mercoledì 23 novembre 2011

Charles Bukowski, Post Office, dialoghi & ritratti


    Due delle maggiori caratteristiche nella scrittura in prosa di Bukowski sono i dialoghi e i ritratti. I primi si presentano sempre come dei racconti a sé; i secondi sono talmente potenti e ben definiti da rendere un'immagine plastica del personaggio. Con questa selezione di dialoghi & ritratti, estrapolati da uno dei suoi capolavori, Post office, cominciamo una carellata di pubblicazioni che ci faranno conoscere meglio lo scrittore Charles Bukowski, poeta e narratore tra i più amati e discussi di tutto il secolo scorso.

     Post office: dialoghi

“Ti credi furbo, tu, eh, a fare queste puttanate?”.
“Preferirei che non usasse questo linguaggio, signore!”.
“Ti credi furbo, eh? Sei uno di quei figli di puttana con un sacco di paroloni in bocca e ti diverti a metter giù merda, eh?”.
Agitò i miei fogli nella mia direzione. e urlò: “MR. JONSTONE È UNA BRAVA PERSONA!”.
“Non dica sciocchezze. È ovviamente un sadico”, dissi io.

Uscii fuori, il vecchio catorcio si mise in moto e dopo un po’ ero di nuovo a letto con Betty.
“Oh, Hank! Che bello!”.
“Certo, piccola!”. Glielo appoggiai al culo caldo e 45 secondi dopo dormivo come un sasso.

Si aprì una porta e una vecchia fece la domanda che mi facevano cento volte al giorno.
“Dov’è il postino, oggi?”.
“Signora, LA PREGO, come crede che faccia a saperlo? Come cazzo faccio a saperlo? Io sono qui è lui è da qualche altra parte!”.
“Oh, ma lo sa che lei è proprio un tipaccio!”.
“Un tipaccio?”.
“Sì”.

La testa si spostò in avanti e lei mi guardò al di sopra degli occhiali.
“Desidera?”.
“Voglio licenziarmi”.
Licenziarsi?”.
“Sì, licenzirmi”.
“Ma lei è fisso?”.
“Sì”, dissi io.
“Tks, tks, tks, tks, tks, tks, tks”, fece lei, con quelle labbra secche.
Mi diede i moduli e io cominciai a riempirli.
“Da quanto tempo lavora alle poste?”.
“Tre anni e mezzo”.
“Tks, tks, tks, tks, tks, tks, tks, tks”, fece lei, “Tks, tks, tks, tks”.
E così era fatta. Andai a casa da Betty e stappammo la bottiglia.

“Ce ne andiamo”, gli dissi.
“Dovresti star qui, tu”, disse lui, “è una bella vita. Caccia e pesca. Aria buona. E niente grane. Sei il padrone di questa città”, disse lui.
“Lo so, dott, ma è lei che porta i pantaloni”.

“Dovremmo trovarci un lavoro, tutt’e due”, disse Joyce, “ per provargli che non stiamo dietro ai loro soldi. Per provargli che sei autosufficiente”.
“Piccola, non essere ingenua. Qualunque stronzo è capace di trovarsi uno straccio di lavoro; invece ci vuole cervello per cavarsela senza lavorare. Qui la chiamano l’arte di arrangiarsi. E io voglio diventare maestro in quest’arte”.
Ma lei non voleva saperne.

Andai in cucina e vidi il cane. Lui non ci vedeva. Aveva gli occhi coperti dal pelo. Lo guardai muoversi. Poi lo presi su e gli guardai gli occhi. Povero Picasso!
“Piccola, lo sai cos’hai fatto?”.
“Non ti piace?”.
“Non ho detto che non mi piace. Ma è minorato. Ha un quoziente d’intelligenza di 12 circa. Ti sei portata a casa un cane idiota”.
“Come fai a dirlo?”.
“Basta guardarlo”.

Restai lì con i miei vestiti alla moda. Restai lì con le mani in tasca.
“Chinaski, che cosa c’è?”, chiese l’istruttore. “So che puoi farcela”.
“Sì. Sì. Adesso sto pensando”.
“A che cosa?”.
“A niente”.
Poi me ne andai.

“ATTENZIONE! A TUTTI I SUPPLENTI DEL GRUPPO 409!...”.
Io ero nel gruppo 409.
“… I QUATTRO GIORNI DI RIPOSO SONO STATI ANNULLATI. DURANTE QUESTI 4 GIORNI SIETE TENUTI A PRESENTARVI AL LAVORO!”.

La portai in cucina e le feci vedere la roba sulla tavola.
“L’ho cucinata per te, questa roba”, dissi, “in nome del nostro amore”.
“Che cazzo di roba merdosa è questa?”, chiese lei.
“Lumache”.
“Lumache?”.
“Sì, ti rendi conto che per secoli e secoli gli orientali si sono nutriti solo di roba come questa? Rendiamo onore a loro e a noi stessi. Sono fritte nel burro”.
Joyce entrò in cucina e si sedette.

Tornai a letto, le accarezzai la schiena, la accarezzai, la accarezzai, si calmò… poi scoppiò di nuovo a piangere.
“Oh, Hank, ti amo, ti amo, scusami, scusami scusami!”.
Era davvero sconvolta.
Dopo un po’ cominciai a sentirmi come se fossi io quello che aveva chiesto il divorzio.
Poi ne facemmo una eccezionale, in nome dei vecchi tempi.

Incontrai Betty per la strada.
“Ti ho visto con quella puttana un po’ di tempo fa. Non è il tuo tipo”.
“Nessuna è il mio tipo”.
Le dissi che era finita. Andammo a berci una birra. Betty era invecchiata, molto in fretta. Si era appesantita. Le rughe erano diventate più profonde. Carne che pendeva sotto il mento. Era triste. Ma anch’io ero invecchiato.

Vi scese dalle mie ginocchia.
“No, voglio farti vedere una foto di mia figlia. Sta a Detroit con mia madre. Ma in autunno viene qui per andare a scuola”.
“Quanti anni ha?”.
“Sei”.
“E il padre?”.
“Ho divorziato da Roy. Quel figlio di puttana, quel bastardo! Capace solo di bere e giocare alle corse”.
“Ah?”.

“E voglio dirle una cosa, Chinaski, in via del tutto personale”.
“Dica pure”.
“Quando lei non telefona per avvertirci, sa che cosa sta praticamente dicendo?”.
“No”.
“Mr. Chinaski, lei sta praticamente dicendo, ‘affanculo le poste!’”.
“Davvero?”.
“E, Mr. Chinaski, sa cosa vuol dire questo?”.
“No, che cosa vuol dire?”.
“Vuol dire, Mr. Chinaski, che saranno le poste a mandarla in culo!”.
Poi si appoggiò allo schienale della sedia e mi guardò.
“Mr. Feathers”, gli dissi, “vada in culo”.

Continuammo a bere. Mary Lou mi portò fortuna. Vinsi due delle ultime tre corse.
“Sei venuta in macchina?”, le chiesi.
“Sono venuta con uno stronzo”, disse lei. “Che vada in culo”.
“Se ce lo mandi tu, figurati se non ce lo mando io”, le dissi.

Aprì la bottiglia di Mary Lou, le versò un bicchiere. Poi mi chiese:
“Bicchiere?”.
“No, grazie”.
Mi alzai e scambiai la mia bottiglia con la sua.
Restammo lì a bere birra in silenzio.
Poi lui disse: “Sei abbastanza uomo da portarmela via?”.
“Cazzo, non lo so. Tocca a lei scegliere. Se vuol restare con te, può restare. Perché non glielo chiedi?”.
“Mary Lou, vuoi restare con me?”.
“No”, disse lei, “vado con lui”.

Poi per due volte di fila, tornando a casa la mattina, alle ore piccole, trovai Fay sveglia e intenta a leggere gli annunci sul giornale.
“Gli affitti sono andati alle stelle”, disse.
“Sì”, dissi io.
La sera dopo, mentre leggeva il giornale, le chiesi:
“Te ne vuoi andare?”.
“Sì”.
“Va bene. Ti aiuterò a cercare una casa, domani. Ti porterò in giro in macchina”.
Acconsentii a pagarle una certa somma tutti i mesi. Lei disse: “Va bene”.
Fay si tenne la bambina. Io mi tenni il gatto.

 “Ti spiego. E se per caso un impiegato con un bravo avvocato si facesse male sbattendo contro una fontanella? Mettiamo che un carrello pieno di sacchi di riviste, pesanti, lo schiacci contro una fontanella”.
“Adesso capisco. La fontanella non dovrebbe esserci. È abusiva. L’impiegato cita le poste per danni”.
“Giusto!”.
“Va bene. grazie, Parker”.
“Dovere”.
Se l’aveva inventata, quella storia, valeva i miei fottutissima 312 dollari. Mi era capitato di trovare di peggio su ‘Playboy’.

“Non ti ricordi di lei?”, chiese il ragazzo. “Hai detto che volevi scopartela”.
Lei rise.
“Bene, ma non adesso”.
“Chinaski, ma come credi che tirerai avanti senza le poste?”.
“Non so. Forse me la scoperò. O mi farò scopare da te. Cazzo, non so”.
“Puoi dormire sul pavimento di casa nostra quando ti pare”.
“Posso guardarvi scopare?”.
“Certo”.





Post office: ritratti

Fu più o meno al secondo giorno come postino natalizio straordinario che arrivò questo donnone che cominciò a venire in giro con me a consegnare le lettere. Dico donnone perché era grossa, nel senso che aveva il culo grosso e le tette grosse ed era grossa in tutti i punti giusti. Sembrava un po’ matta ma io continuavo a guardarle le tette il culo e il resto e mi andava bene così.
Parlava e parlava e parlava. Poi venne fuori. Suo marito lavorava su un’isola, lontano, e lei si sentiva sola, capite e viveva in una casetta in una stradina laterale tutta sola.

Il capo era un tipo col collo taurino di nome Jonstone. In quell’ufficio mancava personale e capii subito perché. Jonstone amava indossare camicie rosso cupo… che significavano pericolo e sangue.

Bisognava essere in ufficio alle 5 del mattino e io ero l’unico che beveva. Stavo sempre alzato a bere fin dopo mezzanotte, e poi dovevo essere là, alle 5 del mattino, ad aspettare di cominciare, ad aspettare che qualche postino fisso si desse malato.

«Chinaski! Percorso 539!».
Il più duro di tutti. Caseggiati con le cassette coi nomi semicancellati o addirittura inesistenti, sotto minuscole lampadine in atri oscuri. Vecchie in piedi nell’atrio, su e giù per le strade, sempre con la stessa domanda, come se fossero una sola persona con una sola voce:
«Postino, c’è posta per me?».

Quella mattina mi mandarono alla Wently Station. C’era uno di quei temporali di 5 giorni in cui la pioggia è una cortina ininterrotta e la città scazza, tutti scazzano, le fogne non riescono a inghiottire l’acqua che trabocca sui marciapiedi e in certe zone anche nei giardini e nelle case.

Il postino preferito di Stone era Matthew Battles. Battles non aveva mai nemmeno una piegolina sulla camicia. In effetti aveva sempre addosso roba nuova, che sembrava nuova. Le scarpe, le camicie, i pantaloni, il berretto. Aveva sempre le scarpe luccicanti e sembrava che i suoi vestiti non fossero stati lavati nemmeno una volta. Quando su una camicia o su un paio di pantaloni c’era una macchiolina, li buttava via.

Quella gente non teneva nemmeno cani. Nessuno stava fuori dalla porta ad aspettare la posta. Non sentivo una voce umana da ore. Forse avevo raggiunto la maturità postale, qualunque cosa fosse. Continuai a camminare, efficiente, quasi impegnato.

La porta si aprì e lei corse fuori. Aveva addosso una di quelle vestaglie trasparenti e non portava il reggiseno. Solo un paio di mutandine azzurre. Aveva i capelli spettinati, a ciocche ritte sulla testa come se stessero cercando di scappar via. Doveva avere una crema in faccia, sotto gli occhi, per lo più. Aveva una pelle bianca come se non avesse mai visto il sole e un colorito malsano. Teneva la bocca aperta. Portava un velo di rossetto e aveva un sacco di ciccia nei punti…

Perdevo birra e whiskey, a fontanella, dalle ascelle, e andavo in giro con quella croce sulle spalle, tiravo fuori riviste, consegnavo migliaia di lettere, barcollando, col sole che picchiava.

La fermata dopo era una casa a due piani, abbastanza nuova, con dieci o dodici appartamenti. La cassetta era sul davanti, sotto il tetto della veranda. Finalmente un po’ d’ombra. Misi la chiave nella serratura della cassetta e la aprii.

Una mattina stavo sistemando la posta nel casellario vicino a G. G. Lo chiamavano tutti così: G. G. In realtà si chiamava George Green. Ma lo chiamavano G. G. da anni e ormai sembrava proprio un G. G. Faceva il postino da quando aveva vent’anni e adesso ne aveva quasi sessanta. Non aveva più voce. Non parlava. Gracchiava. E quando gracchiava, non diceva molto. Non era né simpatico né antipatico. Era l^ e basta. La sua faccia si era raggrinzita in strane rughe e rigonfi di carne repellente. Non c’era luce nei suoi occhi. Era solo un vecchio indurito che aveva lavorato tutta la vita: G. G. Aveva gli occhi come pezzetti di argilla opaca lasciati cadere dentro le orbite. Era meglio non pensare a lui, non guardarlo.

Nessuno rivolgeva mai la parola al postino in quella zona. Non si vedeva mai nessuno. Si incontrava qualche persona solo all’inizio del percorso, dove c’erano case meno lussuose, e lì c’erano anche i bambini che rompevano le scatole. Voglio dire, G. G. era scapolo. E aveva un fischietto. All’inizio del giro si piantava in mezzo al marciapiede dritto come un fuso, tirava fuori il fischietto, un bel fischietto grosso, e fischiava, sputacchiando in tutte le direzioni. Questo per far sapere che era arrivato. Portava le caramelle ai bambini. Loro arrivavano di corsa e lui gli dava le caramelle e intanto continuava giù per la strada. Buon vecchio G. G.

Prima che potessi rendermene conto di quello che stava succedendo, mi trovai con una texana tra le palle. Vi risparmio i particolari, come c’eravamo conosciuti, ecc. L’importante è che ci mettemmo insieme. Lei aveva 23 anni. Io 36.
Aveva lunghi capelli biondi ed era un bel pezzo di carne fresca e soda. Allora mnon lo sapevo, ma aveva anche un sacco di soldi. Lei non beveva, io sì. I primi tempi ci divertivamo come matti. Andavamo insieme alle corse. Lei era un gran pezzo di fica, e tutte le volte che tornavo al mio posto trovavo qualche segaiolo che cercava di attaccare bottone. Ce n’erano a dozzine. Si avvicinavano senza parere e cercavano di attaccare bottone. Joyce non faceva niente. Toccava a me risolvere la situazione, e c’erano solo due cose da fare. O prendere Joyce e andare a sedersi da un’altra parte o dire al tizio:
«Senti, bello, questa è già occupata! Adesso aria!».

Stavano cercando di farmi fuori, ecco cosa stavano cercando di fare. Era ovvio. Il nano era sposato con una ragazza bellissima. A quindici anni le era restata una bottiglia di coca cola intrappolata nella passera e aveva dovuto andare dal dottore a farsela tirare fuori, e, come succede sempre nelle città piccole, si era sparsa la voce di quella bottiglia di coca cola, la povera ragazza era stata segnata a dito, e il nano era l’unico che si fosse offerto di sposarla. Si era beccato il meglio pezzo di fica della città.

Le dissi che era finita. Andammo a berci una birra. Betty era invecchiata, molto in fretta. Si era appesantita, molto in fretta. Si era appesantita. Le rughe erano diventate più profonde. Carne che pendeva sotto il mento. Era triste. Ma anch’io ero invecchiato.

Ero andato alle corse anche dopo gli altri funerali e avevo sempre vinto. C’era qualcosa nei funerali che ti faceva vedere le cose più chiaramente. Un funerale al giorno e sarei diventato ricco. 

Poi conobbi Davis Janko in ufficio. Era un bianco sui vent’anni. Commisi l’errore di attaccar discorso con lui, qualcosa sulla musica classica. In quel periodo andavo forte con la musica classica perché era l’unica cosa che riuscivo ad ascoltare mentre bevevo birra a letto la mattina presto. Se si ascolta una cosa tutte le mattine non si può fare a meno di ricordarsela. E quando Joyce aveva chiesto il divorzio mi ero portato via per sbaglio due volumi de Le vite dei compositori classici e moderni.

Poi studiai un nuovo sistema per vincere alle corse. Tirai su 3.000 dollari in un mese e mezzo, e andavo alle corse solo due o tre volte alla settimana. Cominciai a sognare a occhi aperti. Vedevo una casetta in riva al mare. Mi vedevo ben vestito, tranquillo, alzarmi la mattina, salire nella mia macchina straniera, guidare con calma fino alle corse. Vedevo piacevoli cenette a base di bistecche, precedute e seguite da fantastici cocktail in bicchieri colorati. Una buona mancia. Un sigaro. Donne a pacchi. Mi bastava alzare un dito.

Un giorno ero al bar tra una corsa e l’altra e vidi una donna. Dio o qualcun altro continua a creare le donne e a mandarle in giro, e una ha il culo troppo grosso, l’altra le tette troppo piccole, una è pazza e l’altra è suonata, una ha la mania della religione e l’altra legge le foglie del tè, una non riesce a controllare le scoregge, l’altra ha il naso grosso, e l’altra ancora ha le gambe secche…
Ma ogni tanto arriva una donna, in pieno rigoglio, una donna che scoppia dal vestito… una creatura tutta sesso, una maledizione, la fine di tutto. Alzai gli occhi e la vidi, in fondo al banco. Era già ubriaca e il barista non voleva più darle da bere e lei cominciò a far casino e chiamarono uno dei poliziotti dell’ippodromo e il poliziotto dell’ippodromo la prese per un braccio, fece per portarla via, le parlava e lei rispondeva.

In macchina ci avviluppammo e lei mi mise la lingua in bocca, e la muoveva dentro e fuori come un serpentello. La lasciai andare e partimmo giù lungo la costa. Era una serata fortunata. Riuscii ad avere un tavolo con vista sull’oceano, ordinammo da bere e aspettammo le bistecche. La guardavano tutti. Mi chinai in avanti e le accesi la sigaretta, pensando, questa è una bella scopata. Tutti là dentro sapevano cosa stavo pensando e Mary Lou sapeva cosa stavo pensando, e io le sorrisi sopra la fiammella.

C’era questo posto che si stendeva sull’oceano. Era costruito sull’oceano. Un posto vecchio, ma con un tocco di classe. Ci diedero un posto al primo piano. Si sentiva l’oceano rompersi di sotto, si sentivano le onde, si sentiva l’odore dell’oceano, si sentiva il rumore della risacca, andava e veniva, andava e veniva.


Fay aveva i capelli grigi e si vestiva sempre di nero. Per protesta contro la guerra, diceva. Ma se Fay voleva protestare contro la guerra, a me andava benissimo. Era una specie di scrittrice e frequentava due laboratori di scrittura. Pensava sempre a come salvare il Mondo. A me andava benissimo, purché fosse lei a darsi da fare. Viveva con gli alimenti che le passava l’ex-marito (avevano 3 figli) e ogni tanto anche sua madre le mandava qualcosa. Fay non aveva lavorato più di un paio di volte in vita sua.

Forse sarebbe davvero riuscita a salvare il mondo. Ammiravo la sua calma. Le perdonai i piatti sporchi e il “New Yorker” e il laboratorio di scrittura. La ragazza era solo un’altra creatura sola in un mondo ostile.

Guardai oltre il vetro. L’infermiera mi indicò la bambina. La bambina aveva la faccia molto rossa e strillava più forte di tutti gli altri bambini. La stanza era piena di bambini urlanti. Quanti ne nascevano! L’infermiera sembrava molto orgogliosa della mia bambina. Almeno, speravo che fosse mia. La prese su per farmela vedere meglio. Sorrisi dall’altra parte del vetro, non sapevo come comportarmi. L bambina continuava a strillare. Poverina, pensai, povera fottuta cosina. Allora non sapevo che un giorno sarebbe diventata una bella ragazza che mi somigliava come una goccia d’acqua, ahahah.

Smistai ancora un po’ di lettere, arrivò il direttore. Un ometto bianco e sottile con due ciuffetti di capelli grigi sopra le orecchie. Lo guardai, poi mi voltai e infilai dentro qualche altra lettera.

Fay si vestiva ancora di nero per protesta contro la guerra. Andava alle manifestazioni pacifiste, ai love-in, andava ai reading di poesia, partecipava ai laboratori di scrittura, alle riunioni del partito comuinista, e passava le giornate in caffè hippie. Si portava dietro la bambina. Se non era fuori era a casa seduta in poltrona a fumare una sigaretta dopo l’altra e a leggere. Portava bottoni con scritte di protesta, sulla camicetta nera. Ma di solito quando andavo a trovarla era fuori da qualche parte con la bambina.

Quegli undici anni mi passarono nel cervello in un lampo. Avevo visto uomini distrutti da quel lavoro. Si erano liquefatti. C’era stato Jimmy Potts della Dorsey Station. Quando ero arrivato io, Jimmy era un tipo robusto in maglietta bianca. Ora era finito. Abbassava lo sgabello più che poteva e si teneva con i piedi per non cadere. Era troppo stanco per farsi tagliare i capelli e portava lo stesso paio di pantaloni da 3 anni. Cambiava la camici8a due volte alla settimana e camminava molto piano. L’avevano assassinato. Aveva 55 anni. Ancora 7 prima della pensione.

Entrai nell’ufficio dell’addetto ai rapporti del personale. Dietro la scrivania c’era Eddie Volpe. Gli impiegati lo chiamavano “Faccia di volpe”. Aveva la testa a punta, il naso a punta, il mento a punta. Era tutto punte. E faceva sempre il punto della situazione.

Passò un bel po’ di tempo, poi eccoli lì…. Parker Anderson. Parker dormiva in una vecchia macchina usata e si rinfrescava e si faceva la barba alle stazioni di servizio che non chiudevano a chiave la toilette. Parker aveva cercato di darsi da fare per raccattare soldi senza lavorare ma non ci era riuscito. Allora era venuto alle poste centrali, si era iscritto al sindacato e aveva cominciato ad andare alle riunioni dov’era diventato subito un capetto. Dopo un po’ era stato eletto rappresentante sindacale, e poi vicepresidente.

Parker era con un ragazzo bianco… uno della tribù dei nevrotici perduti… e gli occhi del ragazzo erano offuscati da strati di lacrime. Una lacrimona per occhio. Non cadevano. Era una cosa affascinante. Avevo visto un sacco di donne con quegli occhi prima di arrabbiarsi e mettersi a urlare che razza di figlio di puttana ero io. Evidentemente il ragazzo era cascato in una delle trappole, ed era corso da Parker. Parker gli avrebbe salvato il posto.

Alzai gli occhi e vidi lo studente di medicina. Tra di noi sul tavolino basso c’era un cuore umano in un bel barattolone di vetro di quelli per la marmellata. Tutt’intorno al cuore umano, che si chiamava come il suo proprietario, Francis, c’erano bottiglie da un quinto di whiskey, vuote, mucchi di bottiglie di birra, portacenere, sporcizia. Presi una bottiglia e inghiottii un infernale miscuglio di birra e cenere. Non mangiavo da due settimane. C’era stato un va e viene continuo di gente. C’erano stati 7 o 8 festini durante i quali avevo continuato a dire: «Da bere! Da bere Da bere!». Ero strafatto; loro parlavano… e si toccavano.

Mi riportarono a casa e lui se ne andò con lei. Io entrai dalla porta, li salutai, accesi la radio, trovai mezza pinta di scotch, la bevvi, ridendo, mi sentivo bene, rilassato, finalmente, libero, mi scottai le dita con un mozzicone di sigaro troppo corto, poi mi trascinai fino al letto, arrivai al bordo, inciampai, caddi lungo disteso sul materasso, dormii, dormii, dormii…

La mattina dopo era mattina e io ero ancora vivo.
Forse scriverò un romanzo, pensai.
E lo scrissi.

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