro: era un ometto calvo, in sandali, vestito d’un paio di pantaloni e d’una canottiera, nonostante l’ora non calda, e con una stretta sciarpa scura legata al collo.
- Di’, giovanotti, - disse sottovoce, e sbarrava due tondi occhi circondati da folte sopracciglia ne­re, - volete far l’amore? Volete andare da Pierina? Eh? Se volete vi do io l’indirizzo...
- No, no, - dicemmo, - abbiamo già un appun­tamento.
- È bella la Pierina, sapete. Eh? - ci soffiava in viso l’ometto, con quegli occhi spiritati.
Ma noi avevamo visto un altro personaggio avanzare in mezzo alla strada, una ragazza zoppa, non bella, con una maglia di quelle dette « niki » e i capelli tagliati corti. S’era fermata a una qualche distanza da noi. Scansammo l’ometto calvo e ci av­vicinammo alla ragazza. Lei avanzò una mano con un pezzo di carta. - Chi è il signor Biancone? - chiese con un filo di voce. Biancone prese il bigliet­to. Alla luce d’un lampione leggemmo scritto in una chiara calligrafia un po’ scolastica: «Il piacer dell’amor lo sai tu? - Vito Palladiani».
Il significato del messaggio e il modo in cui ci veniva recapitato erano misteriosi, ma lo stile di Palladiani era inconfondibile.
- Dov’è Palladiani? - chiedemmo alla ragazza.
Sorrise storto. - Venite con me.
Entrò in una buia porta e salimmo per una stret­ta ripida scala senza pianerottoli. Bussò a un uscio con un segno convenuto. L’uscio s’aperse. C’era una stanza dalla tappezzeria a fiori, una vecchia truccata, seduta in una poltrona e un grammofono a tromba in un angolo. La ragazza zoppa aperse una porta e passammo in un’altra stanza, piena questa di gente e di fumo. Stavano attorno a un ta­volo dove si giocava a carte. Nessuno si voltò verso di noi. La stanza era tutta chiusa, e il fumo così spesso che quasi non ci si vedeva, e il caldo tale che tutti sudavano. Nella cerchia di persone in piedi che guardavano gli altri giocare c’erano anche delle donne, non belle né giovani; una era in reggipetto e sottana. La ragazza zoppa intanto ci aveva fatto entrare in una specie di salotto giapponese.
- Ma dov’è Palladiani? - chiedemmo.
- Ora viene, - disse lei, e ci lasciò lì. Studiavamo il luogo, quando entrò Palladiani, in gran fretta, con tra le braccia un mucchio di lenzuo­la spiegazzate. - Carissimi, carissimi, come va? - disse tutto allegro come sempre. Era in maniche di camicia e portava una cravatta a farfalla, a colori vivaci, che ero certo non avesse quando l’avevamo incontrato per la via.
- L’avete vista Dolores? Come? Non conoscete Dolores? Ah, ah! - e andò via con quella bracciata di lenzuola.
- Ma che razza di mestiere fa, questo Palladia­ni? - chiesi a Biancone, - si può sapere?
Biancone si strinse nelle spalle. Entrò una donna, un tipo ancora ben portante, con un viso sfatto e incipriato. - Ah, è lei Dolores? - chiese Biancone.
- Ma va’, - rispose quella, e uscì da un’altra porta.
- E be’, aspettiamo.
Dopo poco rientrò Palladiani. Si sedette tra noi sul divano, ci offerse da fumare, ci battè una mano sulle ginocchia. - Ah, ah, carissimi, Dolores, vi di­vertirete.
- Ma quanto costa? - chiese Biancone, senza la­sciarsi influenzare da quell’entusiasmo.
- Mah, quanto avete dato alla signora, entran­do? Sì, nell’ingresso... Come, niente? Qui si dà pri­ma, alla signora... - e si stringeva nelle spalle e apriva le braccia con aria di dire: «Così sono le usanze, che volete fare? »
- Ma quanto?
Palladiani, storcendo un po’ la bocca, disse una cifra. - In una busta, vi consiglio, è più fine, sì...
- Allora, - fece Biancone, - andiamo subito, an­diamo subito a pagare...
- Ma no, - disse Palladiani, - ora non importa, pagherete dopo...
- Eh, meglio subito, - disse Biancone, e già mi faceva attraversare la stanza dei giocatori e poi quell’anticamera e mi spingeva nelle scale.
- È matto! - diceva, mentre correvamo giù.
- Via di qui, presto! Con Meri-meri paghiamo la metà.
Per la via trovammo quell’ometto in canottiera.
- Eh, siete stati da Pierina? - ci chiese. - Gliel’avete detto: inginocchiati?
- No, non ci siamo stati, - rispondemmo senza fermarci.
Ma lui trotterellava a ritroso, continuando a starci davanti, con quei tondi occhi luccicanti: - In­ginocchiati! Le si dice: Inginocchiati! E lei, la Pie­rina s’inginocchia...
Tornammo da Meri-meri. Questa volta, ai nostri richiami scese e socchiuse l’uscio. La vidi bene: era alta, magra ed equina, con seni oblunghi; non guardava in faccia, teneva fissi davanti a sé gli oc­chi socchiusi sotto un ciuffo crespo di capelli.
- Dài, facci entrare, - le diceva Biancone.
- No, è tardi, ora dormo.
- Ma di’, siamo stati ad aspettarti tutta la notte.
- E be’, adesso sono stanca.
- Stiamo solo cinque minuti, Meri-meri.
- No, siete in due, non vi faccio salire, in due.
- Ma cinque minuti tutti e due...
- Allora... - feci io, - io aspetto... Eh? Io aspet­to fuori...
- Be’, - fece Biancone, - salgo io e poi sale lui, va bene? - E a me: - Aspettami un quarto d’ora e scendo, poi vai tu. - La spinse in casa ed entrò.
Io presi la strada verso il mare. Traversai la cit­tà. Per la via principale passava una colonna d’au­tocarri militari. Proprio in quel momento fece so­sta. Alle luci lattiginose dei fanali si vedevano i mi­litari scendere, sgranchirsi braccia e gambe, guar­dare intorno con occhi assonnati la città buia e sco­nosciuta.
Subito venne l’ordine di ripartire. I conducenti risalirono al volante, gli altri s’issarono e scompar­vero nel buio dei convogli. La colonna, raspando nei suoi motori, seminvisibile agli occhi accecati dall’alternarsi di luce e buio, passò e scomparve co­me non fosse mai esistita.
Arrivai al porto. Il mare non luccicava, lo si sen­tiva solo allo sciacquio contro la viscida murata del molo, e all’antico odore. Un’onda lenta lavorava gli scogli. Davanti alla prigione camminavano le guardie carcerarie. Mi sedetti sul molo, in un punto riparato dall’aria. Davanti a me c’era la città con le sue incerte luci. Ero assonnato e scontento. La not­te mi respingeva. E non m’attendevo nulla dal gior­no. Cosa dovevo fare? Avrei voluto smarrirmi nel­la notte, votarmi anima e corpo a lei, al suo buio, alla sua rivolta, ma capivo che quel che in lei at­traeva era solo una sorda, disperata negazione del giorno. Ora nemmeno la Lupescu del vicolo m’atti­rava più: era una donna pelosa e ossuta, e casa sua puzzava. Avrei voluto che da quelle case, da quei tetti, da quella muta prigione, qualcosa che fer­mentava nella notte s’alzasse, si svegliasse, aprendo un giorno diverso. «Solo i grandi giorni, - pensai, - possono avere delle grandi notti».
Una squadra di pescatori veniva alle barche lega­te al molo, portando remi e reti. Parlavano a voce alta, in quel silenzio. Per l’alba dovevano essere al largo. Armarono le barche, partirono, scomparve­ro nell’acqua buia, e ancora si sentivano le loro vo­ci in mezzo al mare.
Il senso di quel risveglio al buio, di quella squallida partenza, di quel remare nell’aria fredda di prima dell’alba, mi raddoppiò la pesantezza degli occhi e i brividi. Allargai le braccia in un tremante sbadiglio. E in quel momento, come uscisse dal mio petto, s’alzò il boato della sirena. Era l’al­larme.
Mi ricordai allora della scuola che avevamo la­sciato incustodita e corsi verso la città. Erano tem­pi in cui da noi non si sapeva ancora cosa fosse il terrore; passando per le vie si vedevano appena i segni del brusco, generale risveglio: voci nelle case, luci schermate accendersi e subito rispegnersi, e persone mezzovestite sulle soglie dei rifugi che guardavano per aria.
Giunsi alla scuola, - avevo io la chiave, - entrai, feci un giro per le aule aprendo i vetri come m’ave­vano insegnato. Spalancando una finestra sentii il ronzio: figlio e re di quell’assurdo mondo notturno l’aeroplano carico di bombe traversava il cielo. Io cercavo di raggiungerlo con lo sguardo, e più anco­ra cercavo d’immaginarmi l’uomo lassù seduto nel­la sua carlinga, in mezzo al vuoto, che decifrava la rotta. Passò; il cielo ritornò deserto e silenzioso. Tornai nella nostra stanza e mi sedetti sulla bran­da. Sfogliando il giornale, mi passarono sotto gli occhi le città inglesi sventrate, illuminate dai proiettili traccianti. Mi spogliai e mi coricai. Suo­nava la sirena; l’allarme era finito.
Biancone arrivò poco dopo. Era fresco, ben pet­tinato, ciarliero, come cominciasse allora la serata. Mi disse di come l’allarme gli aveva guastato l’a­more sul più bello, e descrisse scene improbabili di donne mezzo nude che scappavano in rifugio. Lui seduto sulla branda, io coricato, continuammo a discorrere per un pezzo, fumando. Alla fine si cori­cò anche lui; ci augurammo buon giorno e sogni felici; era l’alba.
Io però adesso non riuscivo a dormire e mi rigi­ravo nella branda. A quell’ora mio padre s’era già alzato, s’era affibbiato ansando i gambali, e infila­to la cacciatora gonfia d’arnesi. Mi pareva di sen­tirlo muovere per la casa ancora addormentata e buia, svegliare il cane, chetare i suoi latrati, e par­largli e rispondergli. Scaldava la colazione al gas, per il cane e per sé; mangiavano insieme, nella fredda cucina; poi si caricava una cesta a tracolla, un’altra in mano, e usciva, a lunghi passi, la bianca barba caprina avvolta nella sciarpa. Per le mulat­tiere della campagna il suo passo pesante, accom­pagnato dal sonaglio del cane, e il suo continuo tossire e scatarrare erano come il segno dell’ora, e chi abitava lungo la sua strada sentendolo mezzo nel sonno capiva che era tempo di levarsi. Giunto col primo sole al suo podere, dava la sveglia ai con­tadini, e prima che fossero sul lavoro aveva già gi­rato fascia per fascia e visto il lavoro fatto e da fa­re e cominciato a gridare e imprecare riempiendo della sua voce la vallata. Più s’inoltrava nella sua vecchiaia, più la sua polemica col mondo si concre­tava in quell’alzarsi presto, in quell’essere il primo in piedi in tutta la campagna, in quella perpetua accusa verso tutti: figli, amici, nemici, d’essere un branco d’inutili infingardi. E forse i soli momenti suoi felici erano questi dell’alba, quando passava col suo cane per le note strade, liberandosi i bron­chi del catarro che l’opprimeva la notte, e guardan­do pian piano dal grigio indistinto nascere i colori nei filari delle vigne, tra i rami degli olivi, e ricono­scendo il fischio degli uccelli mattinieri uno per uno.
Così seguendo col pensiero i passi di mio padre per la campagna, m’addormentai; e lui non seppe mai d’avermi avuto tanto vicino.

Produzione, Italo Cavino, da L'entrata in guerra
Copertina, free copy da internet, Italo Calvino

1 commento:

  1. Italo Calvino (Santiago de Las Vegas 1923 – Siena 1985) in questo racconto tratto da L’entrata in guerra (1954) racconta in prima persona l’esperienza di un paio di giovani, arruolati nell’UNPA, che si cimentano con i fatti della guerra. Nella drammaticità del momento, centrato con quel piglio realista e a un tempo ironico proprio della prima scrittura di Calvino, il narratore presenta al lettore uno spaccato della società italiana nel pieno della Seconda guerra mondiale.

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