domenica 10 giugno 2012

Silvana De Lugnani I dolori del giovane Werther


Silvana De Lugnani
I dolori del giovane Werther

Quando Goethe nel 1789 ricordava in uno dei suoi Epigrammi veneziani come anche i cinesi decorassero le loro porcellane con le figure di Lotte e Werther, il successo del suo romanzo giovanile I dolori del giovane Werther era entrato a far parte ormai di realtà caratterizzante la cultura europea dell’ultimo ‘700. Il Werther è la prima opera della letteratura tedesca che abbia trionfalmente varcato i confini nazionali: già prima della fine del ‘700 si contavano quindici traduzioni francesi, dodici inglesi e tre italiane. Se il successo fu indiscutibile, esso non fu però incontrastato, soprattutto nella Germania di stretta osservanza luterana. Anche in Italia però non mancarono le resistenze se il vescovo di Milano mobilitò il clero della sua diocesi per acquistare – e così togliere di circolazione – tutte le copie esistenti della prima traduzione italiana.
In Germania la polemica antiwertheriana raggiunse toni elevatissimi, come dimostrano i numerosi testi che parafrasano quello goethiano parodiandolo o esplicitamente condannandolo. Le virulenza con cui censori e benpensanti si accanirono contro il Werther oltrepassa di molto i limiti di una normale querelle artistico- letteraria e testimonia della profonda carica rivoluzionaria implicita in questo romanzo apparentemente solo sentimentale e lagrimeggiante. Nelle vicende di Werther i contemporanei non videro solo la storia di un amore infelice, bensì la sfida a tutti i prìncipi che reggevano la società tedesca dell’epoca, sfida che – paradossalmente – proprio con il suicidio di Werther risultava vittoriosa.
Molto è stato detto e scritto sulla personale storia d’amore di Goethe per Charlotte Buff, storia di cui il romanzo non sarebbe che una riproduzione più o meno fedele. È indubbio che il ricordo dell’amore per la giovane Lotte, che Goethe conobbe nell’estate del 1772 a Wetzlar durante il suo periodo di pratica forense presso il locale Tribunale imperiale, abbia suggerito non pochi spunti al romanzo: la famiglia numerosa di Lotte, l’incontro al ballo, il colloquio del 10 settembre alla vigilia dell’improvvisa partenza di Werther, corrispondono talvolta – anche nei minimi particolari – alla realtà biografica di Goethe. Ma come l’Alberto non corrisponde al Johann Kestner, fidanzato e poi marito di Lotte Buff, così anche gli altri personaggi vanno considerati nella loro autonomia; volerne ricercare a tutti i costi la corrispondenza con persone realmente vissute, significa snaturarli e deformarli nella loro compiutezza artistica. Ciò è tanto più valido per la figura di Werther e per i tentativi di una sua identificazione parziale o totale con il giovane avvocato Johann Wolfgang Goethe. Fu Goethe stesso – nella risposta a Kestner che gli aveva scritto rimproverandolo di aver creato le figure del romanzo sovrapponendole a quelle reali – ad affermare recisamente l’intangibile compiutezza della sua creazione artistica e il suo diritto a una vita propria: “Werther deve, deve vivere! – Voi non sentite lui, voi sentite soltanto me e voi, voi malgrado e malgrado altri, intessuto”.
Volersi poi rifare all’interpretazione di Kestner, che vedeva nel Werther della prima parte del romanzo il giovane Goethe ed in quello della seconda parte Karl Wilhelm Jerusalem, significa distruggere l’unità del personaggio. La spiegazione di Kestner si giustifica storicamente e personalmente con la necessità di proteggere in qualche modo la propria famiglia dai pettegolezzi e dalle insinuazioni che la stavano mettendo a dura prova, ma non ha – sul piano artistico – alcun fondamento. Werther rimane Werther dall’inizio alla fine, coerente, nelle sue azioni e nei suoi pensieri, alla sua propria, indivisibile, unica personalità.
Rivendicare ai personaggi e alle vicende del romanzo un’esistenza e uno sviluppo propri non vuol dire però negare l’importanza di determinate situazioni per la genesi del romanzo stesso: dalle esperienze sentimentali del Goethe – e non solo da quella con Lotte Buff – trae vita ed immediatezza la passione amorosa di Werther. È bene ricordare a questo proposito che, tra la separazione di Lotte (settembre 1772) e la composizione del romanzo (primavera 1774) trascorse un anno e mezzo e che nel frattempo il cuore di Goethe si era acceso di nuova passione per la bella Massimiliana La Roche, fidanzata e poco dopo sposa del commerciante Antonio Brentano. Come l’esperienza diretta delle gioie e delle pene d’amore, così è rilevante il ruolo avuto, nella genesi del romanzo, della notizia del suicidio del giovane segretario d’ambasciata Karl Wilhelm Jerusalem. Non sono solo le esplicite dichiarazioni fatte da Goethe nell’autobiografia ad avvalorare questa affermazione, ma anche il viaggio improvviso che egli fece a Wtzlar dal 6 al 10 novembre del ’72 (cioè immediatamente aver appreso la notizia) e il rapporto dettagliato che richiese a Kestner sulle circostanze del suicidio.
Goethe aveva avuto occasione di incontrare Jerusalem già a Lipsia, all’inizio dei suoi studi, e l’aveva rivisto poi a Wetzlar; ma si trattava di una semplice conoscenza superficiale, non certo di un rapporto di amicizia, tale da giustificare una reazione e un interesse così vivi. Agli occhi dell’opinione pubblica il suicidio di Jerusalem venne motivato da un amore infelice che egli avrebbe nutrito per la moglie del segretario von Hofler. In realtà le cause furono molteplici e anche se questa passione ebbe parte nella disperazione di Jerusalem – come quella per Lotte nell’abbattimento di Werther – non ne fu certo causa unica e prima. L’inesistenza con cui vennero ribadite le ragioni “sentimentali” del suicidio di Jerusalem appare voluta e servì a distogliere l’attenzione da quelle che probabilmente furono le radici più profonde del gesto del giovane segretario d’ambasciata, cioè quelle sociali. Kestner, nel suo rapporto a Goethe, scrive: “Mi sembra che l’ambasciatore cerchi di distogliere completamente da sé l’attenzione e di indirizzarla su questa storia d’amore, giacché sono stati anche i dispiaceri causati da lui a determinare Jerusalem: tanto più che l’ambasciatore aveva richiesto parecchie volte il richiamo di Jerusalem ed anche recentemente gli aveva procurato dei gravi rimproveri dalla corte”.
All’origine della depressione di Jerusalem è da porre innanzitutto lo stato di umiliazione e dipendenza in cui egli si veniva a trovare nei suoi rapporti sociali e professionali. Ciò che importa sottolineare è che la situazione di Jerusalem non era un caso personale, ma rispecchiava quella di un’intera classe sociale – la borghesia – in un momento cruciale del suo sviluppo storico. In questo senso si può dire che Werther è sì Jerusalem, ma solo in quanto la sua condizione storico-sociale è quella di Jerusalem e di altri come lui e il loro problema è quello “dell’umanesimo borghese, il problema del libero e largo sviluppo della personalità umana”.
Giovane, non privo di mezzi e conoscenze, dotato d’intelligenza, cultura e sensibilità, Werther è il prototipo dell’intellettuale borghese tedesco “alle soglie della vita”. Le caratteristiche di cui è dotato dovrebbero garantirgli il successo, ma sono proprio queste – rapportate alla sua origine borghese ed alla posizione storica della borghesia tedesca – che lo condurranno al suicidio. Spezzettata dal Trattato di Westfalia del 1648 in 350 stati e staterelli, dotato ciascuno di sovranità propria, la Germania si trovava nel secolo XVIII in condizioni estrema arretratezza, storica ed economica, rispetto a nazioni quali la Francia e l’Inghilterra. Tale stato di cose aveva reso difficile e faticoso il cammino della borghesia per potersi affrancare, almeno in parte, dalla schiavitù delle corti e dell’aristocrazia. Alla mercé di un dispotismo tanto gretto quanto illimitato, ostacolata economicamente dalla selva di barriere doganali che si ergevano tra stato e stato, priva di un’unità nazionale, la borghesia tedesca non aveva potuto raggiungere quel grado di compattezza e consapevolezza che in Francia e in Inghilterra aveva permesso alle borghesie locali di raggiungere a ogni livello – economico, culturale, politico – posizioni di grande rilievo. Frustrata nelle sue aspirazioni di sviluppo economico e politico, la borghesia tedesca cercò di affermare, almeno sul piano culturale, una sua indipendenza dalle corti, stimolata anche dagli impulsi nuovi che in questo campo provenivano dalla Francia e soprattutto dall’Inghilterra. Come in questi paesi, anche in Germania l’Illuminismo fu il movimento ideologico-culturale della borghesia, portatore della sua lotta per la conquista dei suoi diritti nei confronti della classe aristocratico-feudale. Si venne così a stabilire un’etica squisitamente borghese, basata su valori quali l’onestà, la rettezza d’animo e di cuore, lo spirito di sacrificio e di rassegnazione, contrapposti agli orpelli, la corruzione, la falsità e la vanità delle corti. Il richiamo illuminista alla ragione come fattore di progresso e di emancipazione corrispondeva perfettamente a quest’etica che era anche un’etica del lavoro, della produttività, della “razionalità”. La conquista di uno spazio di valori morali e culturali autonomi nei confronti dell’aristocrazia – detentrice di nome e di fatto di ogni potere politico – era parsa a una parte della borghesia, soprattutto a quella intellettuale (scrittori, teologi, funzionari), un punto di arrivo da difendere e mantenere. Le nuove generazioni sentivano invece con particolare intensità la provvisorietà delle conquiste raggiunte e ne reclamavano il superamento per conseguire, anche sul piano sociale, economico e politico, posizioni più avanzate. In questa situazione è radicato il Werther, come tutto il movimento letterario dello Sturm und Drang, di cui il Werther rappresenta una delle espressioni più alte. L’appartenenza ideologica dello Sturm und Drang all’Illuminismo – tesi affermata ed efficacemente sostenuta da Luckàcs in polemica con quegli studiosi che ne facevano un’anticipazione del Romanticismo in contrapposizione all’Illuminismo – si spiega tenendo conto delle acute contraddizioni interne presenti nel seno della borghesia stessa, nella quale tendenze conservatrici ne frenavano l’ulteriore evoluzione, contribuendo così al permanere di quei pesanti residui feudal-assolutistici che per tanto tempo ancora costituirono una vera palla al piede per lo sviluppo politico-sociale della Germania.(...).

* Testo: dall’Introduzione a cura di Silvana De Lugnani a I dolori del giovane Werther di Wolfgang Goethe, Rizzoli, BUR Superclassici SC8, 1991 II edizione.
** Copertina: I dolori del giovane Werther di Wolfgang Goethe, Rizzoli, BUR Superclassici SC8, 1991 II edizione, scaricata free copy da internet.

venerdì 8 giugno 2012

Peppino Impastato, Amore non ne avremo

Peppino Impastato
Amore non ne avremo



E' triste non avere fame
di sera all'osteria
e vedere nel fumo
dei fagioli caldi
il suo volto smarrito.

*

Sulla strada bagnata di pioggia
Si riflette con grigio bagliore
La luce di una lampada stanca:
e tutto intorno è silenzio.

*

Bagno di sole
e d'acqua salata.
Pioggia di sguardi
e vento di risa:
il mare ne soffre
in rivolta.



* Fotografia: scaricata free copy da internet
** Poesie: liberamente tratte dal libro Amore Non Ne Avremo, Poesie e Immagini di Peppino Impastato, a cura di Guido Orlando e Salvo Vitale, Navarra Editore, 2008.

domenica 3 giugno 2012

Friedrich Dürrenmatt, due racconti


Friedrich Dürrenmatt
Natale

Era Natale. Attraversavo la vasta pianura. La neve era come vetro. Faceva freddo.  L’aria era morta. Non un movimento, non un suono. L’orizzonte era circolare. Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole. Gridai. Non mi udii. Gridai ancora. Vidi un corpo disteso sulla neve. Era Gesù Bambino. Bianche e rigide le membra. L’aureola un giallo disco gelato. Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l’aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso. Marzapane stantio. Proseguii. (1942)

La salsiccia

Un tale ammazzò la moglie e ne fece salsicce. Il fattaccio si riseppe. Il tale fu arrestato. Fu rinvenuta un’ultima salsiccia. L’indignazione fu grande. Il giudice supremo del paese avocò il caso a sé.
L’aula del tribunale è luminosa. Il sole irrompe dalle finestre. Le pareti sono specchi abbaglianti. La gente è una massa in ebollizione. L’aula ne è piena. Stanno seduti sui davanzali delle finestre. Sono appesi ai lampadari. Sulla destra luccica la testa pelata del pubblico accusatore. È rossa. Il difensore è a sinistra. Porta occhiali dalle lenti finte. L’accusato siede tra due poliziotti. Ha grandi mani. Le dita orlate di blu. Su tutti troneggia il pubblico supremo. La sua toga è nera. La barba una bandiera bianca. Seri gli occhi. Chiara la fronte. Irte le sopracciglia. La sua espressione è umanità. Davanti a lui, la salsiccia. Poggiata su un piatto. Sopra il giudice troneggia la giustizia. Ha gli occhi bendati. Nella mano destra regge una spada. Nella sinistra una bilancia. È di pietra. Il giudice supremo alza la mano. La gente tace. I movimenti si bloccano. La sala si placa. Il tempo incombe. Il pubblico accusatore si alza. Il suo ventre è un mappamondo. Le labbra una ghigliottina. La lingua una mannaia. Le parole martellano nell’aula. L’accusato trasale. Il giudice ascolta. Fra le sopracciglia si staglia una rapida ruga. I suoi occhi sono due soli. I loro raggi colpiscono l’accusato. Questi si accascia. L ginocchia gli tremano. Le mani pregano. Gli pende la lingua. Le sue orecchie sporgono. La salsiccia davanti al giudice supremo è rossa. Sta quieta. Gonfia. Le estremità sono tonde. Lo spago in cima è giallo. Riposa. Il giudice supremo guarda giù, sull’infinito degli uomini. Che è piccolo. Come cuoio la pelle. La bocca un becco. Le labbra sangue disseccato. Gli occhi capocchie di spillo. La fronte piatta. Le dita grasse. La salsiccia ha un odore gradevole. Si fa più vicina. La pelle è ruvida. La salsiccia è morbida. È dura. L’unghia lascia un’impronta a forma di mezzaluna. La salsiccia è calda. La sua forma è soffice. Il pubblico accusatore tace. L’accusato alza il capo. Il suo sguardo è un bimbo torturato. Il giudice supremo alza la mano. Il difensore balza in piedi. Gli occhiali danzano. Parole saltellano nella sala. La salsiccia sprizza. Il difensore tace. Il giudice supremo guarda l’accusato. Che sta giù in basso. È una pulce. Il giudice supremo scuote il capo. Il suo sguardo è disprezzo. Il giudice supremo comincia a parlare. Le sue parole sono spade della giustizia. Cadono come montagne sull’accusato. Le sue frasi sono lacci. Sferzano. Strangolano. Uccidono. La carne è tenera. È dolce. Si disfa come burro. La pelle è un po’ più tenace. Le pareti rintronano. Il soffitto minaccia. Le finestre stridono. Le porte si scuotono nei cardini. Le mura protestano. La città impallidisce. I boschi si disseccano. Le acque evaporano. La terra vibra. Il sole muore. Il cielo crolla. L’accusato è condannato. La morte spalanca le fauci. Il coltellino si adagia sul tavolo. Le dita sono appiccicose. Scorrono sulla toga nera. Il giudice supremo tace. L’aula è morta. L’aria pesante. I polmoni pieni di piombo. La gente trema. L’accusato è incollato alla sedia. È condannato. Può fare un’ultima richiesta. Sta rannicchiato. La richiesta gli sguscia dal cervello. È piccola. Cresce. Si fa gigantesca. Si addensa. Si plasma. Disserra le labbra. Irrompe nell’aula giudiziaria. Risuona. Il perverso maniaco omicida vorrebbe mangiare quello che avanza della povera moglie: la salsiccia. L’orrore è un grido. Il giudice supremo alza la mano. La gente ammutolisce. Il giudice supremo è un dio. La sua voce è la tromba del giudizio. La sua voce è la tromba del giudizio. Acconsente alla richiesta. Il condannato può mangiare la salsiccia. Il giudice supremo guarda il piatto. La salsiccia è sparita. Tace. Il silenzio è cupo. La gente guarda il giudice supremo. Gli occhi del condannato sono spalancati. Dentro, c’è una domanda. La domanda è terribile. Fluisce nella sala. Cala sul pavimento. S’affigge alle pareti. Si rannicchia alta sul soffitto. S’impadronisce d’ognuno. La sala si dilata. La sala diventa un immenso punto interrogativo. (1943)

* Testo: Friedrich Dürrenmatt, Racconti, traduzione di Umberto Gandini, Feltrinelli U.E. 1384, 1996, I edizione
** Fotografia: Copertina del libro Friedrich Dürrenmatt, Racconti, Feltrinelli U.E. 1384, 1996, I edizione, scaricata free copy da internet