martedì 28 giugno 2011

Erwin de Greef, Cronache dal Paradiso


Cronache dal paradiso 
di Erwin de Greef


Parte I

Il mattino seguente Dio si svegliò di buonora, preparò un’abbondante colazione di panini al burro e frutta di stagione, apparecchiò la tavola nel terrazzo di casa e comodamente seduto sulla poltrona di vimini, ammirò il cielo e il mare pieni di animali e piante come Lui stesso non avrebbe mai immaginato.   
Con sguardo fiero osservava le acque che brulicavano di enormi mostri marini impegnati a cacciare interi branchi di pesci e l’aria puntellata di infiniti stormi di uccelli che volavano lasciandosi trasportare dalle correnti ascensionali per sfuggire ai rapaci.
Orgoglioso del suo lavoro mentre si radeva davanti allo specchio del bagno, Dio pensò che il mondo fosse già bello così, ma in cuor suo sentì che poteva fare di più: “Se mettessi piante e animali anche nella terraferma, l’universo sarebbe ancora più bello” si disse.
Felice della sua idea, dopo avere indossato un bell’abito di cotone fino ed essersi annodato la cravatta blu sulla camicia bianca appena inamidata andò in ufficio, dove con l’ausilio di riga e squadra, ampolle e formule matematiche ne creò un’infinità.
Come suggeriscono le fonti certe e documentate alle quali ci siamo affidati per redigere il presente studio, è evidente che Dio non aveva progettato la creazione del mondo in ogni dettaglio, piuttosto il suo era stato un esperimento se non addirittura un capriccio.  
Infatti, un po’ per gioco un po’ per noia un lunedì mattina appena alzato dal letto ancora in pigiama, decise di realizzare il cielo e la Terra. Visti i risultati più che positivi senza indugiare oltre creò il giorno e la notte e, fatto questo, ancora più fiducioso nei suoi mezzi, separò le acque e generò il firmamento.
Malgrado avesse lavorato tanto e bene, Dio notò che la Terra era fatta di sola acqua per cui poteva volarci sopra, nuotarci dentro ma non camminarci: “Bisogna che provveda anche a questo” si disse e subito dopo raccolse l’acqua in un solo punto del globo lasciando il resto all’asciutto. Proprio là decise di piantare una gran quantità di semi che avrebbero generato altrettanti germogli e alberi da frutto.
Quella stessa notte il Signore avrebbe dovuto essere allegro e spensierato ma gli accadde proprio il contrario. Per tutto il giorno la luce aveva illuminato ogni cosa e Lui si era sentito forte come un leone ma più si avvicinava il tramonto più il suo umore cambiava e quella che era stata gioia si era trasformata in tristezza e l’esuberanza in fiacchezza e ora che il cielo era un grumo nero e pecioso, il suo umore era pessimo e irritabile.
“Ho bisogno di una luce che mi rinfranchi lo spirito e mi concili il sonno” disse Dio e dopo un po’ nel firmamento ne accese una più piccola di quella del giorno, affascinante come la lanterna che illumina la notte e la chiamò Luna.
Non ancora appagato, tutt’intorno dispose un’infinità di altre fiammelle appena visibili come fossero lucciole che la seguivano in barba al sole. Erano degli ornamenti come possono esserlo gli orecchini in una donna dal viso chiaro e dagli occhi blu che gli piacque chiamare stelle.
Dio volle anche la vita animata perché sapeva che a stare sempre da soli ci si ammala di malinconia. Così dopo avere riempito le acque con i pesci e il cielo con gli uccelli, popolò la terraferma con una serie infinita di esseri viventi che genericamente chiamò animali.  
Al tramonto del sesto giorno, già in veste da camera sorseggiando un brandy e fumando un toscano dal gusto pungente, affacciato alla finestra di casa Dio osservò non un universo vuoto e incolore ma la più bella invenzione che la mente avesse mai generato.
Davanti a Lui c’era l’infinito fatto di cielo e Terra, mare e terraferma, luce e tenebre, piante e animali. Finalmente ogni cosa era in armonia con le altre. Il mondo, pensò il Signore, è un luogo davvero ospitale e, fatto del tutto comprensibile, per un momento si abbandonò a un pianto di gioia.
Nostro Signore Iddio era emozionato e gli sarebbe piaciuto condividere i suoi sentimenti con qualcuno. Si guardò intorno pronto a fare un commento, a scambiare qualche opinione, ad accettare consigli e anche critiche.
Sarebbe stato contento di rilasciare un’intervista per svelare qualche aneddoto originale e farsi fotografare alla ringhiera del terrazzo di casa sullo sfondo della prateria, ma si scoprì solo e l’ardore che gli aveva acceso tanta passione e una fervida creatività non ebbe libero sfogo. Allora deluso, si confessò: “Peccato che nessuno al mondo possa ammirare il mio capolavoro!”.   
Divenne molto triste nostro Signore perché si rese conto di avere creato un mondo bello e perfetto in ogni suo aspetto per nulla. Infatti, se non c’era una sola creatura dotata di una mente tanto colta e raffinata da comprendere l’unicità del suo progetto, che senso aveva avuto affrontare quella fatica?
A chi poteva interessare il suo lavoro? Forse alle mosche che si nutrivano di frutta marcia ed escrementi? Ai granchi che vivevano rintanati nei buchi delle rocce? Oppure alle cornacchie appollaiate in cima agli alberi?
La verità è che nessuna creatura aveva le qualità per apprezzare anche un minimo dettaglio di quell’universo che esisteva da sei giorni. Consapevole di questo, adesso il Signore guardava con distacco gli uccelli volare nel cielo, i pesci nuotare nel mare e i rettili strisciare per terra.
Poi accadde qualcosa di inaspettato. Scrutando gli animali della foresta, la sua attenzione si concentrò su una scimmia che stava mangiando una banana accovacciata all’ombra di un albero. Era un animale simpatico e socievole dotato di braccia e gambe, occhi, orecchie e naso come ne aveva Lui stesso.
Fino a quel momento aveva generato piante e animali di ogni specie ma Lui sapeva che erano ben poca cosa se non niente rispetto a quel che aveva appena pensato. “Io, come Dio, starò in cielo ed egli, come uomo, in terra” questo si disse.
L’idea era geniale! Sarebbe stato il colpo di scena, l’ultimo atto prima del meritato riposo. Dio aveva creato il tutto dal nulla, lo aveva separato e sdoppiato e adesso la sua creatura prediletta – l’essere perfetto per definizione – avrebbe goduto dei frutti di un padre tanto magnanimo.
A differenza delle altre invenzioni l’uomo avrebbe avuto una mente in grado di cogliere ogni singolo aspetto del suo genio e in segno di riconoscenza lo avrebbe amato e venerato. Ecco che l’uomo stava per fare il suo ingresso trionfale nel progetto di Dio. Era la vera apoteosi!
Dio s’interrogò: “Come posso generare un essere che sia la mia immagine e che in tutto mi sia assomigliante?”. La domanda era più che legittima perché Lui era spirito, figura eterea e incorporea. Di contro ogni sua creazione era tangibile, concreta e corporea.
Per trovare nuovi stimoli, rilassarsi e chissà avere un po’ di conforto Dio tornò a guardare il creato poggiato sulla terraferma circondato dalle acque e come capita spesso anche a noi comuni mortali, fu in quel momento non molto felice che trovò la soluzione. Infatti, si rese conto che erano proprio la terra e l’acqua a dare la vita.
“Come ho fatto a non pensarci prima!” esclamò euforico e subito dopo si disse: “Bene, la scelta è fatta. Creerò l’uomo dalla mescolanza di questi elementi e, una volta data forma alla creatura, soffierò nelle sue narici per donargli la vita. D’altra parte Io sono Dio, il soffio della vita eterna”. 
Il Signore Iddio raccolse la polvere del suolo e grazie a un lavoro sapiente, la plasmò con l’acqua e quando l’impasto prese la forma che a Lui più piaceva, soffiò un alito di vita nelle narici della sua creatura che subito divenne un essere vivente.
Il Signore fece un passo indietro, guardò l’uomo nudo nella sua fattezza, elegante e prestante come lo aveva immaginato e affinché lo ascoltasse, a voce alta gli disse: “Io ti chiamerò Adamo”. 
L’uomo ascoltò le parole di Dio ma pur essendo maturo nel fisico la sua mente era quella di un neonato per cui non capì un’acca e senza volerlo dopo essersi grattato le ascelle, si abbandonò a uno sbadiglio pieno di noia.
A ogni modo grazie ad Adamo, per la prima volta l’uomo respirava con i suoi polmoni e forte di una meccanica perfetta camminava sulla terra mentre il suo cervello – per fortuna – cominciava ad assorbire qualunque stimolo ricevesse dall’esterno.
Dio gongolava di gioia perché anche se generato sull’esempio della scimmia l’uomo stava in posizione eretta, aveva il pollice prensile ed era bello come nessun’altra creatura al mondo. Altro che scimmie, per davvero l’uomo era a sua immagine e somiglianza!
Il Signore Iddio fu tanto felice che decise di donargli ogni sua invenzione. L’uomo avrebbe goduto del suo creato e anima e corpo si sarebbe dedicato al suo piacere e al culto del suo inventore. 
In primo luogo Dio pensò che fosse cosa buona e giusta regalare all’uomo una dimora più che confortevole. Si guardò intorno e individuò una regione a Oriente piana e stepposa che faceva al caso suo. Gli sembrò ideale perché le colline digradavano morbide verso il mare ed erano bagnate da numerosi corsi d’acqua.
Grazie alla potenza che lo distingueva, il Signore decise di irrigare e coltivare in prima persona quella terra fino a farla diventare un giardino paradisiaco in cui ci fossero alberi graditi alla vista con frutti buoni da mangiare e animali in gran quantità da allevare e cacciare.
Nel mezzo – affinché fossero sempre visibili – Dio vi piantò sia l’albero della vita con cui concedeva il dono dell’immortalità al figlio sia quello della conoscenza del bene e del male per ricordare all’uomo che Lui era il fondamento della morale e che non era possibile usurpargli quell’attributo.
Sfortunatamente però dopo un primo momento di felicità per i bellissimi regali che Dio gli aveva fatto con cui si era divertito, malgrado si trovasse nel paradiso terrestre, Adamo si sentì triste e solo perché non aveva altro da fare che mangiare i frutti degli alberi e cacciare la selvaggina da cucinare alla brace.  
Avendo notato l’umore dell’uomo, Dio gli chiese: “Ti diverti, Adamo?” e lui senza volere mancare di rispetto, gli rispose con voce spenta: “Sì, sì, certo non lo vedi come mi sto divertendo?”.
Dio si preoccupò molto e arrivò a dirsi che il suo progetto era stato un fallimento. Se solo fosse stato possibile – ma ahimè non è così – sia di giorno sia di notte avremmo potuto vedere nostro Signore con i capelli scompigliati e la barba incolta, con indosso il pigiama, la vestaglia e le ciabatte, passeggiare nel giardino dell’Eden intento a fumare come una ciminiera, assorto nei suoi pensieri: “Non è bene che l’uomo sia solo” si ripeteva senza darsi pace.   
Non sapendo che pesci prendere, Dio portò ogni sorta di animale terrestre e tutti gli uccelli davanti all’uomo affinché a ciascuno imponesse un nome, ma dopo un primo momento di entusiasmo che aveva fatto ben sperare, Adamo cadde in un nuovo stato di prostrazione. “Come devo fare con questo figlio?” si chiese il Signore scoraggiato.  
Ci pensò con molta attenzione e alla fine si decise a fare quel che non avrebbe mai voluto. Indossò un camice verde, si lavò le mani con acqua e sapone, indossò i guanti bianchi da chirurgo e con la scusa di volere stare in sua compagnia, chiamò Adamo e lo fece accomodare nel suo studio privato.
Dopo avergli offerto un tè con una fetta di torta al cioccolato bianco, Dio fece scendere un torpore sulla sua creatura prediletta che in un attimo si addormentò e senza l’ausilio di bisturi né laser o altre diavolerie, infilò una mano nel petto di Adamo, gli tolse una costola e richiusa la carne al suo posto, creò la donna.
Appena Adamo si svegliò da quel sonno innaturale che in un primo momento lo aveva lasciato intontito, vide la donna e preso da una strana euforia, esclamò: “Oh, sì, questa volta ci siamo!”.
“Allora, ti piace?” gli chiese Dio.
“Sì, sì, è perfetta. Grazie!”.
“E come la vuoi chiamare?”.
“Eva – rispose il giovane – perché è stata tolta dall’uomo”.  
Dio fu contento di notare nel figlio un repentino miglioramento. “Tutto sommato, confessò a se stesso, ho avuto torto a dubitare perché è evidente che la donna è bella e dà motivo di gioia all’uomo”.
In effetti, alla vista di Eva – con il viso dolce e allegro, i capelli biondi e gli occhi celesti – anche Adamo si era reso conto che la bellezza della donna non aveva paragone con tutto il resto del creato.  
Forte di questo sentimento, l’uomo le si avvicinò, le accarezzò i capelli, la baciò, le mordicchiò le labbra e, dulcis in fundo, le palpò il seno che al contrario del suo era gonfio con delle gustose escrescenze molto pronunciate e particolarmente interessanti.
Durante quella ricerca sapiente e del tutto spontanea del piacere, esplorando con occhi e mani il corpo di Eva, Adamo trovò una fessurina assai invitante con cui essere un’unica carne con lei. In tal modo i due furono sposi e fu fatta la volontà di Dio.
L’attività di accoppiamento dei due giovani era molto intensa, ma a volte Adamo aveva bisogno di riposare per riprendere le forze. Questo accadeva perché il maggiore impegno toccava proprio all’uomo che per soddisfare le voglie della compagna doveva lavorare sodo e sottostare a tutte le condizioni che lei gli imponeva. 
L’unico momento di pausa che interrompeva quel gioco di piacere, era quando Eva non stava per niente bene. Una volta ogni tanti giorni succedeva, infatti, che lei avesse delle strane perdite nella parte bassa del ventre che la inibivano nel compiere l’atto sessuale, anche se – a onore del vero – il desiderio rimaneva alto.
Per alimentare le loro energie e permettere ai due amanti di continuare a godere del loro corpo, il Signore Iddio fece in modo che la terra germogliasse sempre nuove erbe e frutti. Di contro, per rendergli grazie, Eva preparava tanti piatti prelibati per pranzi all’ombra degli alberi e cenette romantiche accanto al fuoco.
Una volta in là nel tempo adamantino del paradiso terrestre successe anche che Adamo ed Eva fumassero una strana erba che cresceva rigogliosa lungo i corsi d’acqua, che si presentava ai loro occhi di una bellezza rara con foglie a cinque punte che profumavano come incenso.
Dopo averla mangiata all’insalata come contorno e nei dolcini all’ora del tè, di comune accordo marito e moglie provarono a fumarla. Fecero asciugare l’erba, la sminuzzarono e la rollarono con le foglie essiccate di una pianta da cui – molto tempo dopo – sarebbe stata inventata la carta.
“Come la chiamiamo questa nostra fantasia?” chiese Eva ad Adamo.
“Non so, se per te va bene, possiamo chiamarla canna”.
“Eh, bravo Adamo! Lo sai che questo nome non è niente male” gli disse Eva dandogli una pacca sulla spalla, ma dopo una piccolissima pausa di intensa riflessione gli chiese “Scusa, perché dobbiamo chiamarla proprio canna?”.
“È evidente, cara” cominciò a spiegarle Adamo con una certa sufficienza sicuro del fatto suo “Perché le foglie della pianta con cui la rolliamo ha tante canne”.
“Giusto!” esclamò la ragazza contentissima per essere stata illuminata e così senza neppure rendersene conto, marito e moglie avevano appena portato a termine la loro prima invenzione con tanto di brevetto e nome.
Per verificare se il prototipo funzionava, Eva mise in bocca la prima canna della Storia, la accese e la aspirò più volte ingerendo il fumo. Poi la passò al suo compagno che imitandola fece le stesse cose. Dopo qualche boccata, i giovani amanti provarono un piacere talmente intenso che senza rendersene conto si ritrovarono a copulare più delle altre volte con risultati decisamente positivi.
Il Signore Iddio che era nei pressi per la solita passeggiata pomeridiana in compagnia del barboncino che gli avevano regalato i suoi ragazzi, sentì dei mugolii dietro un cespuglio. Incuriosito, si avvicinò e li sorprese nel pieno della loro attività sessuale.
Invece di scomporsi e richiamarli a un comportamento più decoroso al luogo in cui si trovavano, ne fu felice e sorridendo compiaciuto, se ne andò per la sua strada con il cane al guinzaglio che aveva appena fatto la pipì.  
Senza dubbio il giardino dell’Eden era il luogo perfetto per vivere un’esistenza ricca di soddisfazioni e ogni giorno Adamo ed Eva ringraziavano il buon Padre per averli prescelti su tutte le altre specie. In effetti, i due giovani non soltanto avevano di che godersi la vita ma in più non dovevano andare a scuola e neppure lavorare.
Soltanto per divertirsi, come abbiamo avuto modo di argomentare, ogni tanto si dedicavano a cucinare qualche pietanza particolare. Insomma, consapevoli o no Adamo ed Eva vivevano nel paese di bengodi, il luogo del piacere e dell’allegria ma non volendo anticipare troppo i futuri avvenimenti, la loro situazione stava per cambiare in modo radicale e purtroppo con quella anche la nostra.
Una mattina di primavera rischiarata da un sole tiepido e carezzevole, Eva s’imbatté nel serpente che la invitò a mangiare il frutto dell’albero della conoscenza: “Dai, che è buonissimo!” la esortò e per tentarla ancora di più continuò “Io l’ho già provato!”.
Ascoltate quelle parole, Eva che voleva vivere nuove esperienze, replicò: “L’hai mangiato e non ti è successo niente?”.
“Guardami” la esortò l’animale dalla lingua biforcuta “Ti sembro uno che ha qualcosa che non va?”.
“Non direi”.
“Allora, che aspetti? Su, mangia la mela” insistette il serpente.
“Ma è proibito. Dio non vuole, dice che chi la mangia muore” replicò Eva.
Il serpente sgranò gli occhi incredulo e sibilando la rassicurò: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Lui, conoscendo il bene e il male”.
“Tu dici?”.
“Certo, è così!” finì di dirle il serpente.
Eva si accostò all’albero. In un primo momento fu intimorita di staccare il frutto proibito dalla pianta ma vedendo che Adamo si avvicinava a lei senza protestare, lo raccolse e lo morsicò. La sua bocca si riempì di un sapore intenso, dolce e irresistibile tanto che le sue papille gustative si esaltarono come mai in precedenza. Allora la offrì al marito che ne mangiò.
Fatto questo, i due sposi aprirono gli occhi scoprendo la vera fattezza dei loro corpi nudi e ignominiosi. Sopraffatti da un opprimente sentimento di vergogna che non avevano mai conosciuto, si separarono per coprirsi con foglie di fico. Così agghindati, si riavvicinarono ma uditi i passi di Dio che faceva un giro da quelle parti, tornarono a nascondersi.
Attratto dal comportamento insolito dell’uomo, il Signore Iddio chiamò Adamo e lo interrogò: “Dove sei?”. 
Con voce scossa, quello gli rispose: “Mi sono nascosto tra i cespugli”.
“Perché mai figlio mio?”.
“Ho avuto paura”.
“Va bene, ma dimmi il perché?”.
“Perché sono nudo”.
“Nudo!” tuonò il padre “Come fai a sapere di essere nudo? Hai forse mangiato il frutto vietato?”.
Preso in castagna, Adamo pensò bene di scaricare tutta la colpa sulla moglie e con voce timida si giustificò: “La donna che tu mi hai posto accanto, mi ha dato il frutto dell’albero ed io ne ho mangiato”.
Apriti cielo! Subito il Signore Iddio si rivolse ad Eva accusandola e lei per non essere meno del marito, addossò la colpa all’animale dicendo: “Il serpente mi ha ingannato ed io ho mangiato”. 
Preso da una collera incontenibile, senza concedergli la possibilità di dire la sua, Dio additò il serpente e gli urlò contro: “Tu sarai maledetto, camminerai per sempre sul ventre e mangerai soltanto la polvere”.
Detto questo, si rivolse alla donna e scandendo ogni parola le disse: “Le tue gravidanze saranno terribili e tuo marito ti dominerà”.
Ad Adamo che per un momento aveva sperato di farla franca perché era il figlio prediletto, Dio gridò che avrebbe sudato il suo pane quotidiano e avrebbe mangiato l’erba dei campi. Infine lo spiazzò dicendogli: “Polvere sei e polvere tornerai!” e là senza farsene accorgere Adamo fece gli scongiuri.  
Dopo questo discorso che aveva atterrito i due sposi, Dio li vestì con pelli di animali, li scacciò dal paradiso terrestre e, per assicurarsi che non s’intrufolassero più, a guardia del giardino mise un paio di cherubini e la fiamma della spada folgorante.
Fuori dell’Eden, la vita di Adamo ed Eva si fece dura. Gli toccava lavorare e per davvero il pane che spezzavano a tavola per soddisfare la loro fame era frutto di sudore e tanti dolori, ma marito e moglie non si scoraggiarono e diedero alla vita due figli, Caino e Abele.
Mentre i ragazzi crescevano e imparavano i mestieri della pastorizia e dell’agricoltura, un po’ per volta Adamo ed Eva si allontanarono l’uno dall’altra. È triste dirlo ma la prima coppia della Storia si trascinava nella routine quotidiana.
Eva si lamentava con il marito perché oltre a farla sgobbare in casa, spesso la portava in campagna per lavorare la terra o raccoglierne i frutti. Non le diceva nulla di carino e anzi la rimproverava sempre, alzava la voce contro di lei e sbatteva i pugni sul tavolo per fare valere la sua posizione con la forza.
Adamo le rinfacciava che si era lasciata andare, che non sapeva cucinare neanche un uovo al tegamino e che la casa era in totale stato di abbandono: “Insomma, ma che cosa fai tutto il giorno?” cominciava a sbraitare perdendo la ragione.
Eva gli replicava a muso duro che non ne poteva più delle sue lamentele: “Basta, basta – diceva con la voce piagnucolosa – se non ti sta bene, vattene a vivere in un altro posto!” e così via.
La verità è che Adamo ed Eva pur non sopportandosi più, non si erano mai separati e non avevano cercato un nuovo compagno perché, di fatto, a parte loro sulla Terra non c’era proprio nessuno, né uomini né donne. Diversamente avrebbero affrontato per intero le conseguenze della loro separazione: incaricare gli avvocati per la causa in tribunale, la divisione dei beni, l’assegnazione della casa, l’affidamento dei bambini, gli alimenti, il mantenimento e tutto il resto.
Al di là di queste considerazioni, non si può tacere che l’andazzo della vita familiare, le continue liti tra Adamo ed Eva, le separazioni e le ricongiunzioni momentanee dettate più dal bisogno che da una vera riconciliazione, crearono tanti problemi a Caino che in un impeto di gelosia uccise il fratello Abele.
Il fatto è che Adamo invece di dare un’istruzione – una vera e propria educazione con tanto di valori etici e morali ai suoi figli – li aveva mandati a lavorare. Tutto questo con il consenso di Eva che aveva spronato il marito a essere più determinato soprattutto nei confronti di Caino.
Adamo che nel tempo si era dimostrato un buon lavoratore – detto tra noi – ben volentieri avrebbe risparmiato la fatica ai suoi figlioli per regalargli un’infanzia agiata e spensierata come era stato per lui, ma sbarcare il lunario era difficile e sfamare quattro persone in una terra poco generosa richiedeva la fatica di tutte le braccia utili.
Ogni tanto il poveretto alzava gli occhi al cielo nel tentativo di incontrare Dio per chiedergli perdono: “Padre mio – gli diceva – per una mela guarda in che guai mi hai messo”. Dio però era irremovibile: Adamo ed Eva avevano sbagliato e adesso dovevano espiare le loro colpe.
Arreso all’evidenza, Adamo aveva deciso di specializzare il lavoro dei suoi figlioli perché non c’erano alternative: o imparavano un mestiere o si riducevano all’elemosina. Erano finiti i vecchi tempi in cui la tavola era sempre apparecchiata e ogni cosa era bella e pronta. Bisognava farsene una ragione.
Senza averli interpellati Adamo ed Eva decisero per loro. Caino che era alto e grosso avrebbe fatto l’agricoltore, Abele che era basso e di costituzione gracile sarebbe stato un pastore. Inoltre, mentre il primo era battagliero e caparbio, il secondo era riservato e amava gli animali; così la scelta era stata inevitabile.
Caino però sentiva di avere subìto una grave ingiustizia. Suo fratello Abele poteva stare all’ombra e riposare tutto il giorno, mentre lui doveva faticare sotto il sole e in qualunque altra condizione meteorologica. C’era anche da considerare che bastava una grandinata o una gelata e il raccolto si perdeva. 
Insomma, mentre le pecore e le capre potevano essere messe al riparo dentro l’ovile e il massimo della fatica consisteva nell’aprire e chiudere il cancello; per le piantine coltivate nei campi, fossero ortaggi o cereali, se veniva giù un acquazzone, Caino era rovinato. Perciò il ragazzo giudicò che il suo mestiere era molto più pesante e pieno d’insidie di quello di Abele.
È anche vero che un po’ per volta Caino prese confidenza con gli attrezzi da lavoro e con il passare delle stagioni divenne un agricoltore tanto bravo da essere lodato dai suoi genitori. Coltivava certi borlotti che cucinati con i ditalini, un filo d’olio, il sedano e la carota erano la gioia di qualsiasi palato e tra giugno e luglio raccoglieva un pomodoro con cui faceva una salsa molto apprezzata dalla madre.
Dal canto suo, Abele era un allevatore competente fino al punto di incrociare le razze dei suoi armenti mettendo al mondo animali assai robusti e molto produttivi. In particolar modo, allevava dei conigli che cotti alla brace mandavano letteralmente in estasi suo padre e produceva un tipo di formaggio assai versatile che grattugiato arricchiva il sapore di moltissime pietanze.
Per ingraziarsi Dio nella speranza di avere alleggerita la pena, Adamo aveva imposto ai suoi figlioli di offrirgli parte della loro fatica. Abele ne fu felicissimo perché voleva bene a quel signore dalla barba bianca e lunga, mentre Caino pensava che non fosse giusto destinare parte del suo raccolto a quell’uomo egoista e cocciuto.
Era un’ingiustizia bella e buona ma poiché era costretto a quel sacrificio, Caino aveva pensato di passargli solo gli avanzi. Se nel campo raccoglieva delle insalate, gli portava quelle più brutte a guardarsi e anche un po’ marcite.
Di contro, in modo semplice e con gusto Abele bussava alla porta di Dio e con un sorriso smagliante gli porgeva agnellini da latte, conigli ben pasciuti, uova appena raccolte sotto la chioccia e tante altre prelibatezze.
Successe una volta che Caino gli portò un cesto di prodotti dell’orto talmente brutti che Dio non poté fare a meno di guardarlo storto. Non disse nulla ma tra sé pensò: “Questa roba non è buona manco per i porci!”.
Caino se ne accorse perché lo sguardo del Signore era stato davvero eloquente e ne fu irritato. Dio che aveva notato il cambiamento di umore nel giovane, schiarendosi la voce gli disse: “Perché ti sei abbattuto, Caino? Se agisci bene, potrai andare fiero di te stesso, ma se ti comporti male, il peccato è accovacciato alla tua porta”.
Ascoltata questa ramanzina, come fanno i ragazzi ben educati, Caino non replicò, salutò Dio con un bacio sulla guancia e s’incamminò verso casa, ma lungo il tragitto il giovane sentì montare una rabbia incontenibile.
Per sfogare quella tensione che lo opprimeva, prese a calci ogni cosa che incrociava per la strada. Ciò malgrado, la sua rabbia – ma più che altro era delusione per non essere stato apprezzato – invece di diminuire, aumentava a dismisura. La colpa di tutto questo – decise – era di suo fratello Abele.
“Se quello stupido facesse dei regali meno appariscenti, i miei sarebbero più graditi” questo si disse Caino e man mano che si avvicinava a casa, pensieri cupi s’impossessavano della sua mente.
Appena dentro, Eva lo guardò per bene e gli fece notare che aveva una pessima cera. I suoi occhi erano cerchiati e il suo sguardo spento. “Ragazzo mio – gli disse – ti stai buscando un raffreddore”.
Per un momento Caino sperò di ricevere una carezza o un bacio, un gesto che confermasse l’affetto per lui. Invece, presa dalle faccende di casa e risentita con Adamo che l’aveva sgridata ancora una volta, Eva finì il suo discorso dicendogli: “Vedi di rimetterti in forze che qua non abbiamo bisogno di gente malata”.
Quelle parole arrivarono come una coltellata nel cuore del giovane che si sentì sprofondare. Caino avrebbe anche pianto ma non volendo farsi vedere debole, raccolse le forze e ignorando la madre si rivolse ad Abele dicendogli: “Dai, fratello mio prendiamoci un giorno tutto per noi e andiamo in campagna”.
Abele che aveva già governato gli armenti fu d’accordo anche perché non gli piaceva la tensione che si respirava in casa e nonostante tutto amava suo fratello per cui quella gita sarebbe stata una buona occasione per riconciliarsi.
L’uno a fianco dell’altro con il fagotto in spalle e il cappello di paglia in testa, Eva vide i suoi figli prendere la strada che portava alla campagna, poi le faccende domestiche richiamarono la sua attenzione e chiuso l’uscio di casa, si dedicò a spazzare il pavimento della cucina.
Per amore del fratello, Abele cominciò a raccontare del suo lavoro, di certi esperimenti che stava facendo con gli armenti per creare una nuova razza che desse della carne più succosa e zuccherina. Da parte sua, con la faccia ancora più ombrosa e le spalle strette sul collo, Caino faceva finta di ascoltarlo. In quei frangenti ai due capitò anche di incrociare il padre che, sul campo da zappare, li salutò con un ampio gesto della mano.
Come raccontano le cronache in questo passo riportate fedelmente, era una splendida giornata di sole con i raggi obliqui che riscaldavano la terra verde di erbe fresche da tagliare e alberi rigogliosi con i frutti prossimi al raccolto. Abele era sotto una quercia, intento ad aprire la sua sacca per tirare fuori la forma di pane e il salame di cinghiale. Accanto a lui, Caino lo osservava con disprezzo, odiando quel suo modo così naturalmente garbato nel fare ogni cosa.
Fu un attimo. Estratto il coltello con cui era solito innestare le piante da frutto Caino tagliò la gola di suo fratello Abele che, cadendo al suolo, si voltò verso di lui con gli occhi sgranati e increduli. Ma neppure in quel momento a lui fatale, il giovane dimostrò rancore o peggio odio; anzi, prima di schiantare, il suo viso che si sbiancava sempre più accennò anche un sorriso. 
Nell’alto del cielo Dio guardò inorridito quella scena. Sarebbe potuto intervenire, fermare la mano omicida di Caino e salvare la vita di Abele, ma rimase seduto perché non voleva interferire sulle vicende umane. Chiudendo gli occhi, l’unica cosa che fece fu portare le mani al volto come per scacciare quell’immagine, per fare finta che fosse stato soltanto un brutto sogno.
Adamo aveva rotto il sacro vincolo con Dio e adesso – come una logica conseguenza – il figlio dell’uomo spezzava quello con il suo prossimo. In quel momento, racchiuso tutto in un gesto, cambiava per sempre la Storia del genere umano. Dio però sapeva che sarebbero venuti tempi ancora più bui in cui faide e guerre avrebbero cagionato altre morti violente e pensò che la punizione dovesse essere esemplare.
Il Signore chiamò Caino e lo interrogò per metterlo alla prova, per vedere se si era pentito del gesto assurdo che aveva appena commesso. Magari era stato un momento di follia, un attimo di annebbiamento o addirittura un incidente. In termini giuridici poteva trattarsi di omicidio preterintenzionale o colposo e non volontario.
A ragion veduta, i più tra voi che leggete queste cronache, sosterranno che comunque si voglia mettere, Caino aveva ucciso suo fratello Abele e meritava la pena più severa, ma pur rimanendo il fatto, converrete che per davvero c’è una bella differenza tra chi commette un delitto con l’intenzione e chi senza colpa alcuna o andando oltre la propria volontà.
Fatto sta che Caino gli si avvicinò guardandolo fisso negli occhi come per sfidarlo e senza scomporsi Dio gli chiese: “Dov’è tuo fratello?”. Non sapendo che rispondere, lui gli disse: “E che ne so io! Sono, forse, il suo guardiano?”.
Udite quelle parole sprezzanti che confermavano i terribili sospetti, nostro Signore Iddio lo redarguì, lo maledisse e lo condannò a una vita di stenti mettendolo al bando: “Va via” gli urlò contro.
Vedendosi perso, Caino gli rispose: “Lo so, la mia colpa è troppo grande per ottenere il tuo perdono. Ecco, oggi, tu mi scacci ed io dovrò nascondermi da te. Che destino infame, il mio! Sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque potrà uccidermi”.
Il Signore che voleva soltanto punirlo in modo esemplare e non condannarlo a morte, replicò a quelle parole e con voce grave sentenziò: “Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!” e imposto un segno ben visibile sul corpo del ragazzo affinché tutti sapessero che era protetto, gli indicò la strada verso la terra di Nod a Oriente dell’Eden, dove la sua sposa gli diede un figlio di nome Enoch.

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