mercoledì 19 ottobre 2011

Andrea Zanzotto, tre poesie e una breve nota

Notificazione di presenza sui Colli Euganei

Se la fede, la calma d'uno sguardo
come un nimbo, se spazi di serene
ore domando, mentre qui m'attardo
sul crinale che i passi miei sostiene,

se deprecando vado le catene
e il sortilegio annoso e il filtro e il dardo
onde per entro le più occulte vene
in opposti tormenti agghiaccio et ardo,

i vostri intimi fuochi e l'acque folli
di fervori e di geli avviso, o colli
in sí gran parte specchi a me conformi.

Ah, domata qual voi l'agra natura,
pari alla vostra il ciel mi dia ventura
e in armonie pur io possa compormi.


Esistere psichicamente

Da questa artificiosa terra-carne
esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
- soli che urtarono fili di ciglia
ariste appena sfrangiate pei colli -
da questo lungo attimo
inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,
da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch'io sono:
tale la verità geme a se stessa,
si vuole pomo che gonfia ed infradicia.
Chiarore acido che tessi
i bruciori d'inferno
degli atomi e il conato
torbido d'alghe e vermi,
chiarore-uovo
che nel morente muco fai parole
e amori.


Sonetto di sterpi e limiti

Sguiscio gentil che fra mezzo erbe serpi,
difficil guizzo che enigma orienta
che nulla enigma orienta, e pur spaventa
il cor che in serpi vede, mutar sterpi;

nausea, che da una debil quiete scerpi
me nel vacuo onde ogni erba qui s'imprenta,
però che in vie e vie di serpi annienta
luci ed arbusti, in sfrigolio di serpi;

e tu mia mente, o permanere, al limite
del furbo orrido incavo incastro rischio,
o tu che a rischi e a limiti ti limi:

e non posso mai far che non m'immischio,
nervi occhi orecchi al soprassalto primi
se da ombre e agguati vien di serpe il fischio.


Nota tratta da "Zanzotto, natura e sperimentazione"

Andrea Zanzotto non è stato soltanto un poeta di enorme talento, è stato anche uno degli intellettuali più originali e aperti del suo tempo: si è espresso, alla stessa altezza dei versi, coi racconti (Sull’Altopiano), coi saggi, con gli articoli, con le interviste e nei modi brillanti e fulminei delle conversazioni in pubblico e in privato. Era nato a Pieve di Soligo il 10 ottobre 1921: luogo di dolci colline delimitato a nord dalle montagne e a sud dal Montello.

Fotografia, free copy da internet
Poesie, free copy da internet
Nota, free copy da "Zanzotto, natura e sperimentazione", Matteo Giancotti, Corriere della Sera, 19 ottobre 2011

martedì 18 ottobre 2011

Paola Abeni, due inediti




I


Da qualche parte oggi le nubi erano
la loro danza, sopra i desideri
accorrevano foglie, i bambini
disegnavano tracce che l'erba
accudiva,
la stanchezza dei corpi parlava
di come fuggire all'infelicità,
poi non compariva che luce
tra una parola e l'altra, qualche
fremito di colore dalle cortecce.




II
i nomi, le cose che piangono
al buio dei corpi, che
respirano vive, tutti i
sentieri divorati dai
fiori




Produzione, Paola Abeni
Copertina, free copy da internet, Claude Monet, Impressione, sole nascente (1872)
All'interno, fotografia di Paola Abeni

venerdì 7 ottobre 2011

Tomas Tranströmer, due poesie edite e una breve nota biografica

Tomas Tranströmer

due poesie edite 


 
Pagina di libro notturno 

Sbarcai una notte di maggio
in un gelido chiaro di luna
dove erba e fiori erano grigi
ma il profumo verde.

Salii piano un pendìo
nella daltonica notte
mentre pietre bianche
segnalavano alla luna.

Uno spazio di tempo
lungo qualche minuto
largo cinquantotto anni.

E dietro di me
oltre le plumbee acque luccicanti
c’era l’altra costa
e i dominatori.

Uomini con futuro
invece di volti.


Insicurezza nazionale 

Il sotto segretario si piega in avanti e disegna una X
e i suoi orecchini tintinnano come spade di Damocle.

Come una farfalla screziata è invisibile al suolo 
così il demonio si mescola con il giornale spalancato.

Un casco che nessuno porta ha preso il potere.
La tartaruga-madre fugge volando sotto l'acqua.



Breve nota biografica
Tomas Tranströmer (Stoccolma, 15 aprile 1931) è uno scrittore, poeta e traduttore svedese, molto conosciuto e apprezzato in patria, vincitore del Nordic Council's Literature Prize, dello Struga Poetry Evenings (del quale sono stati insigniti poeti del calibro del cileno Pablo Neruda e degli italiani Edoardo Sanguineti e Eugenio Montale) e del Neustadt International Prize for Literature nel 1990. Nel 2011 è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: "perché attraverso le sue immagini condensate e traslucide ha offerto un nuovo accesso alla realtà". In Italia è edito da Crocetti.

Produzione, Tomas Tranströmer 
Fonte, L'Unità
Copertina, ritratto di Tomas Tranströmer, free copy da Wikiquote

William Burroughs, I fottuti stronzi

William Burroughs
I fottuti stronzi

racconto


Il vecchio padrone di casa è svegliato da qualcuno che sta battendo alla porta.
«Oh, Dio», dice in tono lamentoso, «un altro indiano ubriaco». S’infila il giubbotto militare e sistema nella
tasca laterale una rivoltella dal naso camuso – come quella che uccise Lennon –‚ ottenuta con tanto di
autorizzazione governativa. Si appoggia alla parete avvertendo un dolore acuto al braccio e alla spalla sinistra.
«Vattene. Chiamo la polizia.»
«Sarà troppo tardi prima che combini qualcosa di buono. Hai rovinato mia figlia.»
«Veniamo all’istante, signore.» La porta sta per cedere. Il padrone di casa, pistola spianata, sta a due metri di distanza dalla porta. Si odono le sirene.
La porta si spalanca. L’indiano si precipita dentro con una mazza da baseball, lo sguardo feroce, come un
cavallo impazzito. L’auto della pattuglia si arresta con stridore di gomme. Il padrone di casa spara alla gamba dell’indiano. L’indiano cade, si rotola su un fianco, gemendo.
La porta vien giù di schianto, i piedipiatti si precipitano dentro con sguardo allucinato, pistole spianate.
Scorgendo un uomo con giubbotto militare, l’agente Mike crede si tratti dell’intruso. Non esita un istante. Fa partire tre colpi. Il padrone di casa si preme le mani sul petto e cade. Mike si allontana, e risoluto ripone la pistola nella fondina.
«Lo abbiamo colpito.»
«È ferito gravemente, signore?»
L’agente appoggia una mano premurosa sulla schiena dell’indiano. Pubbliche relazioni ineccepibili.
Lentamente l’indiano si volta verso di loro, il volto provato dal dolore e dallo shock. I poliziotti sobbalzano
raccapricciati. «Mio Dio», esclamano all’unisono. Marv, il collega più anziano, fa un cenno d’assenso. Distante echeggia la sirena di un’ambulanza.
«Ci penso io; si appoggi a me.»
I due aiutano l’indiano a sedersi su una sedia.
«Lei è un eroe!»
«Era un comunista.»
«Ha fatto bene a sparargli, si merita un encomio.»
Il piedipiatti gli mette la rivoltella nella mano. Le sirene si fanno più vicine. Con ottusa incredulità l’indiano
volge lo sguardo verso la rivoltella. I piedipiatti che mi aiutano a sedermi su una sedia? E mi danno una
rivoltella? L’ambulanza svolta all’angolo della casa. Le pallottole squarciano il petto dell’indiano. Non c’è tempo per le sottigliezze. I due rovesciano i tavoli e mettono a soqquadro una libreria. Una sedia vola attraverso la finestra‚ mentre nel frattempo l’ambulanza si arresta con gran stridore di freni.
«È stato un brutto affare‚ capo‚ veramente brutto. Il pellerossa era impazzito‚ ha afferrato la pistola di Mike e ha sparato al padrone di casa. Che Dio mi sia testimone‚ aveva la forza di venti uomini. L’avevo avvertito che eravamo poliziotti, ma lui ci ha spianato la rivoltella contro, sono stato costretto a sparargli.»
«Ragazzi, il capo vi vuole parlare immediatamente.»
«È il vostro rapporto, questo?»
«Sì‚ capo.»
«Puzza di vomito d’avvoltoio.»
«Cos’è che non va‚ capo?»
«Tanto per cominciare‚ nessuno avrebbe potuto fare quello che voi dite sia accaduto. Le angolazioni dei
proiettili sono tutte sbagliate.»
«Ma‚ capo... »
«Inoltre‚ il padrone di casa non è morto.»
«Non è… » Il poliziotto si riprende in tempo. «Beh, è meraviglioso», dice con un pessimo sorriso. «Uno che
venga colpito al petto in quella maniera potrebbe ritrovarsi tutto spiaccicato.»
«Indossava un giubbotto antiproiettile. Ha avuto un attacco di cuore, ma ora sta bene e vuole la vostra pelle: “Non solo mi devo proteggere da indiani ubriachi ma anche da fottuti piedipiatti con il cervello in malora – fottutissimi FOTTUTI!”.»
«Capo, giuro su quel fottuto di Cristo che ho visto un indiano ubriaco ritto in piedi con una pistola in mano,chiaro come io la vedo adesso.»
«E cos’altro hai veduto? Le porte del paradiso? Il fottuto Gesù Cristo che ti assegnava il Cazzo d’Oro per
l’audacia? Comunque, voi due stronzetti ve la siete meritata questa volta. Non siete altro che due fottuti stronzi, entrambi.»
«Beh, capo», dice Marv, sorridendo e dimenandosi per ingraziarsi il capo, «è vero, siamo dei FOTTUTI
STRONZI; il motivo principale per cui siamo entrati nel corpo. Una pistola e un distintivo possono dar rifugio a un sacco di fottuti stronzi».
«Va bene, ragazzi, voglio darvi la possibilità di ritornare in carreggiata.»
«Faremo qualsiasi cosa, capo, qualsiasi.»
«Questa è pericolosa, ragazzi. Si tratta di droga, un grosso affare, questa volta si spara per primi e ricordatevi, i morti non dicono bugie. Comprendido?»
«Al volo, capo.»
«Potete prendere quello che vi serve all’arsenale. Suggerisco fucili a pompa Ithaca con quattro colpi.»
I fottuti stronzi se ne vanno. Il capo sorride. Si libera di un cronista rompipalle e fa svuotare una sala gremita di liberal dal cuore tenero, accompagnati dalla voce di Joan Baez.
Riusciranno i fottuti stronzi a cogliere una terza occasione? Colpiranno ancora i fottuti stronzi?

* Testo: William Burroughs, I fottuti stronzi da Vicolo del Tornado, Traduzione di Roberto Fedeli, pagg. 17-21, Stampa Alternativa, 1997.
** Fotografia: Copertina di Vicolo del Tornado, a cura di Marcello Baraghini, free copy da internet.

giovedì 6 ottobre 2011

Luca Battaglini, due poesie.

Luca Battaglini

due poesie inedite




















(Untitled)

E' venuta sera
così 
senza fretta
o grossi drammi
Si è stancata
di farci
da spalla
la luce
e' arrivata
per lasciarmi
ricordare
i sorrisi che
ho perso
ma non ho
lasciato andare
Resta 
il mio bicchiere
a sfidare
il luccichio 
della luna


SUNSET

Posso stare 
in cima 
ai tuoi pensieri
come un pazzo
sul cornicione
per ricordarmi
delle volte
che non 
ho saputo ridere
perché 
avevo fretta
ora che avrei
il tempo 
ma si vanno
estinguendo
le occasioni
 




Produzione, Luca Battaglini per La schialuppa di Mucho
Copertina, Luca Battaglini

mercoledì 5 ottobre 2011

Stevenson, Il vecchio lupo di mare all'"Ammiraglio Benbow"

Robert Louis Stevenson
L'Isola del tesoro



Il vecchio lupo di mare all'"Ammiraglio Benbow"


Pregato dal cavalier Trelawney, dal dottor Livesey e dal resto della brigata, di scrivere la storia della nostra avventura all'Isola del Tesoro, con tutti i suoi particolari, nessuno eccettuato, salvo la posizione dell'isola; e ciò perché una parte del tesoro ancora vi è nascosta, - io prendo la penna nell'anno di grazia 17... e mi rifaccio al tempo in cui il mio padre gestiva la locanda dell'"Ammiraglio Benbow" e il vecchio uomo di mare dal viso abbronzato e sfregiato da un colpo di sciabola prese alloggio presso di noi.

Lo ricordo come fosse ieri, quando entrò con quel suo passo pesante, seguito dalla carriola che portava il baule. Alto, poderoso, bruno, con un codino incatramato che gli ricadeva sopra il suo bisunto abito blu: le mani rugose e ricoperte di cicatrici, con le unghie rotte e orlate di nero; e, attraverso la guancia, il taglio del colpo di sciabola d'un bianco livido e sporco. Roteò in giro un'occhiata fischiettando fra sé, e poi, con la sua vecchia stridula e tremula voce ritmata e arrochita dalle manovre dell'àrgano, intonò quell'antica canzone di mare che doveva più tardi così spesso percuotere i nostri orecchi:


"Quindici sulla cassa del morto,

Quindici uomini yò-hò-hò,

E una bottiglia di rum per conforto!"


Poi con un pezzo di bastone simile a una manovella batté contro la porta, e come mio padre apparve, ordinò bruscamente un bicchiere di rum. Appena gli fu portato, lo bevve lentamente assaporandolo all'uso dei conoscitori, e intanto seguitava a guardare intorno a sé esaminando le colline e la nostra insegna.

"Questo è un luogo adatto" disse alfine "e ottimamente situato.

Molta gente, amico mio?" Mio padre rispose che no; poca assai: una desolazione.

"Bene. E' l'ancoraggio che fa per me. Ehi, tu" gridò all'uomo della carriola "vieni, e aiuta a portar su il mio baule. Resterò qui un pezzetto" continuò. "Sono un uomo alla buona, io: rum, prosciutto, uova: altro non mi serve, e quella punta lassù per osservar le navi che passano. Il mio nome? Capitano, potete chiamarmi. Ah, capisco, capisco ciò che vi preoccupa... Prendete!" E gettò sul banco tre o quattro monete d'oro. "Mi avvertirete quando sarà finito" aggiunse, con uno sguardo fiero, da comandante.

In verità, malgrado i suoi abiti frusti e il suo rozzo parlare, egli non aveva l'aria d'un marinaio: si sarebbe piuttosto detto un secondo o un padrone di nave, abituato a vedersi ubbidito o a picchiare. L'uomo della carriola ci riferì ch'era sbarcato dalla corriera la mattina davanti al "Giorgio Reale", che s'era informato degli alberghi lungo la costa, e udito parlar bene del nostro, lo aveva prescelto in grazia del suo isolamento. Questo fu tutto quanto potemmo sapere sul conto del nostro ospite.

Egli era assai taciturno. Passava la sua giornata gironzolando intorno alla cala, o per le colline, provvisto d'un cannocchiale marino; e tutta la sera rimaneva in un angolo della sala accanto al fuoco, a bere dei grog molto forti. A chi gli rivolgeva la parola evitava per lo più di rispondere: dava un rapido e iroso sguardo, e soffiava per le narici come una tromba d'allarme; sicché tanto noi che gli avventori imparammo presto a lasciarlo stare. Ogni giorno, quando rientrava dalla sua passeggiata, non tralasciava di chiedere se qualche marinaio si fosse visto lungo la strada. Noi credevamo dapprima fosse la mancanza d'una compagnia di gente della sua specie che lo spingesse a tali domande; finimmo però col capire che, al contrario, ciò che gli premeva era evitare incontri. Quando un marinaio scendeva all'"Ammiraglio Benbow" (come talvolta accadeva a chi si recava a Bristol per la strada costiera) egli puntava il nuovo arrivato attraverso la cortina dell'uscio prima di decidersi a passar nella sala, e finché quello non alzava i tacchi, stava muto come un pesce. Questo contegno non aveva peraltro nulla di misterioso ai miei occhi, giacché io in certo modo dividevo le preoccupazioni del capitano. Un giorno tirandomi in disparte m'aveva promesso un pezzo d'argento di quattro pence per ogni primo del mese, a patto che io facessi buona guardia e l'avvisassi non appena comparisse un "marinaio con una gamba sola". Spesso accadeva che giungeva il primo del mese, ed io dovevo richiedergli il mio salario: egli allora mi rispondeva con quel suo pauroso soffiare attraverso le narici, e con una guardataccia che mi atterriva: ma la settimana non passava mai senza ch'egli si ravvedesse e mi consegnasse i miei quattro pence ripetendomi l'ordine di stare attento al marinaio con una gamba sola.

Non saprei dire come questo personaggio fosse diventato l'incubo dei miei sogni. Nelle notti di tempesta, quando il vento scoteva i quattro angoli della casa e i cavalloni infuriati mugghiavano lungo la cala e contro le rupi, io me lo vedevo apparir dinanzi in mille forme e con mille diaboliche espressioni. Ora aveva la gamba tagliata fino al ginocchio, ora fino all'anca; ora non era più uomo, ma una sorta di mostro nato proprio così, con una gamba sola, e questa nel bel mezzo del corpo. Vederlo saltare, correre e inseguirmi scavalcando siepi e fossati, era il più tremendo degli incubi. E così, con tali bieche visioni, io pagavo abbastanza caro il premio dei miei quattro pence mensili.

Ma, curioso a dirsi, malgrado il terrore che il marinaio dalla gamba sola m'incuteva, io ero poi di fronte al capitano in persona il meno pauroso fra tutti quanti l'avvicinavano.

Certe sere egli beveva assai più grog che non potesse sopportare; allora si tratteneva lì a cantare le sue vecchie, sinistre, selvagge canzoni di mare non curandosi d'alcuno; altre volte offriva da bere in giro e costringeva la intimidita brigata ad ascoltar le sue storie o accompagnare in coro i suoi ritornelli.

Quante volte ho udito la casa rintronare di "Yò-hò hò e una bottiglia di rum", mentre i vicini, col timore della morte sul capo, l'accompagnavano con tutta l'anima, cercando ognuno di superare l'altro, a scanso di appunti! Perché in questi accessi egli era l'uomo più insolente e prepotente del mondo: ora imponeva silenzio battendo con la palma sulla tavola, ora pigliava fuoco per una domanda che gli era rivolta, o perché nessuno osservava nulla, il che per lui era segno che la compagnia non s'interessava al racconto. E non tollerava che si lasciasse la sala prima che egli ubriaco fradicio non avesse, barcollando, raggiunto il suo letto.

Ciò che soprattutto sbigottiva l'uditorio erano le sue storie.

Spaventevoli storie d'impiccagioni, d'annegamenti, di burrasche di mare, delle Isole delle Tartarughe, e di gesta e luoghi selvaggi in terre spagnole. A sentir lui, era vissuto fra la più dannata razza che Iddio seminasse per i mari; e il suo linguaggio brutale urtava i nostri semplici paesani quasi al pari dei delitti ch'egli descriveva. Mio padre sempre andava lamentando che quell'uomo sarebbe stato la rovina dell'albergo, poiché ben presto la gente si sarebbe stancata di venir lì per essere tiranneggiata, avvilita e spedita a battere i denti nei propri letti; ma io credo invece che la sua presenza ci fosse profittevole. E' vero che sul momento gli avventori ci rimanevano male; ma poi provavano non so che gusto a tornarci su col pensiero, e quasi amavano ciò che dava una scossa alla monotona e sonnacchiosa vita del paese. C'era persino tra i più giovani chi per lui ostentava ammirazione, qualificandolo "un vero lupo di mare", un "autentico tizzo d'inferno", e dicendo ch'erano gli uomini di siffatta tempra che rendevano l'Inghilterra formidabile sul mare.

Veramente, in certo modo, egli lavorava alla nostra rovina, giacché settimane e settimane e poi mesi e mesi si susseguivano senza ch'egli desse segno di voler sloggiare, e intanto da lunga data il suo denaro era finito e a mio padre non aveva l'animo di insistere per averne dell'altra. Se appena egli vi alludeva, il capitano soffiava attraverso il naso talmente forte che pareva ruggisse, e con una fulminante occhiata cacciava via dalla sala il mio povero padre. Io lo vedevo, mio padre, disperato torcersi le mani dopo tali rabbuffi, e credo che l'affanno e il terrore nei quali viveva affrettassero grandemente la sua immatura e disgraziata fine.

Tutto il tempo che rimase con noi il capitano non mutò mai nulla del suo vestiario, eccetto qualche calza comprata da un merciaio ambulante. Essendosi rotto uno degli angoli del suo cappello a tricorno, egli lo lasciava spenzolar giù sebbene gli desse abbastanza noia quando tirava vento. Rivedo l'aspetto dell'abito ch'egli stesso rappezzava nella sua stanza di sopra e che, già prima della fine, era un mosaico di toppe. Mai scrisse né ricevette una lettera; mai parlava con alcuno fuorché coi vicini; e con questi, per lo più, solo quand'era ubriaco di rum. Nessuno di noi mai aveva visto aperto il grosso baule marino.

Una volta soltanto il nostro uomo trovò chi gli tenne testa, e fu verso la fine, quando il mio povero padre era già molto minato dal male che doveva condurlo alla tomba. Il dottor Livesey giunse a sera a veder l'infermo; si fece servire un boccone da mia madre, poi se ne andò a fumare una pipata nella sala, in attesa che il suo ca vallo gli fosse ricondotto dal villaggio, giacché al vecchio "Benbow" non avevamo stallaggio. Io ve lo seguii, e rammento ancora lo stridente contrasto che faceva il lindo e rilisciato dottore con la sua parrucca candida come neve, i suoi neri e scintillanti occhi e le sue compite maniere, con la rustica plebaglia e soprattutto con quel sudicio torvo e ripugnante spauracchio di pirata, acciaccato laggiù in quell'angolo dal rum, con le braccia sulla tavola. D'improvviso costui - dico il capitano - intonò la sua eterna canzone:


"Quindici sulla cassa del morto,

Yò-hò-hò, e una bottiglia di rum!

Satana agli altri non ha fatto torto,

Con la bevanda li ha spediti in porto.

Yò-hò-hò, e una bottiglia di rum!"


Io avevo da prima creduto che la "cassa del morto" fosse la stessa grossa cassa ch'egli teneva di sopra nella stanza davanti; e questa idea s'era fusa nei miei incubi con l'immagine del marinaio dalla gamba sola. Ma da lungo tempo ormai noi avevamo cessato di far attenzione al ritornello; solo agli orecchi del dottor Livesey quella sera giungeva nuovo; ed io m'accorsi dell'impressione tutt'altro che gradevole ch'egli ne riceveva, giacché alzò gli occhi e guardò per un momento con aria irritata prima di decidersi a continuare col vecchio giardiniere Taylor il suo discorso intorno a una nuova cura delle affezioni reumatiche. Frattanto il capitano s'andava accendendo della sua musica e alzando il tono; e alla fine schiaffò sulla tavola con la palma quel tal colpo che noi tutti sapevamo significava: Silenzio! Nessuna voce fu più udita, ad eccezione di quella del dottor Livesey, che continuò a parlare come prima, chiaro e cortese, tirando tra una frase e l'altra una vistosa boccata di fumo. Il capitano lo fissò bieco un istante, batté un nuovo colpo con la palma, gli lanciò un'altra occhiataccia, e, accompagnando la frase con una triviale bestemmia, gridò:

"Silenzio, laggiù a prua!" "E' a me che il signore intende parlare?" disse il dottore; e non appena il ribaldo gli ebbe, con un'altra bestemmia, risposto affermativamente, "io non ho che una cosa da dirvi" replicò il dottore "ed è che se voi continuate a tracannare rum, il mondo sarà presto liberato da uno schifoso miserabile." Spaventevole fu lo scoppio d'ira del vecchio gaglioffo. Scattò in piedi, trasse e aprì un coltello a serramanico, e bilanciandolo sulla palma della mano, stava per inchiodare al muro l'avversario.

Il dottore non si mosse. Parlandogli di sopra la spalla, con lo stesso tono di voce, piuttosto rinforzato, per modo che l'intiera sala potesse udire, ma perfettamente tranquillo e fermo, disse:

"Se non rimettete immediatamente in tasca quel coltello, vi giuro sul mio onore che alle prossime assise sa rete impiccato." Seguì tra i due una battaglia di sguardi: ma presto il capitano si arrese: ripose l'arma e riprese il suo posto tremando come un cane bastonato.

"E ora, signore" continuò il dottore "dal momento che io so che razza d'arnese c'è nel mio distretto, potete star sicuro che sarete sorvegliato giorno e notte. Io non sono soltanto dottore:

sono anche magistrato, e se appena mi giunge una lagnanza sul conto vostro, fosse magari per una smargiassata come quella di stasera, provvederò a farvi spazzar via di qui. Siete avvisato." Poco dopo il cavallo del dottor Livesey giunse alla porta, ed egli partì; ma per quella sera e molt'altre successive il capitano rimase tranquillo.

Produzione, Robert Louis Stevenson, Capitolo Primo da L'Isola del Tesoro, estratto dal sito Liber Liber
Copertina, Ritratto di Robert Louis Stevenson di Girolamo Nerli (1860 - 1926).