domenica 4 dicembre 2011

Honoré de Balzac SARRASINE

La Commedia umana di Balzac - in un intreccio di romanzi racconti e saggi - dà forma alla società francese del XIX secolo. La novella Sarrasine, qui proposta soltanto in minima parte, centrale nel progetto di scrittura del suo autore, è giostrata con grande efficacia sul doppio binario della soglia emotiva del protagonista e su quella reale di una festa da ballo tenuta in una sera d'inverno nella sala di un palazzo sontuoso appartenuto alla duchessa Bourbon.


Honoré de Balzac


SARRASINE



Ero immerso in una di quelle meditazioni profonde che capitano a tutti, anche a un uomo frivolo, in seno alle feste più tumultuose.
Mezzanotte era suonata da poco all'orologio dell'Elysée-Bourbon.
Seduto nel vano d'una finestra, e nascosto sotto le pieghe ondulate d'una tenda di moire, potevo contemplare a mio agio il giardino del palazzo in cui passavo la sera. Gli alberi, imperfettamente coperti di neve, si staccavano debolmente sul fondo grigiastro d'un cielo nuvoloso appena schiarito dalla luna.
Visti in quell'atmosfera fantastica, somigliavano vagamente a spettri male avviluppati nei loro lenzuoli funebri, immagine gigantesca della famosa "danza dei morti". Poi, volgendomi dall'altra parte, potevo ammirare la danza dei vivi! un salotto splendido, dalle pareti d'argento e oro, dai lampadari scintillanti, splendente di candele. Là, formicolavano, s'agitavano e sfarfallavano le più belle donne di Parigi, le più ricche, le più titolate, brillanti, pompose, abbaglianti di diamanti! con fiori sulla testa, sul seno, nei capelli, sparsi sulle vesti, o in ghirlande ai loro piedi. Erano leggeri fremiti di gioia, passi voluttuosi che facevano ondeggiare i merletti, le blonde, la mussolina intorno ai fianchi delicati. Qualche occhiata troppo vivace si faceva strada qua e là, eclissava le luci, il fuoco dei diamanti, e animava ancor più cuori già troppo ardenti.
Si sorprendevano così cenni di teste significativi per gli amanti, e negativi per i mariti. Gli scoppi di voce dei giocatori, a ogni colpo imprevisto, il tintinnio dell'oro si frammischiavano alla musica, al mormorio delle conversazioni; per finir di stordire quella folla inebriata da tutto quello che il mondo elegante può offrire di seduzioni, un vapore di profumi e l'ebbrezza generale agivano sulle immaginazioni che si smarrivano. Così, alla mia destra, la fosca e silenziosa immagine della morte, a sinistra, i decenti baccanali della vita: qui, la natura fredda, cupa, in lutto; là, uomini in gaudio. Io, sulla frontiera di questi due quadri disparati, che, mille volte ripetuti in diversi modi, rendono Parigi la città più divertente del mondo e la più filosofica, facevo una macedonia morale, mezzo faceta mezzo funebre. Col piede sinistro segnavo il tempo, e credevo d'aver l'altro nella tomba. La mia gamba destra era di fatti ghiacciata da uno di quegli spifferi che vi gelano una metà del corpo mentre l'altra metà sente il calore umido dei salotti, cosa abbastanza frequente nei balli.
- Non è molto tempo, è vero? che il signor de Lanty possiede questo palazzo?
- Ma sì. Sono quasi dieci anni che il maresciallo de Carignan glielo ha venduto...
- Ah!
- Devono avere un patrimonio immenso?
- Certo.
- Che festa! un lusso insolente.
- Li credete ricchi come il signor de Nucingen o come il signor de Gondreville?
- Ma non lo sapete anche voi?
Sporsi la testa e riconobbi i due interlocutori come appartenenti a quella razza curiosa che, a Parigi, si occupa esclusivamente dei "Perché?" dei "Come?" " Di dove viene?" "Chi sono?" "Che succede?" "Che ha fatto lei?". Si misero a parlare sottovoce, e s'allontanarono per andare a discorrere con più comodo su qualche canapé solitario. Una miniera feconda s'era aperta ai dilettanti di misteri. Nessuno sapeva da quale paese veniva la famiglia de Lanty, né da quale commercio, da quale spoliazione, da quale pirateria o da quale eredità provenisse un fortuna stimata parecchi milioni. Tutti i membri della famiglia parlavano l'italiano, il francese, lo spagnolo, l'inglese e il tedesco, con sufficiente correttezza per far supporre che avevano dovuto soggiornare a lungo tra quei diversi popoli. Zingari?
filibustieri?
- Fossero anche il diavolo! - dicevano i giovani politici danno ricevimenti meravigliosi.
- Se anche il conte de Lanty avesse svaligiato qualche "Casauba", ne sposerei volentieri la figlia! - esclamava un filosofo.
E chi non avrebbe sposato Mariannina, giovinetta di sedici anni, la cui bellezza realizzava le favolose concezioni dei poeti orientali? Come la figlia del sultano nella favola della Lampada meravigliosa, essa avrebbe dovuto restare velata. Il suo canto faceva impallidire i talenti incompleti delle Malibran, delle Sontag, delle Fodor, nelle quali una qualità dominante ha sempre escluso la perfezione dell'insieme; mentre Mariannina sapeva unire allo stesso grado di perfezione la purezza del suono, la giustezza del movimento e delle intonazioni, l'anima e la tecnica, la correttezza e il sentimento. Quella ragazza era il tipo di quella poesia segreta, luogo comune di tutte le arti, e che sfugge sempre a quelli che la cercano. Dolce e modesta, istruita e intelligente, nessuna donna poteva eclissare Mariannina, tranne sua madre.
Avete mai incontrato qualcuna di quelle donne la cui bellezza sfolgorante sfida le offese dell'età, e che a trentasei anni appaiono più desiderabili di quel che dovevano essere quindici anni prima? Il loro volto è un'anima appassionata, scintilla; ogni lineamento vi brilla d'intelligenza; ogni poro possiede uno splendore speciale, soprattutto alla luce artificiale. I loro occhi seducenti attirano, respingono, parlano o tacciono; il loro passo è innocentemente sapiente; la voce spiega le melodiose ricchezze dei toni più seducentemente dolci e teneri. Fondati su paragoni, i loro elogi accarezzano l'amor proprio più suscettibile. Un movimento delle sopracciglia, la minima occhiata, il labbro che si corruga incutono una specie di terrore a quelli che fanno dipendere da loro la vita e la felicità. Inesperta dell'amore e docile ai discorsi, una ragazza può lasciarsi sedurre; ma per quella specie di donne, un uomo deve sapere, come il signor de Jaucourt, non gridare quando, nascosto in fondo a un salottino, la cameriera gli spezza due dita nella fessura d'una porta. Amare quelle potenti sirene, non è forse mettere in gioco la vita? Ed ecco perché forse le amiamo con tanta passione! Tale era la contessa de Lanty.
Filippo, fratello di Marianna, aveva ereditato, come sua sorella, la bellezza meravigliosa della contessa. Per dir tutto in una sola parola, il giovanotto era un'immagine vivente dell'Antinoo, con delle forme più gracili. Ma quelle magre e delicate proporzioni quanto si addicono alla giovinezza quando una carnagione olivastra, sopracciglia vigorose e il fuoco d'un occhio vellutato promettono per l'avvenire passioni maschie, idee generose! Se Filippo restava, nei cuori di tutte le ragazze, come un tipo di perfezione, rimaneva anche nel ricordo di tutte le madri, come il miglior partito di Francia.
La bellezza, la ricchezza, lo spirito e le grazie di quei due ragazzi venivano unicamente dalla madre. Il conte de Lanty era piccolo, brutto e butterato; cupo come uno Spagnolo, noioso come un banchiere. Passava del resto per un profondo politico, forse perché raramente rideva, e citava a ogni proposito Metternich o Wellington.
La misteriosa famiglia offriva tutta l'attrattiva d'una poesia di Lord Byron: le sue difficoltà venivano tradotte in modo diverso da ciascuna persona del bel mondo; era un canto oscuro, di strofa in strofa sublime. Il riserbo del conte e della contessa de Lanty sulla loro origine, sulla loro vita passata e sulle loro relazioni con le quattro parti del mondo non sarebbe stato a lungo una ragione di meraviglia a Parigi. In nessun paese forse l'assioma di Vespasiano è meglio inteso. Gli scudi, anche macchiati di sangue o di fango non rivelano niente e rappresentano tutto. Purché il mondo conosca la cifra delle vostre rendite, siete classificato tra le somme eguali a voi, e nessuno chiede di vedere le vostre pergamene, perché tutti sanno quanto costino poco. In una città in cui i problemi sociali si risolvono con equazioni algebriche, gli avventurieri hanno molte probabilità in loro favore. Ammettendo che la famiglia de Lanty fosse d'origini zingaresche, era così ricca, così attraente, che il mondo poteva ben perdonarle i suoi piccoli misteri. Ma, disgraziatamente, la storia enigmatica di casa Lanty offriva un rinascente interesse di curiosità, molto simile a quello dei romanzi di Anna Radcliffe.
Gli osservatori, gente che tiene a sapere in quale negozio comprate i vostri candelabri, o che vi chiedono quanto pagate di pigione quando il vostro appartamento sembra loro bello, avevano notato, di tanto in tanto, in mezzo alle feste, ai concerti, ai balli, ai grandi ricevimenti dati dalla contessa, l'apparizione d'uno strano personaggio. Un uomo. La prima volta che si fece vedere fu durante un concerto, e sembrò che fosse stato attirato in salotto dalla voce incantatrice di Mariannina.
- Da un momento in qua, ho freddo - disse alla sua vicina una signora che stava vicino alla porta.
Lo sconosciuto, che si trovava vicino alla signora, se ne andò.
- E' strano! ho caldo - disse la donna dopo che l'estraneo si fu allontanato. - E direte forse che sono pazza, ma non posso fare a meno di pensare che il mio vicino, quel signore vestito di nero che se n'è andato ora, era la causa di quel freddo.
Presto l'esagerazione naturale alle persone dell'alta società fece nascere e accumulare le idee più buffe, le espressioni più bizzarre, le favole più ridicole su quel misterioso personaggio.
Senza essere precisamente un vampiro, un uomo artificiale, una specie di Faust o di Robin dei boschi, aveva, secondo le persone amanti del fantastico, qualcosa di tutte quelle nature antropomorfe. C'erano qua e là dei Tedeschi che prendevano sul serio questi motteggi ingegnosi della maldicenza parigina. Lo straniero era semplicemente un vecchio. Parecchi di quei giovanotti, abituati a decidere, tutte le mattine in qualche frase elegante dell'avvenire dell'Europa, volevano vedere nello sconosciuto un gran criminale, possessore d'immense ricchezze. Dei romanzieri raccontavano la vita di quel vecchio, e vi davano particolari veramente curiosi sulle atrocità da lui commesse quando era a servizio del principe di Mysore. Dei banchieri, gente più positiva, accreditavano una favola convincente:
- Bah! - dicevano alzando le larghe spalle in una mossa di commiserazione - il vecchietto è una "testa genovese"!
- Signore, se non sono indiscreto, vorreste avere la bontà di spiegarmi che cosa intendete per una testa genovese?
- E' un uomo, signore, sulla cui vita riposano enormi capitali, e dalla salute di lui dipendono probabilmente le rendite di questa famiglia.
Mi ricordo d'aver sentito in casa della signora d'Espard un magnetizzatore il quale provava, con considerazioni storiche molto speciose, che quel vecchio, messo sotto vetro, era il famoso Balsamo detto Cagliostro. Secondo il moderno alchimista, l'avventuriero siciliano era sfuggito alla morte e si divertiva a fare dell'oro per i suoi nipoti. Infine il balivo de Ferette sosteneva d'aver riconosciuto nello strano personaggio il conte di San Germano. Queste sciocchezze, dette in tono spiritoso, con l'aria beffarda che ai giorni nostri caratterizza una società incredula, mantenevano sulla casa de Lanty come un'aura di sospetto. E poi, per uno strano concorso di circostanze, i membri di quella famiglia giustificavano le congetture del bel mondo, tenendo una condotta misteriosa verso il vecchio, la cui vita era in qualche modo sottratta a ogni investigazione.
Se questo personaggio varcava la soglia dell'appartamento che doveva occupare nel palazzo Lanty, la sua apparizione causava sempre nella famiglia una grande sensazione. Si sarebbe detto un avvenimento importante. Filippo, Mariannina, la signora de Lanty e un vecchio domestico erano i soli che avevano il privilegio di aiutare lo sconosciuto a camminare, ad alzarsi, a sedersi.
Ciascuno ne sorvegliava i minimi movimenti. Pareva che fosse una persona incantata da cui dipendessero la felicità, la vita o la fortuna di tutti. Timore o affetto? La gente del bel mondo non riusciva a scoprire nessun indizio che li aiutasse a risolvere il problema. Nascosto per mesi interi in fondo a un santuario sconosciuto, quel genio familiare ne usciva a un tratto come furtivamente, senza essere atteso, e compariva in mezzo ai salotti come le fate d'altri tempi che scendevano dai loro draghi volanti per venire a turbare solennità a cui non erano state invitate.
Solo gli osservatori più esercitati potevano allora indovinare l'inquietudine dei padroni di casa, che sapevano dissimulare con singolare abilità i loro sentimenti. Ma, a volte, pur continuando a ballare una quadriglia, la troppo spontanea Mariannina gettava un'occhiata di terrore sul vecchio che sorvegliava da lontano.
Oppure Filippo si slanciava scivolando attraverso la folla, per raggiungerlo, e restava accanto a lui, tenero e attento, come se il contatto con gli uomini o il minimo soffio dovesse spezzare quella creatura bizzarra. La contessa cercava di avvicinarsi a lui, senza mostrare di aver l'intenzione di raggiungerlo, poi, assumendo dei modi e una fisionomia improntati di servilità e d'affetto, di sottomissione e di dispotismo, diceva due o tre parole alle quali il vecchio quasi sempre obbediva, e spariva condotto, o, per meglio dire, portato via da lei. Se la signora di Lanty non c'era, il conte impiegava mille stratagemmi per arrivare a lui; ma pareva che gli riuscisse difficile di farsi ascoltare, e lo trattava come un bambino troppo accarezzato di cui la madre ascolta i capricci o teme le bizze. Qualche indiscreto si era azzardato a interrogare con una certa storditaggine il conte de Lanty, ma quest'uomo freddo e riservato pareva che non capisse mai le domande dei curiosi. Così, dopo molti tentativi, resi vani dalla circospezione di tutti i membri della famiglia, nessuno cercò più di scoprire un segreto così ben custodito. Le spie di alto grado, i creduloni e i politici avevano finito, scoraggiati, col non occuparsi più di quel mistero.
Ma, in quel momento, c'erano forse in quei salotti splendenti dei filosofi che, prendendo un gelato, un sorbetto, o posando sopra una mensola il bicchiere vuoto, si dicevano:
- Non mi stupirei di venire a sapere che sono dei bricconi. Quel vecchio che si nasconde e compare ogni equinozio o ogni solstizio, mi ha tutta l'aria d'un assassino...
- O d'un fallito...
- E' quasi lo stesso. Uccidere il patrimonio d'un uomo, è qualche volta peggio che uccidere lui.
- Signore, ho scommesso venti luigi, me ne vengono quaranta.
- In fede mia! signore, ce ne sono solo trenta sul tappeto...
- Ebbene, vedete che razza di gente frequenta qui. Non ci si può giocare.
- E' vero. Ma sono quasi sei mesi che non abbiamo visto lo spirito. Credete che sia una persona viva?
- Eh! eh! tutt'al più...
Queste parole venivano dette, intorno a me, da sconosciuti che se ne andarono nel momento in cui ricapitolavo, in un ultimo pensiero, le mie riflessioni miste di bianco e di nero, di vita e di morte. La mia sbrigliata immaginazione da un lato e i miei occhi dall'altro contemplavano volta a volta e la festa giunta al suo più alto grado di splendore e il quadro cupo del giardino. Non so quanto tempo meditai su queste due facce della medaglia umana; ma all'improvviso il riso soffocato d'una giovane donna mi riscosse. Restai stupefatto all'aspetto dell'immagine che mi si offrì allo sguardo. Per uno dei più rari capricci della natura, il pensiero in mezzo lutto che mi si aggirava per la testa ne era uscito, si trovava innanzi a me personificato, vivo, era balzato come Minerva dalla testa di Giove, grande e forte, aveva allo stesso tempo cent'anni e ventidue anni, era vivo e morto. Sfuggito dalla sua camera, come un pazzo dalla sua cella, il vecchietto era senza dubbio abilmente scivolato dietro una siepe di persone attente alla voce di Mariannina che finiva la cavatina del "Tancredi". Pareva fosse uscito di sottoterra, spinto da una macchina di teatro. Immobile e cupo, restò per un momento a contemplare la festa il cui frastuono gli era forse giunto all'orecchio. La sua preoccupazione, che aveva del sonnambulismo, era così concentrata sulle cose che si trovava in mezzo alla gente senza vederla. Era spuntato senza cerimonie accanto a una delle più seducenti donne di Parigi, danzatrice elegante e giovane, dalle forme delicate, uno di quei visi freschi come quello d'un bambino, bianco e rosa, e così fragili, così trasparenti che uno sguardo d'uomo dovrebbe attraversarle, come i raggi del sole attraversano un pezzo di ghiaccio limpido. Stavano lì, innanzi a me, tutti e due, insieme, uniti e così vicini, che lo straniero sfiorava e il vestito di velo, e le ghirlande di fiori, e i capelli leggermente crespi, e il nastro ondeggiante della cintura.
Ero stato io a condurre al ballo della contessa de Lanty quella giovane donna. Siccome era la prima volta che veniva in quella casa, le perdonai il suo riso soffocato; ma le feci vivacemente un cenno imperioso che la fece restare interdetta e le ispirò rispetto per il suo vicino. Essa sedette accanto a me. Il vecchio non volle lasciare la deliziosa creatura, a cui s'attaccò capricciosamente con quella ostinazione muta e senza causa apparente a cui vanno soggette le persone molto vecchie, e che le fa somigliare a bambini. Per sedersi accanto alla giovane signora, dovette prendere un seggiolino pieghevole. I suoi minimi movimenti ebbero la pesantezza fredda, la stupida indecisione che caratterizzano i gesti d'un paralitico. Si accomodò lentamente sul suo seggiolino, borbottando qualche parola inintelligibile. La sua voce fessa somigliò al rumore che fa un sasso cadendo in un pozzo.
La giovane donna mi strinse forte la mano, come se avesse voluto garantirsi da un precipizio, e rabbrividì quando l'uomo, che essa guardava, rivolse su di lei due occhi senza calore, due occhi glauchi che non si potevano paragonare che a una madreperla che ha perduto la sua lucentezza.
- Ho paura - mi disse piegandosi verso il mio orecchio.
- Potete parlare - risposi. - Sente molto difficilmente.
- Lo conoscete dunque?
- Sì.

[continua]

* Fotografia di copertina: Honoré de Balzac, Sarrasine, Racconti d'Autore Il Sole 24 Ore del 4 dicembre 2011
** Testo, free copy da internet.
 

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