domenica 5 agosto 2012

Le Coefore nella traduzione di Edoardo Sanguineti


Le Coefore
nella traduzione di Edoardo Sanguineti

L’osservazione è banale, anche se non è mancato chi, come Walter Benjamin, ha saputo divinarne implicazioni arcane e peregrine: certo è che, fra tutti i prodotti letterari, più che mai davanti a una traduzione potremo dire a buon diritto “in principio era la parola”. Se poi la parola è quella di Eschilo, e il traduttore si chiama Edoardo Sanguineti, dall’ovvietà sembrano dischiudersi suggestioni particolarmente insinuanti. Letteratura che si nutre di letteratura, oggetto verbale che trae la sua vita da un altro oggetto verbale, questa volta la traduzione pone a confronto un leader dell’avanguardia, il poeta di Liborintus e di Wirrwarr, con il fondatore, nientemeno, della tragedia classica. Il lettore può immaginare da solo le acrobazie che, con un po’ d’ingegno e di spregiudicatezza, non sarebbe poi tanto arduo improvvisare sul tema.
In verità, la suggestione è abbastanza capziosa ed estrinseca. L’avanguardia non ha, naturalmente, nulla a che spartire con l’iconoclastia goliardica, se non nella pigrizia degli interpreti. Inoltre, l’opera del traduttore implica sempre la mediazione di una filologia, o comunque di una disciplina esegetica: e Sanguineti, come è noto, sa affidarsi con altrettanta naturalezza, oltre che agli strumenti della scrittura, alle strategie tortuose e riflesse della critica. Felice coincidenza, che del resto ha già fatto le sue prove in altre traduzioni esemplari: Le Baccanti di Euripide, la Fedra di Seneca, Le Troiane ancora di Euripide e, fuori dal genere teatrale, Il Giuoco del Satyricon. A continuare la serie viene ora la versione delle Coefore. Sarà bene, allora, parlare di questa così come si offre al lettore, iuxta propria principia.
La tragedia è la seconda (dopo l’Agamennone e prima delle Eumenidi) dell’unica trilogia tramandataci integra dall’antichità, l’Orestea. Ed è quella appunto in cui entra in scena l’eroe eponimo, tornato in Argo con l’amico Pilade per vendicare, secondo l’ordine di Apollo, la morte del padre. Vendetta atroce perché egli dovrà uccidere, con l’usurpatore Egisto, anche la propria madre, Clitemnestra. La prima parte del dramma si svolge davanti alla tomba di Agamennone, dove Oreste vede sopraggiungere Elettra, accompagnata dal Coro di ancelle (le coefere, ossia portatrici di libagioni), venute a celebrare riti funebri per placare l’ombra del morto: egli si rivela alla sorella, e con evoca il padre affinché lo assista nell’impresa. È in sostanza una lunga lamentazione, rievocativa e propiziatoria, attraverso la quale Oreste vince l’orrore del matricidio e si persuade ad agire. Segue serrata e fulminea la catastrofe. Elettra ora è assente, e il solo Oreste domina la scena, nella sua angoscia d’azione: intorno a lui si moltiplicano, in fugaci apparizioni, i personaggi (lo schiavo, la nutrice, Egisto), fino al dialogo terribile e risolutivo con l’antagonista, la madre. A differenza di Amleto (che in fondo deve uccidere solo l’usurpatore, anche se poi diventa causa di morte anche alla regina), Oreste ha avuto la forza di respingere il dubbio che l’attanaglia: ma già le mostruose Erinni custodi dei sacri vincoli di sangue, vengono a perseguitare l’eroe, che fugge per un nuovo esilio. La tragedia non ha dunque scioglimento, perché con la catastrofe finale apre al contempo un dilemma ulteriore nella coscienza del pubblico. L’intreccio inestricabile della “pietà” e del “terrore” resta sospeso davanti a un conflitto morale che non ha soluzione.
Il testo delle Coefore ci è pervenuto attraverso un unico codice, il Mediceus o Laurentianus XXXII 9, risalente al decimo o undicesimo secolo. E questo complica, anziché semplificare, il problema filologico, perché gli interrogativi che esso solleva non trovano neppure quella possibilità di risposta che spesso offre una collazione, un confronto sistematico fra più codici. In assenza di orientamenti ausiliari, per quanto concerne i passi controversi, il traduttore deve tuttavia compiere una scelta, soprattutto se il suo lavoro ha come in questo caso una destinazione precisa: la scena del teatro di Siracusa, dove le Coefere saranno rappresentate, per la regia di Giuseppe Di Martino, il 1° giugno 1978.
La funzionalità teatrale si impone pertanto, nella circostanza, come il solo criterio effettivo e responsabile. Un criterio che si rivela pertinente, al di là delle scelte testuali, anche per la veste linguistica medesima assunta dalla traduzione. Come l’epos, così il mito tragico si colloca, per dirla con Bachtin, in un “passato assoluto”, e una “distanza assoluta” lo separa dal pubblico. Conservare questa distanza, ecco il problema più insidioso. Di norma, il traduttore ricorre a un lessico arcaico, aulico, illustre: ma questo per sua natura addita, semmai, una lontananza storica, ancora interna alla dimensione lineare del tempo. Qui, già l’incipit suona diversamente dal consueto: non “Ermes ctonio”, bensì “Ermes dei morti”. Sanguineti suscita la solennità e il decoro, che si addicono alle vicende del mito, attraverso altri mezzi: l’ellissi, la concentrata fissità delle sentenze (“chi fa, soffra”) e, soprattutto, il ritmo. La sua è, certo, una versificazione libera, ma profondamente “regolata”, tale da rendere palese anche a uno spoglio sommario una serie di fenomeni rilevanti: l’uso frequente dell’allitterazione, il ricorso alla figura etimologica (“Per me, e per te, allora, io devo pregare questa preghiera?”), la prolessi del pronome, che il Leopardi avrebbe definito una “sprezzatura” peregrina nella sua apparente colloquialità (“Le ha già, il padre, le offerte che la terra beve”). Il verso si costituisce come un’integrazione di fattori fonetici, sintattici e lessicali, predisposta sin dall’inizio alla ricezione: cioè all’evento, interiormente misurato, che oltre la soglia invalicabile del proscenio evoca e purifica l’emozione dello spettatore per virtù stessa della sua conchiusa distanza.
Si riproducono, insomma, le condizioni della catarsi aristotelica: che, se non è un principio estetico generalmente valido, ci restituisce comunque la verità storica, la “poetica” a cui gran parte della tragedia classica s’ispira. La rappresentazione è , uguale per tutti. Rispecchiandosi in essa, l’irriducibile individualità del sentimento vissuto, pietà o terrore, si riscopre condivisa da un uditorio universale. Così che resti sancita e continui a rinnovarsi la parola originaria:

“Nessuno, tra gli effimeri, varcherà illeso
Tutto il tempo vitale, senza pagarlo”.

f. b.


* Testo: Introduzione a Eschilo, Le Coefore,  Traduzione di Edoardo Sanguineti, Il Saggiatore, Biblioteca delle Silerchie CIV, 1978, edizione esclusiva per il XXV ciclo dio spettacoli classici dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico.

** Fotografia: locandina ufficiale per la rappresentazione de Le Coefore di Eschilo per la regia di Giuseppe Di Martino al Teatro Antico di Siracusa, 1° giugno 1978.

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