Le
Coefore
nella
traduzione di Edoardo Sanguineti
L’osservazione è
banale, anche se non è mancato chi, come Walter Benjamin, ha saputo divinarne
implicazioni arcane e peregrine: certo è che, fra tutti i prodotti letterari,
più che mai davanti a una traduzione potremo dire a buon diritto “in principio
era la parola”. Se poi la parola è quella di Eschilo, e il traduttore si chiama
Edoardo Sanguineti, dall’ovvietà sembrano dischiudersi suggestioni
particolarmente insinuanti. Letteratura che si nutre di letteratura, oggetto
verbale che trae la sua vita da un altro oggetto verbale, questa volta la
traduzione pone a confronto un leader
dell’avanguardia, il poeta di Liborintus
e di Wirrwarr, con il fondatore,
nientemeno, della tragedia classica. Il lettore può immaginare da solo le
acrobazie che, con un po’ d’ingegno e di spregiudicatezza, non sarebbe poi
tanto arduo improvvisare sul tema.
In verità, la
suggestione è abbastanza capziosa ed estrinseca. L’avanguardia non ha,
naturalmente, nulla a che spartire con l’iconoclastia goliardica, se non nella
pigrizia degli interpreti. Inoltre, l’opera del traduttore implica sempre la
mediazione di una filologia, o comunque di una disciplina esegetica: e
Sanguineti, come è noto, sa affidarsi con altrettanta naturalezza, oltre che
agli strumenti della scrittura, alle strategie tortuose e riflesse della
critica. Felice coincidenza, che del resto ha già fatto le sue prove in altre
traduzioni esemplari: Le Baccanti di
Euripide, la Fedra di Seneca, Le Troiane ancora di Euripide e, fuori
dal genere teatrale, Il Giuoco del Satyricon.
A continuare la serie viene ora la versione delle Coefore. Sarà bene, allora,
parlare di questa così come si offre al lettore, iuxta propria principia.
La tragedia è la
seconda (dopo l’Agamennone e prima
delle Eumenidi) dell’unica trilogia
tramandataci integra dall’antichità, l’Orestea.
Ed è quella appunto in cui entra in scena l’eroe eponimo, tornato in Argo con
l’amico Pilade per vendicare, secondo l’ordine di Apollo, la morte del padre.
Vendetta atroce perché egli dovrà uccidere, con l’usurpatore Egisto, anche la
propria madre, Clitemnestra. La prima parte del dramma si svolge davanti alla
tomba di Agamennone, dove Oreste vede sopraggiungere Elettra, accompagnata dal
Coro di ancelle (le coefere, ossia portatrici di libagioni), venute a celebrare
riti funebri per placare l’ombra del morto: egli si rivela alla sorella, e con
evoca il padre affinché lo assista nell’impresa. È in sostanza una lunga
lamentazione, rievocativa e propiziatoria, attraverso la quale Oreste vince
l’orrore del matricidio e si persuade ad agire. Segue serrata e fulminea la
catastrofe. Elettra ora è assente, e il solo Oreste domina la scena, nella sua
angoscia d’azione: intorno a lui si moltiplicano, in fugaci apparizioni, i
personaggi (lo schiavo, la nutrice, Egisto), fino al dialogo terribile e
risolutivo con l’antagonista, la madre. A differenza di Amleto (che in fondo
deve uccidere solo l’usurpatore, anche se poi diventa causa di morte anche alla
regina), Oreste ha avuto la forza di respingere il dubbio che l’attanaglia: ma
già le mostruose Erinni custodi dei sacri vincoli di sangue, vengono a
perseguitare l’eroe, che fugge per un nuovo esilio. La tragedia non ha dunque
scioglimento, perché con la catastrofe finale apre al contempo un dilemma
ulteriore nella coscienza del pubblico. L’intreccio inestricabile della “pietà”
e del “terrore” resta sospeso davanti a un conflitto morale che non ha
soluzione.
Il testo delle Coefore ci è pervenuto attraverso un
unico codice, il Mediceus o Laurentianus XXXII 9, risalente al
decimo o undicesimo secolo. E questo complica, anziché semplificare, il
problema filologico, perché gli interrogativi che esso solleva non trovano
neppure quella possibilità di risposta che spesso offre una collazione, un
confronto sistematico fra più codici. In assenza di orientamenti ausiliari, per
quanto concerne i passi controversi, il traduttore deve tuttavia compiere una scelta, soprattutto se il suo lavoro ha
come in questo caso una destinazione precisa: la scena del teatro di Siracusa,
dove le Coefere saranno
rappresentate, per la regia di Giuseppe Di Martino, il 1° giugno 1978.
La funzionalità
teatrale si impone pertanto, nella circostanza, come il solo criterio effettivo
e responsabile. Un criterio che si rivela pertinente, al di là delle scelte
testuali, anche per la veste linguistica medesima assunta dalla traduzione.
Come l’epos, così il mito tragico si colloca, per dirla con Bachtin, in un
“passato assoluto”, e una “distanza assoluta” lo separa dal pubblico.
Conservare questa distanza, ecco il problema più insidioso. Di norma, il
traduttore ricorre a un lessico arcaico, aulico, illustre: ma questo per sua
natura addita, semmai, una lontananza storica, ancora interna alla dimensione
lineare del tempo. Qui, già l’incipit
suona diversamente dal consueto: non “Ermes ctonio”, bensì “Ermes dei morti”.
Sanguineti suscita la solennità e il decoro, che si addicono alle vicende del
mito, attraverso altri mezzi: l’ellissi, la concentrata fissità delle sentenze
(“chi fa, soffra”) e, soprattutto, il ritmo. La sua è, certo, una
versificazione libera, ma profondamente “regolata”, tale da rendere palese
anche a uno spoglio sommario una serie di fenomeni rilevanti: l’uso frequente
dell’allitterazione, il ricorso alla figura etimologica (“Per me, e per te,
allora, io devo pregare questa preghiera?”), la prolessi del pronome, che il
Leopardi avrebbe definito una “sprezzatura” peregrina nella sua apparente
colloquialità (“Le ha già, il padre, le offerte che la terra beve”). Il verso
si costituisce come un’integrazione di fattori fonetici, sintattici e
lessicali, predisposta sin dall’inizio alla ricezione: cioè all’evento,
interiormente misurato, che oltre la soglia invalicabile del proscenio evoca e
purifica l’emozione dello spettatore per virtù stessa della sua conchiusa distanza.
Si riproducono,
insomma, le condizioni della catarsi aristotelica: che, se non è un principio
estetico generalmente valido, ci restituisce comunque la verità storica, la
“poetica” a cui gran parte della tragedia classica s’ispira. La
rappresentazione è là, uguale per
tutti. Rispecchiandosi in essa, l’irriducibile individualità del sentimento
vissuto, pietà o terrore, si riscopre condivisa da un uditorio universale. Così
che resti sancita e continui a rinnovarsi la parola originaria:
“Nessuno, tra gli effimeri,
varcherà illeso
Tutto il tempo vitale,
senza pagarlo”.
f. b.
* Testo: Introduzione a Eschilo, Le Coefore, Traduzione di Edoardo Sanguineti, Il Saggiatore, Biblioteca delle Silerchie CIV, 1978, edizione esclusiva per il XXV ciclo dio spettacoli classici dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico.
** Fotografia: locandina ufficiale per la rappresentazione de Le Coefore di Eschilo per la regia di Giuseppe Di Martino al Teatro Antico di Siracusa, 1° giugno 1978.
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