Pino Cacucci
Forfora
Prima era solo atterrito dal contenuto della busta gialla; adesso, invece, tutta la sua apprensione si era concentrata su quella che, in fondo, era soltanto una sgradevole conseguenza dell’intera situazione. E poi lo specchio non si limitava a rimandargli l’immagine dello scempio, ma gli conficcava nella retina il crollo di tanti mesi di sacrifici, attenzioni, rinunce, rievocandogli tutti i sapori dei cibi che il cervello si era imposto di dimenticare. Sfiorò con le dita tremanti il confine tra il naso e la guancia. Ormai non aveva più dubbi: era proprio un attacco di fegato.
Una costellazione di pustoline purpuree sullo sfondo di una nebulosa cremisi devastava impietosamente il lavoro lento e costante della lampada al quarzo. Ore e ore di esposizione, trattamento idratante, massaggi, e in un colpo tutta quella paziente fatica finiva distrutta da una raffica di brufoletti, da un bombardamento a tappeto di macchie rossastre e squamette giallognole… Quante volte, a tavola, si era concentrato sul suo piatto di carote lesse nel tentativo di isolarsi dal mondo, e ignorare così le pozzanghere di salsa in cui i colleghi affondavano bocconi di carne sanguinolenta, e lui, pusillanime, a dire “ma come fa a piacervi quella roba”, mentre, sotto il tavolo, si scorticava i polpacci avvinghiandoci i piedi attorno. E quante altre aveva convinto amici invitanti di non avere assolutamente appetito, adducendo un grossolano “m’è rimasta la colazione sullo stomaco”, e poi, di nascosto, si sorbiva qualche intruglio macrobiotico a base di liquidi melmosi e cereali. Tutto questo, per finire nello spazio di una sola notte ridotto come un qualsiasi divoratore di mortadelle.
Aveva gravato sulle casse della pubblica assistenza con centinaia di fiale di coadiuvanti epatici, convincendo la propria coscienza che ciò aveva pur sempre uno scopo sociale, perché l’aspetto sano era un’ottima referenza per un funzionario di una grande lega delle cooperative addetto alle pubbliche relazioni. Mansione che, a onor del vero, svolgeva egregiamente. E adesso eccolo là, a guardarsi quella faccia che poteva benissimo appartenere a uno stradino che tira a fare sera ingurgitando insaccati e lambrusco.
Insinuò il medio e l’indice dietro l’orecchio, e strofinò un paio di volte. Ritrasse i polpastrelli con il gesto grave di un soldato che si tocca la ferita per vedere cosa ne stia uscendo: erano ricoperti di forfora. Sempre che si potesse usare quel termine per i fiocchi d’avena che stavano sciamando sul colletto e sulle spalle. L’aveva sconfitta da quasi un anno, la forfora. Il dermatologo aveva diagnosticato che dipendeva dal funzionamento del fegato, e questa ne era la conferma. Una rabbia sorda si sostituì alla depressione. Come poteva presentarsi alle riunioni con le autorità regionali, quando il completo scuro avrebbe reso ripugnanti quelle vistosissime cialde bianche, e la sua faccia, specchio dell’anima, era una specie di torta al mirtillo bacchettata dai piccioni…
Le dieci del mattino, e si trovava ancora in mutande e canottiera. Doveva fare qualcosa. Cercò sulla scrivania il tubetto di crema al cortisone, ma lo sguardo andò a cozzare contro la bottiglia di grappa, quella che teneva in casa esclusivamente per gli ospiti.
Tre dita, ne erano rimaste. Meritava disprezzo. Provò un cocente desiderio di espiazione, di avere vicino qualcuno che lo insultasse. Un amico che gli desse dell’imbecille, gli urlasse in faccia che un uomo non deve lasciarsi andare così di fronte a un imprevisto. Ma era solo, e sbattere la testa contro il muro gli avrebbe procurato anche un livido bluastro sulla fronte. Doveva pensarci prima, al fegato e a tutto il resto… Già, la sera prima. Lo spettro della bottiglia semivuota lo riportò bruscamente indietro, e se per dimenticare gi era servita una notte insonne e un’ubriacatura, per il cammino inverso bastò un attimo. Una lama di gelo gli scivolò lungo la schiena, e si sentì ogni pelo del suo corpo sollevarsi e irrigidirsi. Rivide Nilde, la signora che veniva a pulire la casa quattro giorni la settimana, porgergli la posta del mattino e salutarlo con il consueto borbottio imbronciato. Rivide quella busta gialla e l’intestazione, “Ministero di Grazia e Giustizia”, con lo stemma statale.
Cercò la lettera maledetta, e per qualche secondo si lasciò cullare dall’illusione che fosse stato un incubo di quella miserabile serata. Ma durò poco, perché il foglio, spiegazzato e sporco di cenere, troneggiava oscenamente sul comodino. Appoggiò una mano sul letto, e protese l’altra annaspando, quasi che muovere un solo passo verso quell’oggetto significasse in qualche modo affermarne l’esistenza. Lo prese con due dita. Seduto sulle lenzuola ammonticchiate, passò più volte il dorso della mano sul foglio, spianandone le pieghe.
“Le comunichiamo che il Suo nominativo è stato fornito dall’Amministrazione Provinciale in seguito a regolare estrazione. Pertanto è invitato a presentarsi presso l’Ufficio Partecipazione Cittadini del Tribunale di codesta città alla data e orario riportati, munito di documenti personali. Si avverte che la mancata presenza non supportata da motivazioni certificabili è passibile eccetera, eccetera, eccetera.”
Proprio lui. Su sessanta milioni di italiani, avevano estratto lui. Una beffa, una ritorsione del destino. Perché lui, anni addietro, era stato uno dei principali sostenitori di quella legge sulla partecipazione diretta. Molto tempo prima, quando la stragrande maggioranza della popolazione si era espressa a favore di leggi più severe che incidessero maggiormente sul degrado dell’ordine pubblico. Ma il plotone composto da militari rappresentava un legame con il passato remoto, quando il reo veniva giustiziato nel nome di un monarca. E neppure la figura del carnefice di professione era in sintonia con il nuovo volto della democrazia globale, dove il coinvolgimento dei cittadini non doveva avere zone franche. Così come non esisteva il giudice popolare di professione, allo stesso modo non poteva esistere una categoria di persone che di mestiere eseguiva condanne.
Ma tra l’abbracciare con entusiasmo le innovazioni, e il vedersi recapitare a casa la nomina a boia occasionale – nei momenti di sconforto si usano sempre terminologie più crude del dovuto – chissà perché, c’è sempre un divario stridente che nessuno potrebbe comprendere senza vivere tale esperienza. È strano come si accetti un’idea finché rappresenta la generalità, e poi, se la stessa ci coinvolge nel particolare, la si veda completamente diversa e ci faccia sentire infinitamente soli, isolati, esclusi…
Versò le ultime tre dita di grappa nella tazza sporca e si sdraiò sul letto, cercando tra le lenzuola qualche sigaretta superstite. Dopo un anno di resistenza, aveva anche ripreso a fumare.
* Copertina scaricata free copy da internet.
** Testo: esordio del racconto dall'omonima antologia "Forfora", Granata Press, Bologna, Collana Asfalto, 1993.
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