sabato 10 settembre 2011

Erwin de Greef, Capitolo 20.


Erwin de Greef

Capitolo 20.


Un anno fa, corre la notte ubriaca con il vino bianco nel bicchiere trasparente e giallo dentro il mio stomaco messo a dura prova. Ecco che mi ritrovo per le strade della mia città. È una notte umida con il cielo nero di tristi nuvole, memorie calpestate, marciapiedi sgangherati in mezzo a pochi altri vagabondi fasciati nelle loro giacche. Fa freddo ed è bello guardare il gioco delle luci dei lampioni sulle pozzanghere e l’asfalto bagnato e grigio.
Al locale vicino a casa incontro Lele con i suoi occhi gin & tonica. È pensieroso, già cappa o, mi dice: “Mia moglie è al nono mese a casa da sola mentre io sto qui a bere e mi sento proprio una merda”. Non so che rispondergli e siedo accanto a lui a tenergli compagnia, a testimoniargli il mio amore fraterno, ad ascoltare il ghiaccio nel suo bicchiere di vetro spesso che si riempie e si svuota di continuo. Sto in silenzio anche perché non so che cavolo raccontargli. Bevo, fumo e tiro dritto come un treno.
Sul tavolo c’è un pollo arrosto nel cartoccio con la pelle ben rosolata e invitante. Le patatine fritte sono dentro una vaschetta d’alluminio. Sono ancora fumanti. Beh, la fame morde lo stomaco con i succhi gastrici che vanno su e giù all’impazzata, così senza spiccicare una sola parola – una che sia una – comincio a staccare pezzi di carne, che saziano la mia fame piena di bottiglie di bianco. Mando giù anche le patatine a gruppetti di tre e quattro e la pelle rosolata arrotolata con l’intingolo che gocciola sul tavolo. Non ne capisco neppure il gusto e c’è Lele che mi guarda-non-mi-guarda. Tanto sembra che a lui non freghi un cazzo!
È davvero strana questa notte, tutto mi passa liscio: il pollo arrosto e le patatine e un bicchiere di bianco offerti dai ragazzi, un tiro alla canna di soppiatto – un purino – e la tromba di Charlie Parker (“Summertime”, così struggente e profonda) che suona dentro il locale e mi arriva ipnotica come un incantatore di serpenti che mi fa stare tranquillo. In qualche modo mi mettono in pace con l’universo intero. Va tutto bene mentre negli altri tavoli e all’angolo del locale, fuori, all’aperto, i ragazzi rollano le cartine e il vino gira veloce, con le parole che muoiono spezzate sul crinale della nostra solitudine.
Mi raggiunge una ragazza con lunghe ciglia tristi, carnagione bianca, capelli neri, occhi neri. È lì per me. È la mia Maria Maddalena – il nome, quello di battesimo, lasciamolo stare, è meglio evitare – è il corpo sacrificale di questa notte amica, stretta tra le braccia dentro il suo mistero. Prende posto intorno al tavolino d’alluminio, la sedia traforata, accanto a me e Lele. Le ordino un bicchiere di bianco secco, poi, va bene, stocchiamo l’intera bottiglia, mentre Lele in silenzio continua a bere i suoi gin tonic. Su di noi c’è solo il tintinnio del ghiaccio nel bicchiere (sic!).
Sono in questa città, per una notte ancora, in attesa di partire, con le valigie buttate per terra nella mia stanza solitaria, piena di me. Ho ficcato dentro tutto quello che ci stava e per il resto si vedrà come fare. Ho messo anche qualche libro: un po’ di Buk, Fante, Fitzgerald ed Hem. I miei soliti libri. Ho infilato anche un taccuino e un paio di penne. Roba a buon mercato perché per scrivere al limite è buona anche la carta igienica. Quel che conta è davvero altro.
Sono in questo locale con la mia Maria Maddalena. Ma fa male stare accanto a Lele, troppo dentro i suoi casini: il matrimonio sbagliato, il figlio non voluto, la libertà buttata al vento. Sembra proprio che ogni cosa si sia piazzata nel posto sbagliato. Lele non fa una grinza, beve, fuma e tiene la testa dentro i suoi pensieri. Non c’è male come compagnia e la mia ragazza, senza dare un fiato, mi guarda come per dirmi: “Facciamoci un giro”. Come darle torto, eh?
Ci alziamo, io e la mia ragazza, che mi tiene stretto per mano per andare in un altro locale. Salutiamo Lele che ci restituisce un sorriso dolce. Facciamo strada verso il centro. Prima prendiamo qualcosa in un locale e poi ripartiamo per un altro continuando a bere, a riempire le nostre pance gonfie di dolore. Alla fine, per completare il giro, ritorniamo indietro e scopriamo che Lele non c’è più, se n’è andato lasciando i suoi occhi gin & tonica sul tavolino d’alluminio insieme a un pacchetto di sigarette vuoto e accartocciato con la scritta incomprensibile e nera come questo cielo ruvido di nuvole.
Intorno a noi, la notte rulla il fumo e macina la coca con i ragazzi ubriachi o giù di lì che urlano sul ciglio della strada. (Se continuano così, arriverà anche la polizia a rompere l’anima e mi stupisce che il proprietario non esca a rimettere a posto questi pischelli). La mia Maria Maddalena è appena a disagio. Non lo dà a vedere, insomma non lo dice, ma lo capisco dai suoi sguardi che a tratti si perdono nel vuoto. Comunque, lei parla ed io l’ascolto, il contenuto dei suoi discorsi è il solito bla bla bla di chi vuole fare colpo. Mi sta bene, tanto doveva finire così e non c’è altro da fare che assecondare ogni sensazione.
Amo questa notte con Ciro che mi ha raggiunto, mi ha abbracciato, mi ha offerto da bere e mi ha stretto tra le sue braccia. L’ho chiamato per dirgli di farci un ultimo bicchiere perché domani volerò verso altri lidi. È tempo di chiarire le nostre incomprensioni. Così adesso mi racconta dei due anni che non ci siamo incontrati, non ci siamo parlati. Devo essere sincero, almeno per una volta, io non l’ho proprio rispettata questa santa amicizia. Non rispetto mai niente e nessuno, ecco una santa verità.
Corre la memoria indietro negli anni, quando c’era Giovanna con la sua droga sempre in tasca, la bottiglia in mano, a scorazzare per le strade vuote della nostra città e, poi, in campagna a casa dei suoi, da soli, davanti al camino acceso a fumare, bere e fare l’amore per notti intere, senza un’alba a riscaldare i nostri cuori, senza la luce del giorno a rinfrancare i nostri occhi. È stata una lunga notte durata un anno e mezzo – appena un attimo – una notte per viverci addosso una storia insensata, senza ordine, senza futuro. Solo sesso e merda per le nostre vene piene d’alcool.
Mi accendo una sigaretta, i miei occhi s’infiammano di rosso e una nausea tremenda mi si attacca alla gola. Quasi sbocco tutto il vino che ho mandato giù a garganella nel pomeriggio. Con un libro in mano dietro le tendine delle finestre sullo sfondo di una città al tramonto con i suoi rumori d’auto, i clacson, il vocio delle persone per strada. Non era niente di nuovo, la solita solfa con le parole che mi scivolavano addosso senza una ragione. Era uno dei tanti romanzi comprati per darmi un tono, per vedere che cosa raccontano gli altri. Mi sa, però, che c’è molto poco da raccogliere. Non finisco di leggere un libro da troppo tempo. Forse è arrivato il momento di cambiare letture e tornare sui classici.
Fuori del locale, seduto al tavolino, mentre la mia donna parla a ruota libera, mi guardo intorno e scopro nuovi angoli di bevute, di bagordi notturni, di scopate a manetta con la prima che passava e lasciava soltanto odori e niente amore. Niente. Questo niente che mi assorda e mi ha stretto dentro fino a quando ho deciso di mollare per darmi all’avventura. Almeno quella vale la pena ma avrei voluto qualcosa di diverso. Avrei voluto dare un senso a quel girovagare dentro le mie cose senza mai trovare il centro perfetto.
La ragazza che è con me – la mia Maria Maddalena – sembra diversa dalle altre. In lei c’è qualcosa che non so definire ma che lascia una scia su di me. L’ho conosciuta al supermarket giusto stamattina. Stava tra gli scaffali a mettere ordine, a disporre la merce appena arrivata: detersivi per piatti e lavatrice, flaconi di ammorbidente. Erano belli i suoi capelli neri e ricci e i suoi occhi vivi, pieni di desiderio per me. Allora, mi sono fatto avanti buttando nel fondo della mia anima una timidezza incomprensibile. Le ho detto: “Ciao” e lei mi ha risposto “Posso aiutarti in qualche modo?”.
È lì che è nata la nostra serata, rincorrendo altre auto per le strade bagnate, in mezzo ad altra gente senza vita. Gente come noi. È lì che i nostri corpi si sono toccati per la prima volta, con le nostre labbra serrate e le lingue a incontrarsi senza sosta in mezzo ai clienti del supermarket, con il titolare a girare tra gli scaffali. Eravamo pazzi, senza il senso delle cose, ancora una volta a sfidare le regole, a spezzare la monotonia del giorno. È stato un buon inizio.
Le mie storie sono nate sempre in questo modo, una pulsione più che un sentimento. Non ho mai avuto il tempo per dare profondità alle persone, ai miei lavori, alle mie emozioni. È come una paura di non riuscire a completare i percorsi, a dare le giuste movenze alle situazioni, alle idee, a quel cicaleccio interiore che mi confonde, mi sbalza da un posto all’altro. Bello, può dire qualcuno e sarei anche d’accordo se non fosse che riguarda me.
La mancanza di una ragione profonda mi ha sfrattato dalla strada principale per farmi ritrovare in posti sempre più solitari come quella volta con il Romano a vomitare senza sosta dietro una siepe per poi finire a sirene spiegate dentro un letto d’ospedale con i camici bianchi a farmi la ramanzina e a stilare documenti da questura. La flebo attaccata al braccio con la mia faccia smunta, deperita, incartapecorita con gli occhi neri e gonfi. Era stato un esordio degno dell’attenzione dei miei che non capivano il perché, il per come e tutto il resto. Non capivano e basta tanto a metterci in coda un bel punto interrogativo.
Adesso che tutto finisce – almeno qui, finisce questo pezzo di strada – mi sembra di avere sbagliato ancora qualcosa. Andare via? Fuggire, è la parola giusta. È una fuga senza meta come in tutte le storie sballate che ci raccontano gli amici e che mai pensiamo siano le nostre. E, invece, è il contrario. Sono racconti allo specchio tra risate grasse che vogliono esorcizzare il nostro vuoto ma mai a confessarci di essere lì a quel punto del racconto per noi stessi. Sarebbero confessioni fuori posto, buone soltanto a cuocerci i funghi in inverno.
Tra qualche ora calpesterò i marciapiedi di una città diversa, estranea, con i suoi incroci da superare, i semafori da rispettare. Il rosso, mi fermo. Il verde, vado avanti per un altro po’. Poi, il resto si vede, tanto è soltanto strada, marciapiedi, buche da evitare, persone da sgomitare, fermate di tram e metro. Mi porterò dietro il carico di me stesso per replicarlo altrove. Questo io lo so già ma non è bene dirlo. Non è bene tornare sui propri passi per rifare la strada un’altra volta e correggere le storture, le fesserie fatte e dette.
Affondo gli occhi nel bicchiere di vino che sa di piscio di gatto e sgranocchio noccioline e patatine con la mia Maria Maddalena che, adesso, ha le guance rosse ed è vera, carne e ossa, con occhi tanto neri da commuovermi. Mi accarezza le mani con dita calde e sensuali. Mi bacia le dita (le mie) con labbra sottili ed eleganti (le sue). Con i suoi occhi sempre buttati su di me. Sappiamo qual è il nostro destino in questa notte umida, che ci entra nelle ossa, nel sangue, fin dentro la nostra fottuta anima.
Chissà, magari lei pensa grandi cose di me. Il ragazzo pulito e ben vestito, tutto parole forbite con gli occhialini inforcati da intellettuale che ha sempre la risposta pronta e giusta. Il ragazzo che una volta vestiva anche la cravatta intonata con la giacca e che da un po’ non la mette più. Almeno in questo l’ipocrisia è stata vinta. La cravatta è per gente seria e la giacca per chi deve incontrare un mondo che produce e dà il culo per portare un risultato utile a casa. A me bastano un paio di jeans e una maglietta pulita ma non stirata. A che serve stirare una maglietta che metti la mattina per toglierla alla sera?
Questo pezzo di racconto si potrebbe chiamare in qualunque modo, sta bene anche Capitolo 20. È una roba come tanta altra, non ha peso specifico. È un passo ancora in là fatto con un certo stupore perché non ci credo più neppure io stesso. È un passo e basta, ancora una volta senza una meta con questa Maria Maddalena che ci crede e, tra un bacio e l’altro, mi dice quanto è stata fortunata a conoscere uno come me. Me? Chi ha visto? Me o quello che vorrebbe che io sia? La domanda è come il ronzio di una zanzara che a lungo andare annoia non poco.
Intanto scivola questa notte senza gelo con le sciarpe annodate al collo, i guanti che ci fissano da lontano. In questa notte i lampioni per le strade sono vuoti fantasmi di un antico Palazzo Imperiale vicino alla Cattedrale, memorie semi distrutte di un antico lignaggio. Questa notte è anche tanto squallore di strade sporche e dimenticate, macchine a go go lungo i marciapiedi e mute di cani randagi in fila indiana. Anch’io guardo gli occhi tagliati e neri della mia Maria Maddalena che reggono il peso di tutto quest’Universo e in lei trovo conforto per me – non so se è anche amore – e insieme condividiamo il vuoto per quello che non siamo e mai saremo.  Questo, però, lei forse non lo sa ancora.
Mi cade anche la sigaretta – l’ultima e senza i soldi per comprarne delle altre – mentre Ciro mi abbraccia e sorride, ride ubriaco di birra. Canta la nostra amicizia col cappello a tre quarti, la barba incolta, il loden blu notte. Indossa gli stessi abiti di quando l’ho conosciuto anni fa in una sera uguale a questa. Il loden gli dà quell’aria da pittore o menestrello come nei racconti di Stevenson o Villon. Lui, Ciro, ha già vissuto la sua boheme e da un po’ di tempo se ne sta a guardare quello che gli passa accanto perché non mi sembra che lo viva più di tanto. Soprattutto sta a contare tutta la montagna di debiti che ha con mezzo mondo, ma lui se ne fotte. E fa bene.
Io, invece, mi sento un cane. Io lo so benissimo che sono stato un vero coglione a tirarmi indietro, a non voler capire che la storia con Giovanna era andata in quel modo e che non c’era stato niente da fare. Soprattutto, non avevo voluto capire che lui aveva fatto un passo indietro per non mettersi in mezzo, per lasciare che lei ed io ci scannassimo da soli con i nostri coltelli affilati. Ciro aveva il passo giusto mentre io pensavo soltanto a leccarmi le ferite e a fare il frignone, a piangermi addosso come lo scaccola naso che sono sempre stato e ancora sono, hum!
Ciro fa l’indifferente, mi vuole bene, s’è sempre schierato dalla mia parte ed io – quando la mia mente era più lucida e il mio cuore sereno – gli volevo bene come al fratello che non ho e che ho sempre cercato e mai avuto. Già, sì, in lui avevo visto la persona giusta. Ciro era una strada possibile, e poi – come sempre – avevo messo ogni cosa a gambe levate, senza capire, senza spiegare. Così adesso stringo i pugni dentro le tasche dei jeans per non buttarle intorno al suo collo e chiedergli perdono, ma lui sa. Lui sa proprio tutto.
Questo pomeriggio ho chiamato anche Elio per dirgli che sto partendo, che le valigie sono già belle e pronte. Lui non si faceva sentire da una vita intera ma lo conosco e so che è nella sua natura. Ogni volta che lo cerco, devo smuovere mezza città e, alla fine, quando mi risponde al telefono, la sua voce pacifica mi manda in bestia perché – per lui – è normale sparire e non dire neppure che ha chiuso i battenti per una pausa di riflessione o che so io. Ogni volta è una certificazione di esistenza in vita ma mi basta questo per perdonarlo e ricominciare da capo il minuto dopo.
S’è messo a piovere. Questa volta il dio cielo ci sta lavorando d’impegno perché viene giù che è un piacere. Mi sembra di farmi la doccia in mezzo alla strada tra le macchine che passano e la gente che mi guarda fisso con quell’indolenza che mi manda in bestia. Che si facessero gli affari loro. Non ho l’ombrello come non ho mai avuto l’orologio. Sono cose che non servono a nulla, tanto la pioggia si asciuga e il tempo passa lo stesso. Non è che cambi qualcosa. Anzi, la pioggia è divertente e infilare le pozzanghere è uno spasso.
Ah, beh, sì, certo, sono cose da ragazzini. Ma che ci posso fare io se a me piace da matti starmene là a giocare con l’acqua e le pozzanghere? Come quella volta che per fare troppo il ragazzino sono andato giù di culo e quasi mi sono rotto l’osso sacro. Anche quello era stato un gioco e alla fine non era successo niente di che, neppure un graffio con uno schizzo di sangue. A ben pensarci, però, avevo rimediato un paio di jeans strappati e un livido nero nel fondoschiena. Roba da ragazzi, appunto!
A ogni modo, ho ancora un bel po’ di strada da fare, mentre la saracinesca del locale si abbassa, con il mio carico d’alcool nelle vene con me che non voglio nemmeno ripararmi sotto i cornicioni. Mi bastano le labbra umide di questa ragazza siciliana e il calore dell’abbraccio di Ciro – che ci saluta all’angolo con una montagna di abbracci e baci. Basta tanto a lavare tutto il veleno nel mio cuore. Così tiro avanti per la strada con la mia compagna mano manina accanto a me sotto la pioggia scrosciante in questo lunedì da incorniciare alla ricerca dell’altra estremità dei sogni.
Alla fine, questa notte pallida, lenta e maestosa è venuta a salvarmi mentre la porta di casa si apre pigramente. La mia Maria Maddalena ed io attraversiamo il corridoio in silenzio per non svegliare mia madre che forse non approverebbe, ma capirebbe. Così in questo silenzio nero, senza luce, ci infiliamo sotto le lenzuola e il piumone. Ci baciamo, facciamo l’amore e rimaniamo rannicchiati in un sonno senza fine sotto la pioggia battente di questa nostra notte piena d’alcool e desiderio.



Produzione: Erwin de Greef©
Copertina: free copy da internet


1 commento:

  1. Nello squarcio di una città indefinita, il protagonista di questo breve racconto dal sapore beatnik si avventura nella notte incontrando vecchi amici e una nuova compagna. Umori, cicalecci, luci al neon fanno da sfondo a questa storia che s’incastona in un qualsiasi momento di una vita vissuta con strafottenza e nichilismo.

    RispondiElimina