*
Napoli li 13 Marzo 1815
Eccellenza arcivescovo di Taranto, caro amico,
sono questi tempi maturi per agire, per avere il vantaggio della sorpresa sul nemico.
Vogliate ricordare la notte in cui parlammo di tale ipotesi e come con entusiasmo eravate favorevole. I recenti fatti ci costringono ad accelerare le decisioni, a spronare gli animi, affinché questo popolo possa finalmente unirsi sotto il regno del fuoco ai piedi dei quattro vulcani. Ho già esortato l’imperatore ad agire di conseguenza.
Vi scrivo perché necessito del vostro aiuto.
Possiate concedermi le vostre preghiere, e accogliere nella sua terra un giovane a me molto caro.
È costui il figlio di un amico fraterno che ha sacrificato la sua in cambio della mia vita.
Ragazzo di spirito nobile, di grande ingegno, nonostante la giovane età, appassionato di scienze, lettere e arte. Anch’egli animato dal furore degli eventi, e d’aspirazioni d’Italianità, contro l’austriaca dinastia e il suo assoluto dominio che vorrebbe incatenare anche il pensiero di questa gente, ma è ancor troppo giovane per rendere servizio alla sua futura patria.
Vogliate prendervi cura di lui e custodirlo come se fossi io stesso.
Sempre vostro debitore
Gioacchino Murat re del regno di Napoli e Sicilia.
Quella lettera di presentazione, poche monete, destinate all’affitto dei cavalli e ad altre piccole spese, tra cui i doni per ricambiare l’ospitalità ricevuta, e un taccuino, su cui trascrivevo ciò che maggiormente colpiva la mia attenzione, erano i miei unici bagagli.
Già dopo pochi giorni dalla partenza, la sorte non mi fu favorevole, infatti, come spesso succede, soprattutto nei lunghi viaggi, ebbi a imbattermi in un gruppo di briganti. Il primo uscito dal bosco mi bloccò la strada, due furono alle mie spalle, vidi altre ombre come spiriti muoversi tra gli alberi. Fui depredato delle monete e devo ringraziare il loro capo se, mosso a compassione, non mi uccise e anzi mi lasciò due zecchini d’oro per poter in parte completare il mio viaggio. Errai per le terre campane e usai metà dei miei averi per viaggiare con dei mercanti diretti alla città della famosa disfida, Barletta.
Il mio intento era fermarmi il tempo necessario a mettere da parte il denaro per raggiungere il consigliere di Stato, ministro di Murat e dignitario dell’ordine reale delle due Sicilie, l’arcivescovo di Taranto Giuseppe Capelastro.
A Barletta la figura del re non godeva di alta stima, visto che pochi anni prima aveva fatto sopprimere tutti gli Ordini monastici cui aveva requisito gli edifici conventuali e gli altri beni. Si sa che spesso il malcontento ecclesiastico si traduce in quello popolare, quindi in quei luoghi le mie credenziali avevano ben poco valore. Inoltre, nello stato di cose presente, di guerre, tumulti e rivolte, pochi avevano voglia di ascoltare un giovane viaggiatore e nessuno era disposto a dargli un lavoro. I tempi di permanenza, nonostante i miei sforzi, dovettero allungarsi notevolmente.
Se le mie giornate passavano alla ricerca di un lavoro, di un posto dove dormire e di qualcosa da mangiare, il re, mio mentore, aveva ben altro di cui occuparmi. In meno di due mesi, aveva dichiarato guerra all’impero austriaco, con il proclama di Rimini esortato gli italiani all’unità nazionale, conquistato con il suo esercito Bologna, occupato Firenze, era stato sconfitto a Occhiobello e a Casaglia, aveva abbandonato Bologna e, sconfitto nella battaglia del Tolentino, era stato in fine costretto a rifugiarsi in Francia. Il 20 Maggio di quel 1815 gli austriaci ponevano sul trono del regno di Napoli e di Sicilia Federico IV di Borbone.
La lettera di presentazione, che conservavo gelosamente dalla mia partenza, poteva essere considerata ora più che al mio arrivo carta straccia, se non addirittura pericolosa alla mia incolumità.
A Barletta avevo percorso infinite volte le strade che univano la statua di Arè, davanti la basilica normanna, a via Nazareth, inoltrandomi verso destra fino alla piazza circondata da case color porpora, che testimoniavano il sangue versato a causa delle turpi parole di Charles de la Motte, per arrivare al castello che a tanti cavalieri, in partenza o in arrivo dalla Terra Santa aveva dato ricovero, bussando ad ogni porta e ad ogni bottega, e sempre con esiti negativi. Avevo speso il resto dei miei averi per sopravvivere, il taccuino era tutto ciò che mi restava.
Fu solo quando avevo completamente consunto le mie già logore scarpe che mi trovai davanti al palazzo che fu degli Orsini passato poi alla famiglia della Marra, sulla cui facciata erano poste la statua della vecchiaia e della giovinezza.
Il grande portone era aperto per metà. Bussai, ma nessun rumore tradì presenza umana. Urlai verso l’interno, la mia voce rimbombò nel loggiato e tra le colonne. Ma senza risposta.
Le aspettative che quell’imponente facciata, e l’aria della tarda primavera, avevano fatto nascere in me sembravano essere state tradite. Voltai l’angolo, quando, dopo pochi passi, una voce mi chiamò. Mi girai, era un uomo dagli strani abiti e con un copricapo di feltro rigido e bombato di colore nero. Mi avvicinai.
- Chi cercava?- domandò
- Venivo per chiedere lavoro come garzone- risposi
Mi guardò a fondo, mi fece segno di seguirlo verso l’entrata del palazzo.
- Cosa sa fare?-
Alzai le spalle.
- Vi stavo aspettando- affermò
- Mi stavate aspettando?
- Vi stupisce? Io sono Renato Madritto, pittore.
Quel nome non mi ricordò nulla, nonostante, scoprii in seguito, avesse già una certa fama. Mi condusse al primo piano, in una sala aveva allestito il suo studio. La stanza era abbastanza grande da contenere molte tele, diversi cavalletti, un grande tavolo, delle sedie, un letto, una libreria e due armadi. A prima vista il maestro dedicava le sue opere di più grandi dimensioni ai ritratti, e ai paesaggi le tele più piccole, ma in questi ultimi l’artista riusciva maggiormente a trasmettere la passione per le campagne barlettane.
Gli raccontai che partito da Napoli avrei dovuto incontrare i miei genitori a Taranto, delle mie disavventure con i briganti, del restante viaggio e della permanenza in città, non feci cenno al resto. Mi ascoltò interessato, poteva offrirmi solo vitto e alloggio, accettai comunque.
Passai le prime settimane di lavoro a riordinare il caos che regnava, a pulire, lavare pennelli e a cucinare. Il maestro usciva la mattina molto presto e tornava a pranzo, stava realizzando un ritratto a una nobildonna di cui non fece il nome. Il pomeriggio era intensamente assorto nel dipingere i paesaggi, ma dei risultati finali difficilmente rimaneva soddisfatto. Dopo cena si ritirava in uno stanzino, la cui porta era completamente coperta da quadri. A quella stanza non avevo accesso, ed era forse quel divieto ad accrescere la mia curiosità e il suo mistero.
In quei giorni, di esilio forzato, sentivo la speranza morirmi dentro e Taranto sempre più lontana.
Per le strade si parlava di un congresso a Vienna che avrebbe risolto le sorti del mondo aprendo un’epoca di Restaurazione, dove regnassero monarchie di diritto divino, e che smentisse la capacità degli uomini di costruire e guidare la storia con la ragione. Il venti giugno si venne a sapere che nella battaglia di Waterloo Napoleone aveva subito la sua sconfitta definitiva. Fu lo stesso giorno in cui il maestro, consegnato il quadro alla nobildonna, mi regalò una moneta, contento del lavoro che avevo svolto. Mi annunciò che la mattina seguente, alle quattro, saremmo dovuti partire per la campagna.
All’albeggiare, quando la luce rende più sicuri i passi, ma il sole deve ancora sorgere, avevamo trovato il posto, posizionato il cavalletto, le tele, i colori, le tavolozze e i pennelli, l’aria estiva rendeva mite la temperatura già a quell’ora.
- Tra poco la luce sarà ideale- disse il maestro.
Poi rimase seduto tutto il giorno a guardare un punto lontano all’orizzonte, cambiando posizione solo quando gli offrii del pane e formaggio, che mangiò meditabondo. Rimanemmo fino al tramonto e fummo a casa che era buio da tempo. Io andai subito a letto, distrutto dalla fatica, lui si chiuse nello stanzino. Quelle stesse azioni si ripeterono per le due settimane successive, con gli stessi risultati di quel primo giorno, il maestro non tracciò un solo segno, nonostante continuasse a farmi trasportare l’intera attrezzatura per chilometri nelle campagne. Finché un giorno decise che non avrebbe più dipinto quel paesaggio.
*
Stavo sciogliendo della colla di pesce per l'imprimitura di alcune tele, quando il maestro mi annunciò che stava uscendo, fatto strano visto che non parlava da giorni e aveva, inoltre, passato le ultime settimane in casa, chiuso nello stanzino, uscendone solo per mangiare.
Appena fu fuori il mio sguardo cercò la piccola porta coperta dai quadri. Mi avvicinai, era aperta, entrai e da allora riuscii a vedere la realtà in maniera diversa.
In vero la piccola stanza, a un primo sguardo, non aveva nulla di strano, niente che potesse celare un mistero, tuttavia non ero per nulla tranquillo, una mia presenza in quel posto avrebbe potuto accendere le ire del maestro, che mi aveva espressamente vietato d’entrare.
Le pareti erano piene di quadri, sicuramente diversi dalle altre opere che il maestro era solito dipingere, non erano né ritratti, né paesaggi, o forse erano entrambi, ad ogni modo la loro visione mi sconvolse, mai avevo visto nulla di simile.
Gli accostamenti inconsueti che conteneva mi lasciarono basito. Quale artista aveva mai avuto la capacità o anche solo l’ardire di mettere su tela la libera associazione delle sue idee? Ad ogni nuova visione mi sembrava di perdere i sensi e di entrare in un mondo incantato, da sogno, dove tutto diventava possibile. Iniziai a osservarli meglio, per cercare di decifrarli.
Un uomo e una donna, con il volto coperto da un panno bianco, si baciavano, come a volersi scambiare un amore muto. Una stanza, all'interno della quale trovavano collocazione oggetti di uso comune: un pettine, un fiammifero, un bicchiere e un pennello da barba, ma dalle dimensioni enormi, quasi fossero elevati a strumenti indispensabili al quadro e alla vita stessa dell’inquilino di quella stanza. Una montagna sospesa in aria, come fissata al cielo, sopra il mare, alla cui estremità era scolpito un castello, con cui formava un unicum senza particolari, generava in me una sensazione di congelamento, anzi di pietrificazione. Ad ogni nuova tela la fantasia del maestro mi trovava impreparato. Il ritratto di un uomo con un naso a proboscide che terminava nella pipa che stava fumando, con dietro una candela di forma agile e morbida, liquefatta. Un enorme masso posto all’interno di una stanza in prossimità di una finestra che pareva guardare il mare. Una mela che occupava un’intera stanza. Tutte le opere fondevano la realtà con l’astratto, il visibile con l’invisibile. Un ombrello con un bicchiere di vetro sopra, un uomo che dipingeva una donna che sembrava prender vita, scarpe che mutavano il loro aspetto in quello di piedi. Mondi mai visti, almeno da una mente sana. La rappresentazione dell'universo dell'uomo e delle sue conoscenze. Il dubbio davanti a ogni immagine, gli interrogativi profondi sul rapporto tra noi e il mondo esterno, sulla libertà del pensiero e sul sogno. Quelle opere non narravano di regni, regnanti e povera gente, ma di qualcosa di più reale della stessa realtà, una soprarealtà.
*
- Puoi riempire la mia pipa?
Fui destato, sorpreso in flagranza, ebbi un soprassalto, da quanto tempo ero in quel luogo? Così rapito dai dipinti da non aver sentito il maestro tornare.
- Allora? Puoi riempire la pipa?- chiese nuovamente mostrandomi una tela su cui era dipinta una pipa, con sotto la scritta :"Ceci n'est pas une pipe"
- N…no- balbettai
- Certo che no, è solo una rappresentazione, quindi se avessi scritto che è una pipa, avrei mentito.
- Cosa vuol dire tutto questo?
- Ad un certo punto della mia vita, iniziai a vedere i particolari e le sfumature di un qualunque paesaggio reale, come se fossero un fondale, da cui avrei potuto al massimo ottenere un’immagine, ma non la realtà. Iniziai allora a escludere dalla vista tutti gli elementi che l'esperienza immediata situava all'altezza dei miei occhi, sostituendoli con i miei pensieri, le mie angosce e miei sentimenti, cercai poi di dipingere queste visioni. Mi si aprirono infinite possibilità, vedevo il mondo con lo stupore della fanciullezza e la coscienza della vecchiaia. In queste mie opere, ho creato la sorpresa, mettendo in discussione il mondo reale attraverso la rappresentazione di oggetti così familiari da essere invisibili. Ho fatto in modo che rompessero il silenzio che accompagna le loro esistenze materiali e li ho fatti urlare.
- Urlare, ma per dire cosa?
- Cercare di capire cosa dicono, vuol dire svelarle e perderne la poesia, vuol dire sentire il mistero e cercare di liberarsene, averne paura. Per apprezzare il mistero, un’opera non deve essere spiegata e compresa, ma osservata. È compito dell’artista creare il mistero assoluto, esso deve esistere affinché la realtà sia possibile.
Fu quella la lezione più importante che mi è mai stata data.
- Questo è il denaro che ti serve per il tuo viaggio, il tuo compito qui è concluso, hai tutti gli strumenti, e hai imparato quello che dovevi.
*
Sarei finalmente partito per Taranto, ma non ebbi modo di preparare le mie poche cose che arrivò la notizia.
Gioacchino Murat, raggiunta la Corsica con pochi uomini, aveva tentato l’approdo a Napoli, sicuro dell’appoggio popolare, per riconquistarla, ma una tempesta aveva dirottato le navi a Pizzo. Il re e i suoi si nascosero, per le campagne calabresi, dall’ira delle armi nemiche, e non sarebbero stati scoperti senza il tradimento amico. Processato e condannato a morte, gli viene concesso di dare l’ordine al plotone di ucciderlo.
Il 13 ottobre 1815 moriva Gioacchino Murat re di Napoli e di Sicilia. L’arcivescovo Capelastro si ritirava a vita privata.
Gioacchino Lonobile
* Copertina: Magritte (Lessines 1898 - Bruxelles 1967), La chiave dei sogni, 1935
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaTra finzione e realtà questo breve racconto di Gioacchino Lonobile (qui con il primo di una serie di tre) è ambientato nel Regno delle Due Sicilie tra il 13 marzo e il 13 ottobre 1815, giorno in cui Gioacchino Murat moriva fucilato.
RispondiEliminaLa storia, che racconta dell'incontro tra il giovane protagonista in viaggio e un pittore, è incassata tra la lettera che introduce allo scopo del viaggio e gli ultimi istanti della vita dello stesso Murat.
Gioacchino Lonobile vive e lavora a Roma. Collabora con la rivista di critica letteraria Piccolo Michaux, fa parte del collettivo romano di scrittori Cricca 33. Nel 2009 ha pubblicato il racconto “Espadrillas Gialle” per 18:30 edizioni e nel 2010 il racconto “P.G.R: per grazia ricevuta” per l’antologia “Palermo geografie del mistero” di Perrone Editore.
RispondiElimina