domenica 31 luglio 2011

Luca Moretti, l'intervista


Intervista a Luca Moretti
autore di Il senso del piombo, Castelvecchi
31 luglio 2011


1) Di che cosa parla il tuo ultimo lavoro e quanto la realtà incide sui temi della tua scrittura?
Il mio nuovo romanzo narra delle vicende dei Nuclei Armati Rivoluzionari, il gruppo eversivo fondato da Giusva Fioravanti operante in Italia alla fine degli anni '70. I protagonisti hanno nomi di battaglia, ma gli avvenimenti che racconto sono totalmente reali, anzi sono alcune delle ferite più grandi che l'Italia si porta dietro da oltre trenta anni. La realtà incide sui temi della scrittura, la realtà manipola la scrittura anche se spesso si pensa il contrario, la realtà ha ormai superato la fiction, in barba al detto "bigger than life", basta vedere il proliferare dei reality show in tv...

2) Quali sono stati gli Autori che ti hanno influenzato di più e perché?
Io ti posso dire quelli che amo: Ellroy, Bunker e Lansdale per fare qualche nome americano, ma anche molti italiani: il Camilleri non seriale de "La presa di Maccallè"  per esempio, ma anche De Cataldo e Evangelisti. Mi piace il nero, le storie non ancora del tutto risolte, la lingua salvifica delle strade.

3) Che cosa vuol dire oggi essere uno scrittore?
Fondamentalmente avere una grande passione e fare un altro mestiere per campare. Almeno nel mio caso, certo si può anche essere ricchi, a quel punto rimane la passione... 

4) Quali sono gli ultimi libri che hai letto? E hai mai comprato o letto un’opera in e-book?
Ultimamente ho letto un mucchio di saggi sugli anni di piombo, mi sono un po' inaridito, colpa del lavoro propedeutico alla stesura del romanzo. Non amo gli e-book, ma tutti i miei libri sono in copyleft e quindi vengono rilasciati in rete con licenza Creative commons. Credo molto nella circolazione digitale delle opere creative, potrebbe migliorare il rapporto autore-fruitore azzerando gli intermediari. Purtroppo sembra che gli e-book stiano diventando l'ennesimo escamotage commerciale di grandi gruppi industriali che si fanno la guerra.

5) Che cosa ne pensi della “rivoluzione” in atto nel mondo dell’Editoria e che rapporto hai con la tecnologia?

Ecco, appunto, non credo ci sia rivoluzione nel mondo dell'editoria, stanno solo cambiando i supporti, le storie sono sempre quelle, per fare la rivluzione servono le armi.

6) Qual è il futuro del libro? 
Amici che lavorano nel settore dicono che in pochi anni avremo solo e-book. Non saprei, per me il digitale è una realtà, la rivista che dirigo è digitale (TerraNullius.it), i miei libri vengono rilasciati in maniera digitale, questa intervista è digitale. Secondo me la tecnologia non cambia le "storie" ma solo i rapporti di produzione, non mi preoccupa, la vedo come una cosa naturale.

7) Hai nuovi progetti in cantiere?
Sto facendo le ultime correzioni a una raccolta di racconti che ho scritto con un noto rapper romano, uscirà a ottobre per Castelvecchi. Stay tuned!




Produzione, Ithaca ©

sabato 30 luglio 2011

Luca Moretti, Il senso del piombo




*
 Luca Moretti
Il senso del piombo
Castelvecchi, pp. 127


** IL LIBRO – «Cosa vuoi fare nella vita?»; la scritta campeggia su un enorme manifesto della Scuola Radio Elettra, di fronte all’entrata di un’armeria romana. Gli anni Settanta sono agli sgoccioli, ma per un pungo di giovani pronti a tutto quel messaggio pubblicitario appare come semplicemente assurdo. Loro sono i guerrieri del nulla, i cavalieri senza sonno, non hanno in mente un chiaro progetto politico e persino i loro riferimenti ideologici sono ambigui: schegge impazzite di un anarchismo maturato in seno all’isolamento della Destra convenzionale e destinato ad esplodere nelle strade delle città italiane. Questi sono i protagonisti di un fenomeno tutto nuovo ribattezzato con il nome di “spontaneismo armato”: giovani protetti da nomi di battaglia che uccidono e vengono uccisi mentre un’intera nazione precipita in un intreccio di trame oscure, segretamente intessute da spregevoli soggetti al soldo dello Stato. Ambientato in un periodo compreso tra il rogo di Primavalle e l’arresto del “Tenente”, capo dei micidiali “guerrieri del nulla”, Il senso del piombo costruisce un’intensa narrazione epica, metafora palese di un’Italia oscura e violenta, dove chiunque può stringere un’arma e fare fuoco per manifestare la sua rabbia, facendosi ribelle, carnefice e, irrimediabilmente, pedina del sistema.

DAL TESTO – «Mi chiedete chi è Carlos Reutemann, se esiste un'organizzazione dietro questa sigla. Rispondo no, non è stata la sigla di un'organizzazione unica, con organi dirigenti, con capi, programmi e riunioni periodiche. Non esiste un'organizzazione che abbia questo nome e che sia comparabile alle Brigate Rosse o a Prima Linea. Non esiste nemmeno un livello minimo di organizzazione. Ogni gruppo armato che si è formato anche occasionalmente nel nostro ambiente, fosse anche per una sola azione, ha potuto usare questa sigla. D'altra parte non c'è stato modo per impedirlo. Mi chiedete se siamo o siamo stati fascisti, vi rispondo che i fascisti del dopoguerra non sono mai esistiti e che candidamente qualcuno può solo aver pensato, o per meglio dire immaginato, di essere fascista. Di Mussolini non me n'è mai importato niente: non ho mai pensato che fosse una gran persona. Quando sentivo dire: "Uccidere un fascista non è reato" non pensavo al Duce o al Ventennio, ma all'unica persona fascista che conoscessi, mia madre. Ci siamo semplicemente schierati da quella parte che ritenevamo essere più debole, numericamente inferiore, contro un Sistema oppressivo e soffocante. Abbiamo interiorizzato l'immagine un po' parodistica del camerata che fa le cose solo perché i superiori gli dicono di farle. In numero ancora più ristretto abbiamo seminato la disobbedienza tra quelle fila, abbiamo pensato di poter cambiare il mondo con la forza, abbiamo distrutto la nostra vita e quella di molte altre persone per questo».
  L’AUTORE – Nato a L’Aquila nel 1977, Luca Moretti vive e lavora a Roma. Fondatore della rivista “TerraNulliius”, dirige i corsi di scrittura creativa organizzati dalla cooperativa sociale Agorà e cura la collana di narrativa minimale “Microlit” (18:30 edizioni). Tra i suoi libri, oltre al romanzo Cani da rapina (Purple Press, 2009), il graphic novel Non mi uccise la morte, sceneggiato per le matite di Toni Bruno e pubblicato dalla Castelvecchi (2010).

* In copertina il booktrailer
** La recensione  è presa dal sito: www.archiviostorico.info

giovedì 28 luglio 2011

Gioacchino Lonobile, 13 marzo 1815


 *




Napoli  li 13 Marzo 1815


Eccellenza  arcivescovo di Taranto, caro amico,
sono questi tempi maturi per agire, per  avere il vantaggio della sorpresa sul nemico.
Vogliate ricordare la notte in cui parlammo di tale ipotesi e come con entusiasmo eravate favorevole.  I recenti fatti ci costringono ad accelerare le decisioni, a spronare gli animi, affinché questo popolo possa finalmente unirsi sotto il regno del fuoco ai piedi dei quattro vulcani. Ho già esortato l’imperatore ad agire di conseguenza.
Vi scrivo perché necessito del vostro aiuto.  
Possiate concedermi le vostre preghiere, e accogliere nella sua terra un giovane a me molto caro.
È costui il figlio di un amico fraterno che ha sacrificato la sua in cambio della mia vita.
Ragazzo  di spirito nobile, di grande ingegno, nonostante la giovane età, appassionato di scienze, lettere e arte. Anch’egli animato dal furore degli eventi, e d’aspirazioni d’Italianità, contro l’austriaca dinastia e il suo assoluto dominio che vorrebbe incatenare anche il pensiero di questa gente, ma è ancor troppo giovane per rendere servizio alla sua futura patria.
Vogliate prendervi cura di lui e custodirlo come se fossi io stesso.
Sempre vostro debitore
Gioacchino Murat re del regno di Napoli e Sicilia.

Quella lettera di presentazione, poche monete, destinate all’affitto dei cavalli e ad altre piccole spese, tra cui i doni per ricambiare l’ospitalità ricevuta, e un taccuino, su cui trascrivevo ciò che maggiormente colpiva la mia attenzione, erano i miei unici bagagli.
Già dopo pochi giorni dalla partenza, la sorte non mi fu favorevole, infatti, come spesso succede, soprattutto nei lunghi viaggi, ebbi a imbattermi in un gruppo di briganti. Il primo uscito dal bosco mi bloccò la strada, due furono alle mie spalle, vidi altre ombre come spiriti muoversi tra gli alberi. Fui depredato delle monete e devo ringraziare il loro capo se, mosso a compassione, non mi uccise e anzi mi lasciò due zecchini d’oro per poter in parte completare il mio viaggio. Errai per le terre campane e usai metà dei miei averi per viaggiare con dei mercanti diretti alla città della famosa disfida, Barletta.
Il mio intento era fermarmi il tempo necessario a mettere da parte il denaro per  raggiungere il consigliere di Stato, ministro di Murat e dignitario dell’ordine reale delle due Sicilie, l’arcivescovo di Taranto Giuseppe Capelastro.
A Barletta la figura del re non godeva di alta stima, visto che pochi anni prima aveva fatto sopprimere tutti gli Ordini monastici cui aveva requisito gli edifici conventuali e gli altri beni. Si sa che spesso il malcontento ecclesiastico si traduce in quello popolare, quindi in quei luoghi le mie credenziali avevano ben poco valore. Inoltre, nello stato di cose presente, di guerre, tumulti e rivolte, pochi avevano voglia di ascoltare un giovane viaggiatore e nessuno era disposto a dargli un lavoro. I tempi di permanenza, nonostante i miei sforzi, dovettero allungarsi notevolmente.
Se le mie giornate passavano alla ricerca di un lavoro, di un posto dove dormire e di qualcosa da mangiare, il re, mio mentore, aveva ben altro di cui occuparmi. In meno di due mesi, aveva dichiarato guerra all’impero austriaco, con il proclama di Rimini esortato gli italiani all’unità nazionale, conquistato con il suo esercito Bologna, occupato Firenze, era stato sconfitto a Occhiobello e a Casaglia, aveva abbandonato Bologna e, sconfitto nella battaglia del Tolentino, era stato in fine costretto a rifugiarsi in Francia. Il 20 Maggio di quel 1815 gli austriaci ponevano sul trono del regno di Napoli e di Sicilia Federico IV di Borbone.
La lettera di presentazione, che conservavo gelosamente dalla mia partenza, poteva essere considerata ora più che al mio arrivo carta straccia, se non addirittura pericolosa alla mia incolumità.
A Barletta avevo percorso infinite volte le strade che univano la statua di Arè, davanti la basilica normanna, a via Nazareth, inoltrandomi verso destra fino alla piazza circondata da case color porpora, che testimoniavano il sangue versato a causa delle turpi parole di Charles de la Motte, per arrivare al castello che a tanti cavalieri, in partenza o in arrivo dalla Terra Santa aveva dato ricovero, bussando ad ogni porta e ad ogni bottega, e sempre con esiti negativi. Avevo speso il resto dei miei averi per sopravvivere, il taccuino era tutto ciò che mi restava.
Fu solo quando avevo completamente consunto le mie già logore scarpe che mi trovai davanti al palazzo che fu degli Orsini passato poi alla famiglia della Marra, sulla cui facciata erano poste la statua della vecchiaia e della giovinezza.
Il grande portone era aperto per metà.  Bussai, ma nessun rumore tradì presenza umana. Urlai verso l’interno, la mia voce rimbombò nel loggiato e tra le colonne. Ma senza risposta.
Le aspettative che quell’imponente facciata, e l’aria della tarda primavera, avevano fatto nascere in me sembravano essere state tradite. Voltai l’angolo, quando, dopo pochi passi, una voce mi chiamò. Mi girai, era un uomo dagli strani abiti e con un copricapo di feltro rigido e bombato di colore nero. Mi avvicinai.
-          Chi cercava?- domandò
-          Venivo per chiedere lavoro come garzone- risposi
Mi guardò a fondo, mi fece segno di seguirlo verso l’entrata del palazzo.
-          Cosa sa fare?-
Alzai le spalle.
-          Vi stavo aspettando- affermò
-          Mi stavate aspettando?
-          Vi  stupisce? Io sono Renato Madritto, pittore.
Quel nome non mi ricordò nulla, nonostante, scoprii in seguito, avesse già una certa fama. Mi condusse al primo piano, in una sala aveva allestito il suo studio. La stanza era abbastanza grande da contenere molte tele, diversi cavalletti, un grande tavolo, delle sedie, un letto, una libreria e due armadi. A prima vista il maestro dedicava le sue opere di più grandi dimensioni ai ritratti, e ai paesaggi le tele più piccole, ma in questi ultimi l’artista riusciva maggiormente  a trasmettere  la passione per le campagne barlettane.
Gli raccontai che partito da Napoli avrei dovuto incontrare i miei genitori a Taranto, delle mie disavventure con i briganti, del restante viaggio e della permanenza in città, non feci cenno al resto. Mi ascoltò interessato, poteva offrirmi solo vitto e alloggio, accettai comunque.
Passai le prime settimane di lavoro a riordinare il caos che regnava, a pulire, lavare pennelli e a cucinare. Il maestro usciva la mattina molto presto e tornava a pranzo, stava realizzando un ritratto a una nobildonna di cui non fece il nome. Il pomeriggio era intensamente assorto nel dipingere i paesaggi, ma dei risultati finali difficilmente rimaneva soddisfatto. Dopo cena si ritirava in uno stanzino, la cui porta era completamente coperta da quadri. A quella stanza non avevo accesso, ed era forse quel divieto ad accrescere la mia curiosità e il suo mistero.
In quei giorni, di esilio forzato, sentivo la speranza morirmi dentro e Taranto sempre più lontana.
Per le strade si parlava di un congresso a Vienna che avrebbe risolto le sorti del mondo aprendo un’epoca di Restaurazione, dove regnassero monarchie di diritto divino, e che smentisse la capacità degli uomini di costruire e guidare la storia con la ragione. Il venti giugno si venne a sapere che nella battaglia di Waterloo Napoleone aveva subito la sua sconfitta definitiva. Fu lo stesso giorno in cui il maestro, consegnato il quadro alla nobildonna, mi regalò una moneta, contento del lavoro che avevo svolto. Mi annunciò che la mattina seguente, alle quattro, saremmo dovuti partire per la campagna.
All’albeggiare, quando la luce rende più sicuri i passi, ma il sole deve ancora sorgere, avevamo trovato il posto, posizionato il cavalletto, le tele, i colori, le tavolozze e i pennelli, l’aria estiva rendeva mite la temperatura già a quell’ora.
-          Tra poco la luce sarà ideale- disse il maestro.
Poi rimase seduto tutto il giorno a guardare un punto lontano all’orizzonte,  cambiando posizione solo quando gli offrii del pane e formaggio, che mangiò meditabondo. Rimanemmo fino al tramonto e fummo a casa che era buio da tempo. Io andai subito a letto, distrutto dalla fatica, lui si chiuse nello stanzino. Quelle stesse azioni si ripeterono per le due settimane successive, con gli stessi risultati di quel primo giorno, il maestro non tracciò un solo segno, nonostante continuasse a farmi trasportare l’intera attrezzatura per chilometri nelle campagne. Finché un giorno decise che non avrebbe più dipinto quel paesaggio.
*

Stavo sciogliendo della colla di pesce per l'imprimitura di alcune tele, quando il maestro mi annunciò che stava uscendo, fatto strano visto che non parlava da giorni e aveva, inoltre, passato le ultime settimane in casa, chiuso nello stanzino, uscendone solo per mangiare.
Appena fu fuori il mio sguardo cercò la piccola porta coperta dai quadri. Mi avvicinai, era aperta, entrai e da allora riuscii a vedere la realtà in maniera diversa.
In vero la piccola stanza, a un primo sguardo, non aveva nulla di strano, niente che potesse celare un mistero, tuttavia non ero per nulla tranquillo, una mia presenza in quel posto avrebbe potuto accendere le ire del maestro, che mi aveva espressamente vietato d’entrare.  
Le pareti erano piene di quadri, sicuramente diversi dalle altre opere che il maestro era solito dipingere, non erano né ritratti, né paesaggi, o forse erano entrambi, ad ogni modo la loro visione mi sconvolse, mai avevo visto nulla di simile.
Gli accostamenti inconsueti che conteneva mi lasciarono basito. Quale artista aveva mai avuto la capacità o anche solo l’ardire di mettere su tela la libera associazione delle sue idee? Ad ogni nuova visione mi sembrava di perdere i sensi e di entrare in un mondo incantato, da sogno, dove tutto diventava possibile. Iniziai a osservarli meglio, per cercare di decifrarli.
Un uomo e una donna, con il volto coperto da un panno bianco, si baciavano, come a volersi  scambiare un amore muto. Una stanza, all'interno della quale trovavano collocazione oggetti di uso comune: un pettine, un fiammifero, un bicchiere e un pennello da barba, ma dalle dimensioni enormi, quasi fossero elevati a strumenti indispensabili al quadro e alla vita stessa dell’inquilino di quella stanza. Una montagna sospesa in aria, come fissata al cielo, sopra il mare, alla cui estremità era scolpito un castello, con cui formava un unicum senza particolari, generava in me una sensazione di congelamento, anzi di pietrificazione. Ad ogni nuova tela la fantasia del maestro mi trovava impreparato. Il ritratto di un uomo con un naso a proboscide che terminava nella pipa che stava fumando, con dietro una candela di forma agile e morbida, liquefatta. Un enorme masso posto all’interno di una stanza in prossimità di una finestra che pareva guardare il mare.  Una mela che occupava un’intera stanza. Tutte le opere fondevano la realtà con l’astratto, il visibile con l’invisibile. Un ombrello con un bicchiere di vetro sopra, un uomo che dipingeva una donna che sembrava prender vita, scarpe che mutavano il loro aspetto in quello di piedi. Mondi mai visti, almeno da una mente sana. La rappresentazione dell'universo dell'uomo e delle sue conoscenze. Il dubbio davanti a ogni immagine, gli interrogativi profondi sul rapporto tra noi e il mondo esterno, sulla libertà del pensiero e sul sogno. Quelle opere non narravano di regni, regnanti e povera gente, ma di qualcosa di più reale della stessa realtà, una soprarealtà.

*

-          Puoi riempire la mia pipa?
Fui destato, sorpreso in flagranza, ebbi un soprassalto, da quanto tempo ero in quel luogo? Così rapito dai dipinti da  non aver sentito il maestro tornare.
-          Allora? Puoi riempire la pipa?- chiese nuovamente mostrandomi una tela su cui era dipinta una pipa, con sotto la scritta :"Ceci n'est pas une pipe"
-          N…no- balbettai
-          Certo che no, è solo una rappresentazione, quindi se avessi scritto che è una pipa, avrei mentito.
-          Cosa vuol dire tutto questo?
-          Ad un certo punto della mia vita, iniziai a vedere i  particolari e le sfumature di un qualunque paesaggio reale, come se fossero un  fondale, da cui avrei potuto al massimo ottenere un’immagine, ma non la realtà.  Iniziai allora a escludere dalla vista  tutti gli elementi che l'esperienza immediata situava all'altezza dei miei occhi, sostituendoli con i miei pensieri, le mie angosce e miei sentimenti, cercai poi di dipingere queste visioni. Mi si aprirono infinite possibilità, vedevo il mondo con lo stupore della fanciullezza  e la coscienza della vecchiaia. In queste mie opere, ho creato la sorpresa, mettendo in discussione il mondo reale attraverso la rappresentazione di oggetti così familiari da essere invisibili. Ho fatto in modo che rompessero il silenzio che accompagna le loro esistenze materiali e li ho fatti urlare.  
-          Urlare, ma per dire cosa?
-          Cercare di capire cosa dicono, vuol dire svelarle e perderne la poesia, vuol dire sentire il mistero e cercare di liberarsene, averne paura.  Per apprezzare il mistero, un’opera  non deve essere spiegata e compresa, ma osservata. È compito dell’artista creare il mistero assoluto, esso deve esistere affinché la realtà sia possibile.
Fu quella la lezione più importante che mi è mai stata data.
-          Questo è il denaro che ti serve per il tuo viaggio, il tuo compito qui è concluso, hai tutti gli strumenti, e hai imparato quello che dovevi.

*

Sarei  finalmente partito per  Taranto, ma non ebbi modo di preparare le mie poche cose  che  arrivò la notizia.
Gioacchino Murat, raggiunta la Corsica con pochi uomini, aveva tentato l’approdo a Napoli, sicuro dell’appoggio popolare, per riconquistarla, ma una tempesta aveva dirottato le navi a Pizzo. Il re e i suoi si nascosero, per le campagne calabresi, dall’ira delle armi nemiche, e non sarebbero stati scoperti senza il tradimento amico. Processato e condannato a morte, gli viene concesso di dare l’ordine al plotone di ucciderlo.
Il 13 ottobre 1815 moriva Gioacchino Murat re di Napoli e di Sicilia. L’arcivescovo Capelastro si ritirava a vita privata. 

Gioacchino Lonobile


* Copertina: Magritte (Lessines 1898 - Bruxelles 1967), La chiave dei sogni, 1935

mercoledì 27 luglio 2011

Agota Kristof, biografia essenziale.


*



** Agota Kristof è nata il 30 ottobre 1935 a Csikvánd (Ungheria), un villaggio “privo di stazione, di elettricità, di acqua corrente, di telefono”. Nel 1956, in seguito all'intervento dell'Armata Rossa in Ungheria per soffocare la rivolta popolare contro l'invasione sovietica, Agota Kristof fugge con il marito e la figlia in Svizzera, a Neuchâtel, dove impara il francese e dove ha vissuto fino alla sua morte.
Raggiunge il successo internazionale nel 1987, con la pubblicazione de Le grand cahier (Il grande quaderno), che viene eletto "Livre Européen". Le grand cahier confluirà, insieme a La preuve (La prova) e Le troisième mensonge (La terza menzogna), nella Trilogie (Trilogia della città di K.), il riconosciuto capolavoro letterario di Agota Kristof, stampato in oltre 30 paesi.

Opere tradotte in italiano

§  Quello che resta (in seguito Il grande quaderno), Milano, Guanda, 1988.
§  La prova, Milano, Guanda, 1989.
§  Trilogia della città di K. (Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna), Torino, Einaudi, 1998. 
§  La chiave dell'ascensore. L'ora grigia, Torino, Einaudi, 1999.
§  Ieri, Torino, Einaudi, 2002.
§  La vendetta, Torino, Einaudi, 2005.
§  L'analfabeta. Racconto autobiografico, Bellinzona, Casagrande, 2005.
§  Dove sei Mathias?, Bellinzona, Casagrande, 2006.

* "La chiave dell'ascensore" di Agota Kristof ; interprete Francesca Palmas, regia Massimo Palazzini.
** La biografia essenziale è tratta da Wikipedia.