domenica 29 luglio 2012

Autoritratto di un naufrago Robinson Crusoe nell’isola disabitata


Autoritratto di un naufrago
Robinson Crusoe nell’isola disabitata

Come ho già detto, ero alquanto impaziente di recuperare la mia barca, sebbene fossi molto riluttante a correre nuovi rischi; perciò di tanto in tanto meditavo sulla possibilità di riportarla indietro lungo la costa, mentre in altri momenti stavo benissimo anche senza di essa. Nondimeno covavo in me una strana smania di ritornare in quel punto dell’isola ove, come ho già raccontato, nel corso del mio ultimo giro di esplorazione ero salito in cima a una collina per studiare il profilo della costa e la direzione delle correnti, e di decidere così sul da farsi. Questa sorta di frenesia aumentava di giorno in giorno, e alla fine decisi di far ritorno laggiù per via di terra, seguendo la spiaggia. Così feci. Ma se una persona qualsiasi, in Inghilterra, avesse incontrato un uomo del mio aspetto, o ne sarebbe stata impaurita, o si sarebbe sbellicata dalle risa. Anch’io, del resto, mi fermavo sovente a guardarmi, e non potevo esimermi dal sorridere all’idea di circolare per le strade dello Yorkshire vestito ed equipaggiato in quella maniera. Siate dunque tanto cortesi dal farvi un’idea della mia persona in base alla seguente descrizione.
Portavo un grande copricapo, un berretto di pelo di capra alto e informe, con un lembo che mi pendeva sul dietro, sia per proteggermi dal sole, sia per impedire che la pioggia mi colasse dietro il collo, nulla essendo, in quel clima, tanto nocino quanto l’acqua che filtra sotto gli indumenti.
Avevo una corta casacca di pelle di capra, le cui falde mi scendevano fino a mezza coscia, e un paio di brache dello stesso materiale, aperte al ginocchio. Queste brache erano fatte con la pelle di un vecchio caprone, e il pelo pendeva così lungo da entrambe le parti, che arrivava fino a metà polpaccio come un paio di pantaloni. Non avevo né scarpe né calze, ma ai piedi portavo certe strane cose, non saprei nemmeno io come chiamarle, simili in qualche modo a un paio di uose, che avvolgevo intorno alle gambe e allacciavo di lato come fossero state ghette; ma di una forma barbara, come d’altronde tutti i miei indumenti.
Portavo una lunga cintura di pelle di capra essiccata, che allacciavo usando due piccole cinghie dello stesso cuoio, in sostituzione delle fibbie, e ai lati della quale, in una specie di fodero, pendevano al posto di una spada e di un pugnale, una piccola sega e un’accetta. Avevo poi una seconda cintura, meno larga ma allacciata con lo stesso espediente, che portavo a tracolla; e in fondo a questa, sotto il mio braccio, erano fissate due borse, anch’esse di pelle di capra, una delle quali mi serviva per tenervi la polvere, e l’altra le pallottole. Sulla schiena reggevo un cesto, sulle spalle il fucile, e sopra la testa un orrendo ombrello di pelle di capra, sgraziato e sbilenco, che tra l’altro era l’oggetto più utile tra quanti me ne portavo appresso, fatta eccezione per il fucile. Quanto alla mia faccia, il suo colore non era poi tanto simile a quello di un mulatto, ma invece parrebbe lecito attendersi da un uomo che non se ne curava affatto, e che viveva in un clima tropicale. Da principio mi ero lasciato crescere la barba fino ad averla lunga circa un quarto di iarda; ma poi, dal momento che forbici e rasoio non mi mancavano, me l’ero tagliata abbastanza corta. Solo sul labbro superiore mi ero lasciato crescere un paio di mustacchi alla maomettana, come ne avevo visti portare da certi Turchi che avevo conosciuto a Salé: giacché i Mori non li portavano a quel modo, mentre i Turchi sì. Non oso dire che questi miei baffi, o mustacchi, fossero tanto lunghi da potervi appendere il cappello, nondimeno erano di foggia e lunghezza così spropositate, che in Inghilterra li avrebbero giudicati né più né meno spaventosi.
Ma tutto questo sia detto per inciso. Infatti il pubblico disposto a osservarmi era così scarso, che non era il caso di attribuire la minima importanza al mio aspetto fisico.  Così abbigliato, intrapresi dunque il mio viaggio e rimasi fuori per cinque o sei giorni.


* Testo, tratto da Robinson Crusoe di Daniel Defoe, Garzanti i grandi libri, novembre 1999, XVIII edizione, pp. 159-161. Traduzione a cura di Riccardo Mainardi.

**  Fotografia, riproduzione di Robinson Crusoe scaricata free copy da internet.



sabato 28 luglio 2012

L’angelo del silenzio Il serial killer secondo James Ellroy


L’angelo del silenzio
Il serial killer secondo James Ellroy

L’ispettore dell’Fbi Thomas Dusenberry definisce così il serial killer: “Il perpetratore di una serie di omicidi singoli o multipli. Il nostro prototipo di serial killer è un maschio bianco di intelligenza superiore alla media, dai ventiquattro ai quarant’anni di età. I due elementi sopracitati sono una costante, al contrario di ogni altra caratteristica, ragione per cui questo genere di assassino è molto difficile da catturare.
“Per prima cosa, spesso i serial killer modificano il modus operandi a seconda della vittima. Possono uccidere una persona per gratificazione sessuale e un’altra per denaro. Possono strangolare una vittima e sparare a un’altra. Si sono dati i casi di serial killer che hanno stuprato una mezza dozzina di vittime femminili ignorandone sessualmente un’altra mezza dozzina.
“Questi uomini tendono inoltre a viaggiare molto e a sbarazzarsi delle vittime in modo che i corpi non vengano trovati. A parte la complessa natura della psiche di un serial killer e degli schemi del suo modus operandi, è proprio questo stile di vita vagabondo ad aumentare la loro sfuggevolezza: giocano sull’inadeguatezza del sistema di comunicazione interno alle forze di polizia della nazione.
“I cinquanta stati del nostro paese sono serviti da migliaia di agenzie di polizia. Da anni ormai il livello delle comunicazioni tra agenzie all’interno di uno stesso stato è adeguato alle esigenze di identificazione, ma lo scambio di informazioni tra stato e stato è una barzelletta, e rappresenta l’ostacolo numero uno nelle indagini su omicidi e scomparse legati da un probabile filo conduttore.”
E come si intende risolvere il problema?
“Nel momento in cui un assassino oltrepassa la linea di confine tra due stati dopo avere commesso un omicidio, diventa un criminale federale. Quello che stiamo facendo è controllare e mettere in relazione i casi irrisolti di omicidio e scomparsa di tutti i cinquanta stati, spingendoci indietro fino a dieci anni or sono. Se riusciamo a stabilire dei collegamenti tra stato e stato, richiederemo i dossier completi alle agenzie coinvolte e ci metteremo in contatto telefonico con gli investigatori dei singoli casi. Analizzeremo i casi a seconda del modus operandi, delle prove materiali, delle probabilità indiziarie e di un’altra mezza dozzina di voci indicate dai rapporti degli psicologi che collaborano con la squadra speciale. È probabile che da tutte queste informazioni emergeranno degli schemi, sui quali noi costruiremo alcune ipotesi e daremo il via alle indagini coinvolgendo agenti esperti della divisione criminale.”
La squadra speciale ha preso possesso di un’intera ala dell’accademia dell’Fbi di Quantico. Gli agenti convivo con risme di fogli bianchi, scrivanie e computer, nonché con un gigantesco cervello elettronico collegato con le forze di polizia di tutti i cinquanta stati. Chiamato “Serial Sally” da tutti gli agenti della squadra speciale, questo cervellone fungerà da punto di partenza di ogni possibile indagine. Già programmato con i dati relativi a ventisette casi risolti, Serial Sally sarà assistito da una mezza dozzina di psicologi di primordine dotati di grossa esperienza sul campo, da tre patologi specializzati in casi di omicidio e da quattro agenti della divisione criminale, uomini con alle spalle quindici e più anni di militanza nell’Fbi. Saranno loro i cosiddetti “Fantini della carta”, costantemente alla ricerca di legami, collegamenti e indizi.
“Sono molto ansioso di iniziare” ci ha dichiarato l’ispettore Dusenberry, agente responsabile della squadra speciale. “Ho già letto migliaia di pagine sull’argomento. Sono cose deprimenti, e le cifre sono sbalorditive. Un uomo nell’Alabama ha ucciso ventinove donne in due anni; a Chicago, Gacy ne ha uccise trentatré. C’è il nostro amici Ted Bundy, naturalmente, e poi ci sono le statistiche sui bambini scomparsi o presunti assassinati. E queste sono ancora più incredibili. La polizia di Anchorage, in Alaska, ha un sospetto che a quanto pare sarebbe colpevole di sessantanove omicidi, perpetrati nel giro di diciotto mesi. Il dolore dietro queste cifre è impressionante, e mi spinge a dire che il problema dei serial killer è la priorità numero uno nella lotta contro il crimine in America.”
L’ispettore Dusenberry, dal 1961 impegnato nell’Fbi, si è laureato alla facoltà di legge di Notre Dame e ha alle spalle sedici anni di esperienza con la divisione criminale, per la maggior parte passati alla supervisione delle indagini sulle rapine in banca. È sposato, ha un figlio e una figlia all’università e ringrazia il cielo che l’incarico di responsabile della squadra speciale gli sia stato affidato quando ormai i suoi due figli sono cresciuti e sua moglie è tornata a iscriversi all’università per una laurea in storia dell’arte. “Sarà un lavoro lungo e duro” ci ha dichiarato. “Il fatto che i miei ragazzi e mia moglie siano a scuola e la natura sedentaria del mio compito mi renderanno più facile applicarmi. Se fossi costretto a passare lo stesso numero di ore sulla strada e occuparmi di rapine, mi tormenterebbe saperli preoccupati per me.”

* Testo, tratto da James Ellroy, L'angelo del silenzio, Mondadori Oscar Bestsellers, gennaio 2000, I edizione, pp. 244-247.Traduzione a cura di Stefano Bortolussi.

**  Fotografia, riproduzione free copy della copertina di James Ellroy, L'angelo del silenzio, Mondadori Oscar Bestsellers, gennaio 2000, I edizione.